lunedì 31 agosto 2015

Il linguaggio violento e l’assenza del confronto.


Corriere della Sera 31/08/15
Valeria Fedeli 

vicepresidente del Senato
Caro direttore, nel bel corsivo di Luigi Ferrarella, da voi pubblicato sabato con il titolo «Il crinale pericoloso delle parole violente», credo sia stato colto un punto di assoluta rilevanza su cui l’intera nostra classe dirigente farebbe bene a dedicare l’attenzione che merita. È il nesso che esiste tra linguaggio e agire politico, e in particolar modo tra il linguaggio violento e la logica della creazione del capro espiatorio. Nel corsivo viene posta l’attenzione sull’ultima malcapitata vittima del feroce populismo leghista, un albergatore di Bormio reo di aver alloggiato, nella piena legalità e in accordo con la prefettura, 60 migranti. Forse anche su chi ospita i migranti una parte della nostra classe politica continuerà a produrre etichette, additandoli di volta in volta come «traditori della comunità locale» o «speculatori»: la vera desolazione sta proprio nel constatare l’irresponsabile linguaggio di chi elemosina consensi elettorali incitando all’odio anziché curarsi di proporre un proprio progetto di futuro per il Paese. Il linguaggio in uso nella politica italiana, dovremmo ammetterlo senza scuse né giustificazioni, non è sempre stato all’altezza delle proprie grandi responsabilità. Siamo famosi in Europa per avere una delle classi dirigenti meno accorte nell’uso delle parole, che spesso fanno male perché usate in modo aggressivo, discriminatorio, stereotipato. Ma la deriva attuale è talmente grave da aver fatto compiere, a suo modo, una sorta di salto di qualità a questo lessico della violenza: dal linguaggio più o meno esplicitamente razzista, che colpisce tutte le minoranze e in particolare 
i migranti di queste ultime massicce fughe verso l’Europa, assistiamo ora all’aggressione generalizzata di chiunque provi ad affrontare le complessità della società attuale in altro modo. Guai a pensare diversamente, guai a chi cerca il confronto, a chi mostra di voler agire andando oltre gli eccessi di semplificazione tanto in voga in tempi di crisi. Uno spirito 
di sopraffazione che con le parole della violenza aumenta soltanto la confusione, il disorientamento e la paura delle persone; è invece soltanto con la conoscenza e con il continuo e lucido confronto che è possibile alimentare la dialettica necessaria al nostro agire politico. I tuoi pensieri diventano parole, le tue parole diventano i tuoi comportamenti, diceva Gandhi, ma per chi esercita responsabilità pubbliche questo principio raddoppia il proprio valore simbolico, perché le nostre parole possono diventare anche i comportamenti altrui. Chi alimenta il cieco conformismo della ricerca di nemici e capri espiatori, richiamando in causa un linguaggio non a caso tanto caro anche alla violenza politica nostrana di qualche tempo fa, quando si etichettavano i propri avversari come «nemico», «traditore», oppure «servo», rafforza condotte antisociali che non preannunciano nulla di buono. Quando la parola violenta giustifica la pratica dell’odio e crea nuova violenza, la spirale che si forma ci allontana dalle categorie della politica. Un piano inclinato, insegna la storia, difficile poi da rimettere in equilibrio. 


domenica 30 agosto 2015

«Una svolta epocale che genera angoscia».


Corriere della Sera 30/08/15
Stefano Montefiori
Benjamin Stora, 64 anni, grande storico dell’Algeria e presidente del Museo di storia dell’immigrazione di Parigi, è critico sull’atteggiamento degli europei davanti ai drammi dell’immigrazione. «Non abbiamo capito che stiamo vivendo un cambiamento geopolitico, una svolta storica. Gli uomini politici propongono una distinzione tra immigrati economici e rifugiati, ma è impossibile separare gli uni dagli altri. Per questo è stato inventato il termine bizzarro di “migranti”, perché non li possiamo definire immigrati classici ma non vogliamo neppure caratterizzarli come rifugiati. Allora usiamo questa parola intermedia di “migranti”, che evoca vagamente delle persone in marcia, non si sa bene perché, è una parola strana… La somma tra le due figure di immigrati e rifugiati provoca questa mancanza di compassione da parte dell’opinione pubblica. La gente ha la sensazione di un’invasione, ha paura di un cambiamento nel nostro modo di vivere. Reagisce non con solidarietà ma con angoscia». 
 Pensa che la classe politica assecondi troppo l’opinione pubblica? 
 «Sì, i governi non osano educare, spiegare alle persone qual è la realtà. I politici non riescono ad affermare la necessità di una solidarietà con persone che scappano dalle guerre. Il solo che l’abbia fatto finora è il Papa, non certo i partiti tradizionali, anche a sinistra». 
 Mostrandosi ferma con gli immigrati, la sinistra dà l’impressione di cercare una nuova legittimità, una vicinanza con i cittadini comuni che temono l’immigrazione. 
 «La sinistra europea è un po’ alla deriva, non riesce più a definire un progetto politico coerente di trasformazione della società, e allora rilancia sulla questione dei valori: la Repubblica, la Nazione, le frontiere. Si rifugia in un vecchio progressismo nazionalista, ma si tratta di un nazionalismo di vedute ristrette. La sinistra potrebbe esistere ribadendo i suoi valori storici, la tradizione di accoglienza, come accadde in Francia con gli antifascisti italiani o i repubblicani spagnoli. Non possiamo dirci contro lo Stato islamico, e poi non accogliere le persone che scappano dalla sua barbarie». 
 Ma gli sbarchi sembrano troppo numerosi. Pensa che le nostre società siano capaci, da un punto di vista economico e sociale, di sopportare questi flussi? 
 «Sì, alla fine le percentuali sono molto basse rispetto alla ricchezza dell’Europa. Solo che in questo clima xenofobo i politici non se la sentono di parlare di cifre, di spiegare la realtà economica. Eppure le immagini ci mostrano donne, bambini, vecchi, non “immigrati”. Ci rinchiudiamo nel nostro egoismo, ma la realtà finisce per raggiungerci. Queste persone arrivano comunque, e arriveranno ancora di più»

«In arrivo nuovi dati positivi. Le unioni civili si faranno».


