giovedì 27 novembre 2014

La road map contro le trappole in Aula.


Corriere della Sera 27/11/14
corriere.it
Il Parlamento voleva la «prova di fedeltà» e Renzi gliel’ha data: i voti sulla riforma del bicameralismo alla Camera e quello sulla legge elettorale al Senato slittano a gennaio. E il cambio d’agenda del premier non è altro che una proposta di un gentlemen agreement con tutte le forze politiche, compresa la minoranza del Pd. Sgombrando il campo dai soliti sospetti sull’ipotesi — peraltro impraticabile — del voto in primavera, Renzi confida di sminare il sentiero dei due provvedimenti, riducendo i rischi delle trappole, di quei voti a scrutinio segreto che potrebbero far saltare il suo disegno.

Il patto offerto è chiaro: mettendo in sicurezza le sue riforme, il segretario democrat offre la messa in sicurezza della legislatura almeno fino al 2016. D’altronde lo scambio è per certi versi necessitato, visto l’ingorgo di fine anno in Parlamento: c’è da votare la legge di Stabilità e da approvare il Jobs act, a cui dovrà seguire l’immediato varo del decreto attuativo sulla riforma del lavoro, come Renzi ha promesso a Bruxelles. Ciò non vuol dire che i percorsi di modifica del bicameralismo e dell’Italicum saranno altrettante passeggiate, è chiaro che la Camera vorrà modificare il testo della riforma costituzionale con cui si punta al monocameralismo, così come il Senato vorrà riscrivere alcune parti della legge elettorale.

Il governo, prima di attraversare i canyon del Parlamento, conosce già quali saranno i punti degli agguati, là dove gli avversari di Renzi proveranno ad affossarlo: per un verso il tentativo (sulla riforma costituzionale) di ripristinare il Senato elettivo; per l’altro (sull’Italicum) di far saltare il premio di maggioranza alla lista, modificare il sistema delle candidature bloccate e introdurre il meccanismo dell’apparentamento per le forze più piccole in caso di ballottaggio. Ogni emendamento nasconde accordi segreti trasversali, ogni passaggio — se non venisse gestito — farebbe scattare la trappola, con ripercussioni politiche pesanti per il premier, assediato dai partiti di maggioranza e opposizione che sull’Italicum vogliono la norma transitoria con cui rendere inapplicabile la legge elettorale fino alla modifica del bicameralismo...

È un sentiero di guerra, insomma, preludio alla madre di tutte le battaglie: la corsa al Quirinale. Ecco lo snodo che il leader democratico teme più di ogni altro, e certo il cambio di road map sulle riforme non lo aiuta, perché l’intreccio lo espone a gravi insidie. Il patto del Nazareno all’apparenza vivo, in realtà Renzi sa che non è più così, che le apparenze potranno nascondere la verità (forse) fino all’approvazione al Senato dell’Italicum. Ma Berlusconi — sebbene debole nel Paese e persino nel suo partito — vuole prima garanzie sul futuro inquilino del Colle.

Formalmente sarebbe quello l’atto conclusivo dell’accordo, ma il patto non c’è già più, tra i due non c’è più nemmeno voglia di parlarsi. E se partisse ora la sfida per il Colle, sarebbe davvero una scommessa. Ecco cos’ha spinto il premier all’estremo tentativo di convincere Napolitano a restare, «almeno fino alla festa dell’Unità d’Italia, presidente», cioè fino al 17 marzo. Siccome non sarà così, Renzi si trova a dover tracciare una rotta senza un sestante, tra gli scogli di un Parlamento dove il Pd è diviso in tre tronconi e Forza Italia divisa in due, con Ncd e Udc che formalmente si promettono di marciare uniti, la Lega pronta all’agguato, i Cinquestelle assetati di rivincita. E tutti vorranno contare. I senatori del gruppo delle Autonomie hanno persino fatto un comunicato: «Siamo in sedici, ci siamo capiti...».

Il risiko è iniziato, e in questa confusione Renzi potrebbe restar vittima della nemesi, anzi peggio. Perché — dopo l’affossamento di Marini e Prodi — si stese la rete di protezione con Napolitano. Ma ora? Ora il premier dovrà proporre ufficialmente alle forze politiche una linea di condotta, che è già pronta: il «metodo» è il rapporto con l’opposizione, il «modo» è l’intesa da ricercare con Forza Italia, il «nome» è il candidato da condividere. Il rischio è che si arrivi a un «presidente per caso», frutto della casualità e simbolo di una sconfitta politica.

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