Corriere della Sera 27/11/14
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Il Parlamento voleva la «prova di
fedeltà» e Renzi gliel’ha data: i voti sulla riforma del
bicameralismo alla Camera e quello sulla legge elettorale al Senato
slittano a gennaio. E il cambio d’agenda del premier non è altro
che una proposta di un gentlemen agreement con tutte le forze
politiche, compresa la minoranza del Pd. Sgombrando il campo dai
soliti sospetti sull’ipotesi — peraltro impraticabile — del
voto in primavera, Renzi confida di sminare il sentiero dei due
provvedimenti, riducendo i rischi delle trappole, di quei voti a
scrutinio segreto che potrebbero far saltare il suo disegno.
Il
patto offerto è chiaro: mettendo in sicurezza le sue riforme, il
segretario democrat offre la messa in sicurezza della legislatura
almeno fino al 2016. D’altronde lo scambio è per certi versi
necessitato, visto l’ingorgo di fine anno in Parlamento: c’è da
votare la legge di Stabilità e da approvare il Jobs act, a cui dovrà
seguire l’immediato varo del decreto attuativo sulla riforma del
lavoro, come Renzi ha promesso a Bruxelles. Ciò non vuol dire che i
percorsi di modifica del bicameralismo e dell’Italicum saranno
altrettante passeggiate, è chiaro che la Camera vorrà modificare il
testo della riforma costituzionale con cui si punta al
monocameralismo, così come il Senato vorrà riscrivere alcune parti
della legge elettorale.
Il governo, prima di attraversare i
canyon del Parlamento, conosce già quali saranno i punti degli
agguati, là dove gli avversari di Renzi proveranno ad affossarlo:
per un verso il tentativo (sulla riforma costituzionale) di
ripristinare il Senato elettivo; per l’altro (sull’Italicum) di
far saltare il premio di maggioranza alla lista, modificare il
sistema delle candidature bloccate e introdurre il meccanismo
dell’apparentamento per le forze più piccole in caso di
ballottaggio. Ogni emendamento nasconde accordi segreti trasversali,
ogni passaggio — se non venisse gestito — farebbe scattare la
trappola, con ripercussioni politiche pesanti per il premier,
assediato dai partiti di maggioranza e opposizione che sull’Italicum
vogliono la norma transitoria con cui rendere inapplicabile la legge
elettorale fino alla modifica del bicameralismo...
È un
sentiero di guerra, insomma, preludio alla madre di tutte le
battaglie: la corsa al Quirinale. Ecco lo snodo che il leader
democratico teme più di ogni altro, e certo il cambio di road map
sulle riforme non lo aiuta, perché l’intreccio lo espone a gravi
insidie. Il patto del Nazareno all’apparenza vivo, in realtà Renzi
sa che non è più così, che le apparenze potranno nascondere la
verità (forse) fino all’approvazione al Senato dell’Italicum. Ma
Berlusconi — sebbene debole nel Paese e persino nel suo partito —
vuole prima garanzie sul futuro inquilino del Colle.
Formalmente
sarebbe quello l’atto conclusivo dell’accordo, ma il patto non
c’è già più, tra i due non c’è più nemmeno voglia di
parlarsi. E se partisse ora la sfida per il Colle, sarebbe davvero
una scommessa. Ecco cos’ha spinto il premier all’estremo
tentativo di convincere Napolitano a restare, «almeno fino alla
festa dell’Unità d’Italia, presidente», cioè fino al 17 marzo.
Siccome non sarà così, Renzi si trova a dover tracciare una rotta
senza un sestante, tra gli scogli di un Parlamento dove il Pd è
diviso in tre tronconi e Forza Italia divisa in due, con Ncd e Udc
che formalmente si promettono di marciare uniti, la Lega pronta
all’agguato, i Cinquestelle assetati di rivincita. E tutti vorranno
contare. I senatori del gruppo delle Autonomie hanno persino fatto un
comunicato: «Siamo in sedici, ci siamo capiti...».
Il risiko è
iniziato, e in questa confusione Renzi potrebbe restar vittima della
nemesi, anzi peggio. Perché — dopo l’affossamento di Marini e
Prodi — si stese la rete di protezione con Napolitano. Ma ora? Ora
il premier dovrà proporre ufficialmente alle forze politiche una
linea di condotta, che è già pronta: il «metodo» è il rapporto
con l’opposizione, il «modo» è l’intesa da ricercare con Forza
Italia, il «nome» è il candidato da condividere. Il rischio è che
si arrivi a un «presidente per caso», frutto della casualità e
simbolo di una sconfitta politica.
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