Corriere della Sera 30/08/15
Aldo Cazzullo
L'INTERVISTA A MATTEO RENZI
Presidente Renzi, il Paese appare ancora fermo. Tassi ai minimi, euro più debole, prezzo del petrolio basso: eppure la ripresa è ancora fiacca. È sicuro che ci siano le condizioni per predicare ottimismo? 
 
«Ho una lettura diversa. Il Paese non mi sembra fermo e al contrario vedo tanta energia. Dopo anni di palude, il Parlamento approva le riforme. L’Expo è una scommessa vinta contro il parere di molti. Gli indici di fiducia e i consumi tornano a crescere. Il turismo tira, in particolare al Sud. Si respira un clima di ripartenza. Dopo anni di segno negativo torniamo a crescere». 
 
Cresciamo poco. 
 
«Vero. Non mi accontento dello zero virgola, ma vorrei ricordare che i precedenti governi avevano un netto segno “meno”. Adesso siamo al “più”. Cresciamo all’incirca come Francia e Germania: poco, ma finalmente come loro. Negli ultimi anni, invece, mentre loro crescevano noi perdevamo posizioni. In un anno abbiamo fatto legge elettorale, riforma del lavoro e della pubblica amministrazione, della scuola, delle banche popolari: una riforma che era nell’agenda del governo D’Alema, ministro del Tesoro Ciampi, direttore generale Draghi; allora furono costretti a fermarsi, noi non ci siamo fermati. Abbiamo rinnovato i vertici di Cdp e Rai, risolto 43 crisi aziendali, riaperto fabbriche da Taranto a Terni, approvato la responsabilità civile e il divorzio breve. E finisco qui altrimenti addormento subito i lettori. L’Italia è in movimento, altro che ferma. Con buona pace di Salvini che organizza manifestazioni per “bloccare l’Italia”: sono vent’anni che siamo bloccati, ora è il momento di correre. Voglio proprio vedere quanti imprenditori del Nord-Est fermeranno le aziende per la serrata della Lega». 
 
Sui nuovi contratti a tempo indeterminato avete fatto una magra figura. Cos’ha detto al ministro Poletti quando per sbaglio ne ha raddoppiato il numero? 
 
«Non gli ho detto nulla, io. Ma avrei voluto essere una mosca per sentire quello che Poletti ha detto ai suoi, magari in slang imolese: spero gliene abbia cantate quattro. Comunque i numeri dei contratti a tempo indeterminato sono buoni, anche dopo la correzione. Gli occupati crescono, i cassintegrati scendono, la ripresa c’è. Non è la prima volta che si fa confusione sui numeri, spero sia l’ultima». 
 
Prodi le dice che non si abbassano le tasse su Twitter. Tutti le chiedono dove trova i soldi. 
 
«Io le tasse le ho abbassate sul serio. Mi riferisco innanzitutto agli 80 euro; Prodi forse non lo ricorda perché non rientra nella categoria, ma chi guadagna meno di 1.500 euro al mese se n’è accorto eccome. Mi riferisco poi alle misure sul lavoro, dall’Irap agli sgravi contributivi per i neoassunti. Adesso la casa con l’azzeramento di Tasi e Imu, quindi l’Ires per le aziende nel 2017 e l’Irpef nel 2018. Non ci sarà nessun taglio alla sanità per non far pagare il ricco. Magari nella sanità ci sarà qualche poltrona Asl in meno e qualche costo standard in più. Ma sono tagli agli sprechi, non alla sanità». 
 Ci saranno interventi sulle pensioni più alte? 
 «No, non sono all’ordine del giorno». 
 
Non è che i soldi li troverete facendo altro deficit? Come sono davvero i rapporti con la Merkel? Pensa di convincerla ad allentare i vincoli di bilancio? 
 
«Con la cancelliera Merkel il rapporto è buono e la preoccupazione comune è quella di evitare il declino dell’ideale europeo. Su questo c’è sintonia di vedute. Rispetto al bilancio, lei non è la nostra giudice. Anzi! Anche la Germania deve cambiare, stimolando la domanda interna e facendo a sua volta riforme strutturali nei settori in cui è più indietro. Ci sono delle regole nell’Unione. E il nostro semestre ha cercato di mitigare il rigore con la flessibilità. Per la prima volta, grazie al lavoro di tutti a partire da Padoan, abbiamo ottenuto la possibilità di uno spazio di patto di circa l’1%, 17 miliardi di euro. Cercheremo di usare parte di quello. Quanto al deficit: siamo tra i pochi Paesi europei che rispettano la soglia del 3%, continueremo a farlo». 
 
Abolire la tassa sulla prima casa è una battaglia berlusconiana. O no? 
 
«Abolire la tassa sulla prima casa significa mettere fine a un tormentone decennale. E in un Paese che ha l’81% di proprietari di prima casa è anche un fatto di equità, non è certo un favore ai super ricchi. Se poi ora ripartirà l’edilizia — anche solo per un fatto psicologico — per noi sarà tutto di guadagnato. Lo aveva proposto Berlusconi? Certo. Che male c’è? Questo approccio per cui se una cosa l’ha proposta Berlusconi allora è sbagliata è figlio di una visione ideologica». 
 
