Il cda di viale Mazzini vota e si spacca per un ricorso contro il
governo, proprio nel giorno del successo di RaiWay in Borsa. Forse il
premier deve decidersi a rimuovere il rudere della legge Gasparri.
Le persone sono quasi sempre sostituibili, e ieri i
consiglieri d’amministrazione della Rai hanno confermato che il loro
tempo è abbondantemente scaduto anche se il loro mandato dovrebbe
trascinarsi fino al giugno prossimo. Micidiale a loro carico la
coincidenza degli eventi: il voto a maggioranza (opposizione di Todini,
astensione di Tarantola, dissenso di Gubitosi) col quale è stato deciso
il ricorso avverso il prelievo di 150 milioni poi confluito
nell’operazione governativa degli 80 euro è arrivato nelle stesse ore
nelle quali si tiravano le somme della privatizzazione di RaiWay,
anch’essa fortemente voluta dal governo Renzi più o meno nello stesso
periodo e contro lo stesso fronte che si batte per non cedere un euro
del tesoretto aziendale allo sforzo di risanamento generale.Il raffronto tra i due eventi è imbarazzante.
La quota di minoranza della società delle torri Rai ha attirato
sottoscrittori da tutto il mondo, con una presenza massiccia di grandi
fondi d’investimento. Un aumento in Borsa di oltre il 4 per cento. Un
afflusso di denaro di gran lunga superiore alla dimensione del prelievo
dei 150 milioni. Risorse messe a disposizione dell’innovazione. Un
esempio raro, ma importantissimo in un momento di crisi, di ciò che
significa valorizzare gli asset del paese. Una figuraccia per il partito
trasversale della conservazione integrale, dai sindacati interni a
Maurizio Gasparri, eroe eponimo dell’attuale governance di viale Mazzini.
Appunto, la governance. Perché mentre i nomi sono appunto
sostituibili, ciò a cui ancora non s’è messo mano è il sistema, fermo al
metodo Gasparri di dieci anni fa, che è come dire la preistoria non
solo per la politica ma anche per le telecomunicazioni, per la finanza,
per le logiche aziendali.
Un po’ per volontà, un po’ per una questione di priorità, qui la mano
dell’inversione di rotta renziana non s’è ancora vista. L’ultima volta
che la sinistra s’è affacciata al tema fu quando Bersani, nel 2012,
stretto tra la morsa anticasta e gli obblighi che la legge assegna al
parlamento sostanzialmente svicolò, rimettendo alla mitica “società
civile” la scelta dei due consiglieri spettanti al centrosinistra.
Fino a ieri, per due anni, è stato impossibile verificare i benefici
di quella mossa: Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi, non pervenuti.
Ieri però sono tornati a far parlare di sé, votando per il ricorso
aziendale contro il governo e dando la stura a ogni (improbabile)
sospetto di vendetta trasversale ai danni di Renzi.
Se a questa vicenda affianchiamo l’altra, incredibile, dei partiti
(Cinquestelle in testa) che hanno offerto sponda a chi resiste alla
riorganizzazione e razionalizzazione dell’offerta informativa Rai
(sempre lo stesso partito trasversale della difesa dell’indifendibile),
il cerchio è completo. Sarà una partitocrazia 2.0, ma sempre
partitocrazia è, col baldo grillino Roberto Fico a guidare la Vigilanza
Rai per le palazzine di Saxa Rubra, diffondendo la rassicurante idea che
da quelle parti non si sposterà neanche un cassetto. «Difesa del
servizio pubblico», la chiamano, come ogni volta che valori alti e
importanti sono evocati per giustificare l’arroccamento: in questo caso,
più che di fronte alle novità o alle ingerenze del governo, di fronte
alla ragionevolissima possibilità di un default aziendale.
Dopo lo scontro sui 150 milioni, Renzi s’è affacciato in Rai solo per
i suoi frequenti messaggi agli italiani. È evidente come abbia voluto
lasciare la situazione interna “evolvere” in modo autonomo, dovendosi
occupare d’altro.
Avrà fatto anche bene, certo il consiglio d’amministrazione non ha
ripagato la cortesia. Ricordando a tutti che, per quanto l’agenda del
premier sia affollata, è davvero arrivato il tempo, innanzi tutto
nell’interesse della stessa Rai e dei suoi utenti, di cancellare il più
famoso atto di governo dello statista Maurizio Gasparri.
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