Lei ha detto che il Paese è rimasto bloccato per vent’anni dallo scontro tra berlusconismo e antiberlusconismo. Sono due attitudini che si possono mettere sullo stesso piano? 
 
«Il berlusconismo è ciò che, piaccia o non piaccia, resterà nei libri di scuola di questo ventennio. Berlusconi è stato il leader più longevo della storia repubblicana. Ma ha sciupato questa occasione, perdendo la chance di modernizzare il Paese, sostituendo l’interesse nazionale con il suo. In questo senso il berlusconismo ha bloccato l’Italia. E l’antiberlusconismo — che è cosa molto diversa dall’Ulivo — ne è l’altra faccia: un movimento culturale e politico che non si preoccupava di definire una strategia coerente per il futuro, ma semplicemente di abbattere Berlusconi. Una grande coalizione contro una persona». 
  
Quindi lei non si sente antiberlusconiano? 
 
«Io non mi definisco contro qualcuno, mai. Non sono contro Berlusconi, ma per l’Italia: ero per l’Ulivo, non contro gli altri. Certo, oggi siamo al paradosso che chi a sinistra ha ucciso l’Ulivo, segandone i rami e promuovendo convegni come Gargonza per rilevarne l’insufficienza, si erga a paladino dell’ulivismo. Comunque non è un caso se nessun governo del centrosinistra in quegli anni abbia avuto la forza di durare una legislatura. Perché? Perché stavano insieme contro qualcuno, non per qualcosa. Alla prova del governo la sinistra ha fatto nettamente meglio della destra, per me. Ma se il governo D’Alema avesse avuto la forza di fare quello che hanno fatto Blair e Schröder sul mondo del lavoro avremmo avuto il Jobs act vent’anni prima». 
  
Sulla riforma del Senato c’è il rischio di una crisi di governo? E se cade il suo governo si va al voto anticipato? 
 
«Non vedo nessun rischio». 
 
Come fa a esserne così certo? 
 
«Se vogliamo fare una forzatura sul testo uscito dalla Camera, i numeri ci sono, come sempre ci sono stati. Chi ci dice che mancano i numeri sono gli stessi che dicevano che mancavano i voti sulla legge elettorale, sulla scuola, sulla Rai, sul Quirinale. Se vogliamo forzare possiamo farlo. Ma noi fino alla fine cerchiamo, come sempre, un punto d’incontro». 
  
Se i voti ci sono, ci sono anche grazie a Verdini. Non la imbarazza? 
 
«E perché? Il gruppo di Verdini ha già votato le riforme al primo giro. Mi stupirei del contrario. La mia minoranza firma gli emendamenti con Calderoli e Salvini, Grillo e Brunetta; e dovrei imbarazzarmi per il voto di chi già ha sostenuto questa riforma? Dovrei chiedergli: scusa, Verdini, stavolta puoi votare contro se no quelli della mia minoranza ci rimangono male?». 
 
La sinistra Pd chiede il Senato elettivo. Cosa risponde? 
 «L’elettività diretta presenta due problemi. Uno è politico: il Senato non dà la fiducia al governo; in questi casi l’esperienza internazionale ci mostra preferibile l’elezione indiretta. Uno è tecnico: l’elezione diretta è già stata esclusa con doppio voto di Camera e Senato. Rivotare una cosa già votata due volte sarebbe un colpo incredibile a un principio che vige da decenni. Ma non è il passaggio più delicato della riforma: una soluzione si può trovare. Non abbiamo mai fatto le barricate su nulla, se non sul principio di superare il bicameralismo paritario: vedremo. Basta che non sia la scusa per ricominciare sempre da capo». 
  
D’Alema è appena tornato alla carica, Bersani l’aveva fatto nel giorno delle amministrative. Non sarebbe meglio per tutti una scissione nel Pd, piuttosto che continuare con uno scontro infinito? 
 
«Non credo che D’Alema e Bersani preparino una scissione. Credo si stiano preparando al congresso del 2017». 
 
Per candidare Letta contro di lei? 
 
«Non mi risulta, magari lei ha informazioni migliori. Per me sarebbe molto divertente. Potremmo confrontare i risultati dei rispettivi governi, discutere del modello di Europa per il quale ci siamo battuti, riflettere sui risultati ottenuti quando abbiamo avuto responsabilità nel partito. Del resto sia Enrico che io abbiamo già avuto esperienze di primarie. Mi piacerebbe ma è prematuro. Il congresso sarà nel 2017. E la nostra gente è stanca della polemica continua. L’alternativa al Pd si chiama Matteo ma di cognome fa Salvini. L’alternativa a questo governo e a questo Pd non è un’improbabile coalizione a sinistra, non è un Lafontaine italiano, un Varoufakis, un Corbyn; l’alternativa è il populismo». 
  
Con Forza Italia sul Senato tratterà? 
 
«Non credo, a meno che non si chiariscano le idee tra di loro. Brunetta ci ha dato dei fascisti perché abbiamo votato la stessa legge che hanno votato anche i senatori di Forza Italia: fermo restando che sentirsi dare del fascista per me è infamante, come la mettiamo? Sono fascisti anche loro? Berlusconi è altalenante: un giorno segue Salvini, il giorno dopo cura i rientri a casa, da Balotelli alla De Girolamo. Un giorno vuole il Nazareno Bis, un giorno le elezioni anticipate. Da quelle parti hanno poche idee, ma confuse. Se le chiariscono e vogliono confrontarsi siamo qui. Altrimenti bye bye. Berlusconi è circondato da molti consiglieri. Alcuni gli suggeriscono di fare una guerra senza frontiere al governo e al sottoscritto. Auguri! Noi andiamo avanti con determinazione e libertà. Il mio faro è il bene comune, nient’altro». 
  
Cosa aspetta a lanciare un grande piano di tagli ai costi della politica? Abolizione di tutti i vitalizi, dimezzamento delle indennità? 
 
«Abbiamo fatto molto, dal finanziamento ai partiti alla cancellazione di quasi 4 mila poltrone nelle Province. Siamo intervenuti sulle auto blu. Abbiamo messo un tetto ai dirigenti pubblici, con uno stipendio che può arrivare al massimo all’indennità del capo dello Stato, 240 mila euro. Se passerà la riforma della Costituzione come l’abbiamo scritta un consigliere regionale non potrà prendere più del sindaco del comune capoluogo. Ma di cosa parliamo ancora? Oggi un politico prende meno non solo di un tecnico o di un giornalista…». 
 
Magari… 
 
«Se vuole facciamo un confronto all’americana tra la mia dichiarazione dei redditi e quella di un qualsiasi direttore a sua scelta. E io non mi lamento, sia chiaro. Oggi la vera sfida è ridurre il numero dei politici, come abbiamo fatto con le Province e come vogliamo fare col Senato. E controllarli di più». 
 
Marino è stato commissariato. Prima o poi dovrà dimettersi? 
 
«Nessun commissariamento. Roma ha ottenuto ciò che ha chiesto per il Giubileo e anche un sostegno per combattere la corruzione con Gabrielli e Cantone. Il sindaco sa che deve solo lavorare nell’interesse dei cittadini. Punto. Tutto il resto è il consueto Truman Show politico-mediatico». 
 La riforma della scuola doveva essere un suo punto di forza, con centomila nuove assunzioni. Come mai allora gli insegnanti sono così arrabbiati? 
 
«Me lo chiedo spesso anche io…». 
  
Non sarà che avete sbagliato qualcosa? 
 
«Sicuramente abbiamo sbagliato qualcosa noi. Altrettanto certamente esiste un pregiudizio di parte del mondo docente. Quello di cui sono certo è che la Buona Scuola non è la riforma. È solo l’inizio. La riforma passa dall’edilizia scolastica e dai 1.673 cantieri che questa estate abbiamo aperto. La riforma passa da parole come merito, valutazione, qualità, autonomia, che necessitano di tempo ancora per essere impiantate nel mondo scolastico. Mi fischino pure, mi contestino, mi insultino; ma se ci sono centomila italiani che anziché zigzagare come precari diventano insegnanti, be’, io ne sono fiero». 
 
L’emergenza migranti si fa di giorno in giorno più drammatica. Non ha nulla da rimproverarsi su come è stata gestita finora? 
 
«Credo stia emergendo la verità sui migranti: non è un problema italiano su cui speculare per mezzo punto di sondaggio, ma una grande crisi mondiale e europea da affrontare a Bruxelles, non a Lampedusa. Questa è stata la prima battaglia del mio governo: chiedere l’internazionalizzazione di questa crisi. Mare Nostrum aveva caricato tutte le questioni sull’Italia: noi abbiamo chiesto solidarietà e coinvolgimento. Dopo la strage di aprile e il vertice straordinario che ne è seguito sono arrivati i primi provvedimenti. Ancora pochi, spesso miopi, frammentati. Ma le drammatiche immagini di quei bambini asfissiati nel Tir, di quei bambini uccisi nelle stive delle navi ci dicono che l’Europa deve cercare una strategia». 
  
Cosa farete in concreto? 
 
«Non dobbiamo solo tamponare l’emergenza, ma anche avere un ruolo maggiore in Africa e in Medio Oriente. Investire di più sulla cooperazione internazionale. Agevolare i rimpatri. E bloccare i trafficanti di uomini, per sempre. Questo è il momento giusto per lanciare un’offensiva politica e diplomatica. L’Europa deve smettere di commuoversi e iniziare a muoversi. È finito il tempo dei minuti di silenzio: si scelga finalmente di superare Dublino e di avere una politica di immigrazione europea, con un diritto d’asilo europeo. Questa sarà la battaglia dei prossimi mesi». 
  
Cosa cambierebbe? 
 
«Ci vorrebbero mesi, ma avremmo un’unica politica europea di asilo, non tante politiche quanti sono i vari Paesi. Andremmo negli Stati di provenienza per valutare le richieste di asilo, evitando i viaggi della morte. Gestiremmo insieme anche i rimpatri». 
  
E interverrete in Libia e in Siria, per fermare vergogne come quella di Palmira? 
 
«Obama ha convocato un vertice su questi temi a fine mese proprio a margine dell’assemblea Onu». 
 
Il cardinale Bagnasco si è espresso contro le unioni civili. 
 «Le unioni civili si faranno. Punto. Anche qui: usciamo da vent’anni di scontri ideologici. Anche qui: ci sono i numeri per una forzatura, ma spero di trovare un punto d’intesa ampio. Il richiamo alla famiglia tuttavia non è in contraddizione con le unioni civili ed è un richiamo molto corretto, secondo me. Nella legge di Stabilità va inserito un piano famiglia, dagli asili nido fino agli interventi per i bambini poveri e le famiglie numerose». 
 Nei mesi scorsi sono uscite sue intercettazioni che mostravano uno stile di una certa spavalderia, ai limiti della ribalderia. 
 
«La rivoluzione non è un pranzo di gala, no?». 
  
Dall’altra parte, lei ha parlato di un Renzi 1, che va nelle scuole e nelle fabbriche, e un Renzi 2, inviluppato nell’agenda, nei vertici europei, nelle riunioni di partito. Qual è il vero Renzi? 
 
«Io sono sempre lo stesso. Un ragazzo di provincia che a meno di quarant’anni è stato chiamato — con altri — a cambiare il sistema politico considerato più gerontocratico nell’intero Occidente. Non è questione di Renzi 1, Renzi 2, intercettazioni. È che il sogno di un percorso di cambiamento, iniziato dalla Leopolda cinque anni fa, sta diventando realtà. E ci riusciremo, senza guardare in faccia nessuno, senza rispondere a potentati o gruppi di interesse. Qualcuno dice che siamo maleducati o spavaldi? Lo pensino pure. Il mio obiettivo non è stare simpatico. È lasciare una macchina pubblica capace finalmente di funzionare. Tutto il resto è fuffa. Mi chiedono: ma fai il bravo con i giornalisti, frequenta di più i sindacati, non scontentare gli imprenditori, preoccupati della minoranza del Pd. Tutto giusto, per carità. Ma io devo preoccuparmi soprattutto della maggioranza degli italiani. So che fanno il tifo per noi anche persone che magari non mi voteranno mai. Ma sanno che lo sforzo di questo governo è lo sforzo di un Paese intero. E quindi ci danno una mano. L’Italia sta tornando. Non sprecheremo questa opportunità» .

«La Ue investa di più. Con Renzi e Hollande un patto per la crescita».


Corriere della Sera 29/08/15
Federico Fubini
L’intervista Pedro Sánchez
Madrid. A 43 anni, Pedro Sánchez ha l’occasione della vita. Economista universitario, l’anno scorso ha vinto le primarie del partito socialista spagnolo e ora è testa a testa nei sondaggi con i popolari del premier Mariano Rajoy. Probabilmente si voterà a inizio dicembre e al Consiglio europeo di fine anno potrebbe essere Sánchez a rappresentare il suo Paese. Sta già lavorando al programma: punta a un’alleanza con l’Italia e la Francia perché, dice, non serve a nessuno «un’Europa tedesca». Sánchez ne parla all’aeroporto di Madrid Barajas, in partenza per il Messico. Ha smesso da un pezzo di vestire da politico del ‘900: preferite maglietta e scarpe da jogging. Ma le sue spiegazioni arrivano scandite, cartesianamente, per punti. 
 Le migrazioni continuano a mettere i governi europei alla prova. Tutti dicono che serve «più Europa», che vuol dire? 
 «Questi rifugiati in arrivo dalla Siria, dall’Iraq o dall’Afghanistan non sono un problema: sono cittadini minacciati nei loro diritti fondamentali, perché vengono da realtà drammatiche e dalla guerra. L’Europa dev’essere all’altezza». 
 Sì, ma in concreto cosa significa? 
 «Che gli Stati europei devono essere coscienti che il diritto di asilo e lo status di rifugiato non è solo un obbligo morale. È una responsabilità giuridica. Abbiamo firmato la Convenzione di Ginevra e il Protocollo di New York sul diritto d’asilo. E questo è il punto uno. Due: gli Stati membri non si sono dimostrati all’altezza. L’Italia e la Grecia sì, perché sono più esposti. Però diciamocelo: il resto dei Paesi europei, e in particolare la Spagna, no». 
 Come premier, sarebbe disposto a spiegare agli elettori che devono accogliere 40 mila o 50 mila persone, in base a un sistema europeo di quote? 
 «Una politica di asilo comune è necessaria. La proposta della Commissione, insufficiente per il numero, è giusta: una politica di quote, in modo che gli Stati membri siano solidali. E credo proprio che la Spagna debba essere più solidale di quanto stia proponendo il governo, disposto ad accogliere poco più di 2.500 persone. Ma più in generale, dobbiamo avere tre punti fermi: il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti; il rispetto da parte dei migranti per lo Stato di diritto delle società nelle quali si inseriscono. Terzo, dobbiamo lottare contro le mafie che trafficano in esseri umani». 
 La Spagna cresce al 3%. Dunque, sotto la guida del suo avversario Rajoy, deve aver fatto bene qualcosa. Cosa? 
 «Metà della crescita si spiega con fattori esterni: la caduta del prezzo del petrolio, la nuova politica espansiva della Bce e la creazione dell’unione bancaria, che ha migliorato le condizioni di finanziamento. Questo ha permesso che poco a poco si recuperasse un po’ di credito per famiglie e imprese». 
 L’Italia ha avuto gli stessi benefici, eppure cresce un quinto della Spagna. Perché? 
 «Ogni Paese ha la sua struttura. Noi abbiamo avuto un’estate record di turisti. Ma ora il Fmi avverte che in Spagna, se non si affronta una modernizzazione, nei prossimi anni la crescita probabilmente calerà. E resteranno livelli di disoccupazione intollerabili. Credo che dobbiamo puntare a guadagnare competitività non con il basso costo del lavoro, come ha fatto il Partido popular, ma con l’innovazione, la scienza, l’istruzione. Dobbiamo competere nel mondo facendo prodotti migliori, non prodotti meno cari. E dobbiamo migliorare la concorrenza nel mercato interno, liberalizzare. Anche per correggere una realtà di oggi: la Spagna è seconda in Europa per l’intensità delle diseguaglianze». 
 Cosa pensa del Fiscal Compact europeo? 
 «Che per risanare i conti fa più un punto di crescita del Pil, che tutta la politica di aggiustamenti e tagli che stiamo subendo. Basta guardare quello che ha fatto Obama: una politica di bilancio espansiva, una politica monetaria espansiva, e ora gli Stati Uniti hanno messo la crisi alle spalle». 
 Se sarà eletto, con chi pensa di lavorare per portare avanti questa agenda? 
 «Italia, Francia e Spagna possono essere i leader per una ripresa economica giusta. Credo che la posizione della Commissione di sostenere la domanda interna con più investimenti, con il piano Juncker, e anche la linea espansiva della Bce vadano in questo senso. Ora dobbiamo continuare». 
 Per esempio raddoppiando o triplicando il piano Juncker, oggi da 315 miliardi? 
 «Sì, sì. La lezione della Grecia è che i Paesi devono fare le loro riforme, specie nell’amministrazione e nella lotta all’evasione. Ma dobbiamo anche andare verso una maggiore integrazione. Condivido le posizioni di Renzi e Hollande. Serve una maggiore integrazione dei nostri sistemi bancari perché non ha senso che nell’area euro, in funzione della nazionalità dell’impresa, ci siano costi di finanziamento più o meno alti. E serve un’unione economica con un vero bilancio: il piano Juncker può esserne l’embrione. Come europei abbiamo anche bisogno di entrate europee per finanziare beni pubblici europei, per esempio sulle infrastrutture. E dobbiamo pensare all’obbligo democratico di render conto delle decisioni. Ci sono idee interessanti su un parlamento dell’area euro». 
 Certi suoi punti sono molto lontani dalla visione tedesca. È pronto ad affrontare tensioni politiche in Europa? 
 «Mi è sempre piaciuta la frase di Kohl, al momento dell’unificazione tedesca. Parlò di una Germania europea e non di un’Europa tedesca. Credo sia importante che i nostri colleghi tedeschi siano consapevoli che il loro avanzo nei conti con l’estero si spiega perché ci sono deficit commerciali in altre parti della zona euro. Bisogna riequilibrare, e sono convinto che i tedeschi capiranno che abbiamo bisogno di una politica economica a beneficio del complesso dell’area. Ne ho parlato molto con Renzi, anche lui è sulla linea di una maggiore integrazione». 
 Ma la famiglia socialista è in difficoltà quasi ovunque in Europa. Qual è il problema? 
 «Be’, stiamo a vedere. Credo che il cambiamento in Europa avrà un sapore iberico. Ci sono elezioni in Portogallo il 4 ottobre e a dicembre probabilmente si vota in Spagna e noi socialisti siamo ben messi per vincere in entrambi i Paesi. È importante che noi socialisti non parliamo solo di redistribuzione, ma di crescita. Avere un’agenda di competitività è fondamentale. Ma dobbiamo anche parlare di giustizia, perché oggi c’è una classe media lavoratrice che sente che i costi della crisi sono caduti solo sulle sue spalle». 
 Su questi temi i cosiddetti «populisti» vi fanno concorrenza. 
 «Sì, ma quando le socialdemocrazie hanno dato battaglia, i populisti hanno perso consenso. Non appartenere a famiglie politiche con un retroterra alla fine ti porta sempre a prendere posizioni anti-europee. Al di là dei discorsi sul recupero di sovranità che può fare Beppe Grillo o il Front national o Podemos, o Tsipras nella prima versione, la lezione della vicenda greca è che è vero il contrario: per recuperare potere di decisione dentro il tuo Paese, devi condividere sovranità fuori. L’Europa continua a essere la soluzione, no?». 
 Per questo Podemos è in calo nei sondaggi? 
 «Rispecchia i fatti in Grecia. Il terzo pacchetto di salvataggio ha lasciato Podemos con pochi argomenti».

I riflessi condizionati sulle tasse.


Corriere della Sera 28/08/15
Angelo Panebianco
Sono le tasse dunque il terreno politico
ed elettorale che Renzi ha scelto per affrontare i suoi avversari. Se riuscirà ad abbassarle sensibilmente consoliderà la sua leadership alla testa di una sinistra radicalmente rinnovata, forse capace anche di attrarre ampie porzioni di quelle classi medie indipendenti (imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani) tradizionalmente ostili alla sinistra. Sulle spalle del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, soprattutto, ricadrà l’arduo compito di reperire le risorse necessarie. Ma sbaglia chi crede che in gioco ci sia solo una questione di risorse. Più delle riforme istituzionali, forse anche più della scuola, le tasse toccano il cuore identitario della sinistra per come l’abbiamo conosciuta. La promessa di abbassarle coincide con la più grave minaccia a quella identità. Apparentemente, ciò accade solo per la nota ragione secondo cui, finito il comunismo, azzerati i grandi ideali, morta l’utopia, la sinistra si era ridotta,
 sotto il profilo identitario,
a due cose: l’ideologia
 liberal (i vari temi del «politicamente corretto» — gender e così via — interpretati come diritti civili) e l’imperativo del «tassa e spendi» rivendicato come garanzia di ridistribuzione del reddito e di equità sociale. Renzi, sulle orme di Tony Blair, e pur con tutti gli adattamenti a un caso assai diverso da quello britannico, promette di preservare, e di cavalcare, l’ideologia liberal ma anche di mettere fuori gioco l’imperativo del tassa e spendi, il piatto forte, il cuore identitario. 
 

 P uò essere tutto meno che un’operazione indolore. Anche perché al di sotto del principio del tassa e spendi c’è una visione del mondo, così radicata e incistata che molti non ne sembrano nemmeno consapevoli. Quando il segretario della Cgil Susanna Camusso (sul Corriere del 24 agosto) propone di abbassare l’età pensionabile, mandare prima le persone in pensione per lasciare i loro posti ai giovani, sta precisamente parlando a coloro che condividono una particolare visione del mondo, una visione che apprezza le società statiche, per non dire immobili, che teme il dinamismo e l’innovazione più di ogni altra cosa. Chi attribuisce valore al dinamismo sociale, chi pensa che la continua innovazione caratterizzi le società davvero vitali, punta ad ampliare, attraverso la crescita economica (a sua volta effetto della libertà di innovare e della presenza di diffuse capacità imprenditoriali), oltre alla ricchezza, anche la base occupazionale disponibile. 
 Invece, chi ha fatto proprio l’ideale di una società statica pensa sia alla ricchezza che al lavoro come a giochi a somma zero: si deve togliere più soldi all’uno (il più ricco) per darli all’altro (il più povero), si deve mandare in pensione Tizio (il più anziano) per lasciare il posto a Caio (il più giovane). Non si tratta mai di ampliare la torta ma di mantenerla inalterata tagliando diversamente le fette. 
 È questa mentalità, propria di tanti, una parte dei quali nemmeno è consapevole di averla, che sta dietro all’imperativo del tassa e spendi e, quindi, all’identità di una parte rilevante della sinistra. È questa mentalità che alimenta l’ideale di una società composta prevalentemente da impiegati pubblici, e nella quale il mercato sia tenuto a bada, al suo posto, in condizioni di non nuocere, di non dare libero sfogo ai suoi impulsi più «eversivi» e aggressivi: poiché è proprio del mercato di essere la principale fonte dell’innovazione e del dinamismo sociale. 
 Esattamente ciò che da sempre la sinistra esorcizza bollandolo come «liberismo selvaggio». Si capisce perché gli antirenziani di sinistra odino tanto Renzi: sta aggredendo, e forse distruggendo, un pezzo alla volta, il loro universo simbolico, il loro piccolo mondo statico. Forse ha anche capito meglio di loro che cosa è successo negli stessi strati sociali che sono stati per decenni il tradizionale serbatoio elettorale della sinistra: lì, ad esempio, ci sono persone di estrazione popolare (con la casa di proprietà) sempre meno disponibili a prendere per buona l’ideologia del tassa e spendi e ciò che essa sottintende. Se queste persone risulteranno essere molte la scommessa di Renzi verrà forse vinta. 
 Per completezza di discorso, bisogna aggiungere che l’ideale di una società statica non è proprio soltanto della sinistra. C’è in Italia, da sempre, anche una destra antimercato e corporativa che ha ugualmente paura del dinamismo sociale: a differenza della sinistra, tuttavia, questa destra, per lo più, non ha fatto delle tasse alte una bandiera identitaria. 
 Se ciò che qui è stato detto è corretto allora Renzi, per abbassare le tasse, non dovrà solo procurarsi le risorse. Dovrà combattere, e sconfiggere, una radicata e diffusa mentalità. L’impresa, a occhio, si presenta più difficile e complicata di quella in cui è impegnato, poniamo, chi vuole soltanto riformare una Costituzione . 


Il debutto da preside di Enrico Letta: sono emozionato, inizia una nuova vita.

Corriere della Sera 28/08/15
Stefano Montefiori 

Il direttore di Sciences Po Frédérique Mion presenta, in inglese, Enrico Letta e parla del suo «ruolo centrale nella politica europea degli ultimi vent’anni». Nel grande auditorium della «fabbrica delle élites» francese si inaugura il nuovo anno accademico e centinaia di ragazzi applaudono Letta come nuovo preside della Psia, la Paris School of International Affairs. 
 «Sul palco ero davvero emozionato, è un nuovo inizio», dirà poi Letta alla fine della cerimonia. Per dirigere la Psia, una delle sezioni più prestigiose di Sciences Po, l’ex presidente del Consiglio italiano si è dimesso da deputato e si è trasferito a Parigi con la famiglia. 
 Nata nel 2010 per volontà del grande direttore scomparso tre anni fa Richard Descoings, guidata finora dal politologo ed ex ministro libanese Ghassan Salamé, la Psia si vanta di essere «la più grande scuola di affari internazionali del mondo»: corsi biennali, 1.500 studenti, il 70 per cento dei quali non francesi, e circa 350 insegnanti scelti tra accademici e uomini politici. Letta terrà in particolare un corso intitolato «L’Unione europea di fronte alle nuove sfide mondiali». 
 «Nessuno di noi sarà uguale a se stesso dopo questi due anni», ha esordito Letta nel suo discorso inaugurale. «Vale per gli studenti, vale per me e per tutti i professori. Cambieremo. E questo cambiamento sarà cruciale per le vite di ognuno di noi». 
 Il nuovo preside della Psia ha evocato il momento decisivo che attraversano il mondo e l’Unione europea. «In questi prossimi due anni avremo un nuovo segretario generale dell’Onu e un nuovo presidente Usa. Avremo un’ Europa diversa che avrà preso una strada oppure un’altra nel bivio in cui si trova, in particolare sui due temi cruciali dell’euro e dei flussi migratori. Un’Europa che deve fare passi avanti verso l’integrazione altrimenti è destinata al declino. Un’Europa che vivrà elezioni decisive nei suoi due principali paesi, Francia e Germania». 
 Poi Letta ha parlato dell’atteggiamento richiesto da questo futuro di svolte. Sottolineando che il mondo accademico non è una realtà di osservatori, staccati dalla realtà e dalla politica. Vale per i ragazzi, chiamati a essere leader , non follower , e vale per lo stesso preside Letta: «Vivremo insieme questi cambiamenti. Ma li guarderemo non come si legge un giornale, o si guarda un sito o un documentario. Non saremo e non sarete gli spettatori di un film. Siete qui non per imparare a commentare senza impegno le realizzazioni degli altri. No, decisamente, se avete scelto Psia e Sciences Po non è per mimetizzarvi, nascondervi, non è per scegliere la vita facile, non è per limitarvi al ruolo di follower ». 
 Letta, che poche ore prima aveva partecipato a un convegno del Medef (la confindustria francese) sui giovani e la società, ha continuato evocando la sua «esperienza personale»: «I cambiamenti del mondo dipendono dalle persone, e non solo quelle che hanno responsabilità formale di governo a livello nazionale o internazionale. Parlo delle persone che in varie posizioni sono in grado di influire sulle scelte. Le persone contano. Le persone sono il centro. Ho accettato con slancio la proposta del direttore di Sciences Po Frédéric Mion, nonostante, o forse proprio perché, questa proposta mi ha portato ad un cambio di prospettiva di vita». Lontano da Roma, ma puntando a essere protagonista, non semplice spettatore, dei cambiamenti a venire. 


Attaccati ai cellulari. Se la password di Facebook ora può salvare una vita.

Corriere della Sera del 28/08/15
Michele Farina
«Senza il mio smartphone non sarei mai arrivato fin qui a Belgrado, non potrei proseguire in Europa» dice Osama Aljasem, 32 anni, insegnante di musica in fuga dalla guerra siriana intervistato dal New York Times . In ogni Paese compra una nuova sim e si mette a navigare: una mappa da scaricare per il percorso, un’occhiata ai social per le ultime sui punti di passaggio, il dilemma quotidiano della ricarica. Il telefonino è forse l’oggetto più prezioso nello smilzo bagaglio dei nuovi migranti 2.0. Bussola, Gps, messaggi a chi è rimasto a casa, a chi magari aspetta dietro una frontiera. 
 Con Facebook e Whatsapp si mandano aggiornamenti in tempo reale sulle rotte, dopo averli utilizzati prima della partenza per pianificare il viaggio. Sui social in lingua araba, nei gruppi su Facebook («Come emigrare in Europa» conta 40 mila membri) ci si scambiano informazioni, mentre i trafficanti cercano di postare le loro offerte last minute con tanto di «likes» più o meno taroccati: «Sconto del 50% per i bambini sotto i 5 anni». Da Istanbul a Salonicco, dalla Turchia alla Grecia, 1.900 euro a persona: passaggio in auto con due ore di camminata. Anche l’Onu distribuisce sim gratuite ai rifugiati in Giordania. 
 Grazie ai social network (e a gruppi del tipo «Come fare a meno dei trafficanti»), le organizzazioni criminali stanno perdendo quote di mercato, almeno nella tratta Siria-Europa. Le tariffe dei passatori sono calate della metà dall’inizio del conflitto. 
 Un account su Facebook non può mancare nel kit di chi scappa. Ma può anche valere una condanna. A chi passa dai checkpoint in Siria, governativi o Isis, viene spesso richiesta la password di Facebook da cui si può capire da che parte si sta nella guerra in corso. Amico o nemico. Vita o morte. Lo smartphone conserva tutto: tracce, contatti. Per questo c’è chi non lo porta con sé. E ne compra uno nuovo solo quando ha passato il confine turco. Il telefono, la tua croce. Succedeva anche dieci anni fa in Iraq, durante la guerra civile sunniti-sciiti (300 morti al giorno), quando i social non erano così diffusi. 
 Per evitare di essere uccisi dall’opposta fazione, la gente a Bagdad si comprava una seconda identità. Due documenti in tasca, sunnita e sciita, da cui pescare quello giusto a seconda della zona del checkpoint. Ma i tagliagole di turno avevano imparato la contromossa: chiedevano al malcapitato di chiamare casa. Si facevano passare la moglie o il figlio e chiedevano a bruciapelo: «Tuo marito è sunnita o sciita?». Roulette irachena, 50% di possibilità. La risposta sbagliata, e tuo marito (tuo padre) finiva con un trapano nella tempia. In confronto, nel tempo dei migranti siriani 2.0, chiedere la password di Facebook è quasi più umano. 


Merkel: c’è l’accordo con l’Italia, centri di registrazione entro l’anno.


Corriere della Sera 28/08/15
Luigi Offeddu
Al mattino, una promessa orgogliosa: «È mia ferma convinzione che l’Europa, come continente ricco, sia in grado di affrontare il problema dei migranti». Alla sera, un minuto di raccoglimento per quel Tir sulla vicina autostrada pieno di cadaveri, e il tragico annuncio che sa di sconfitta: «Siamo tutti sconvolti da questa terribile notizia: è un avvertimento affinché ci mettiamo al lavoro per risolvere questo problema e dare prova di solidarietà». Una sola persona, la cancelliera Angela Merkel, riassume così a Vienna il dramma per cui l’Ue non sa più trovare un nome, oltre che una soluzione. A fine giornata la leader tedesca risponde a una domanda sulla polemica con Roma: «Abbiamo raggiunto con Italia e Grecia l’accordo sul fatto che i centri di registrazione debbano essere allestiti entro la fine dell’anno. Ma Italia e Grecia potranno accettare gli Hotspot solo se altri Paesi sono pronti ad accogliere la loro quota di asilanti». 
 Al vertice sui Balcani Occidentali, come pochi giorni fa a quello bilaterale Francia-Germania, si è tornato ieri a parlare di Paesi dell’Est e corridoi di solidarietà, diritto d’asilo o paura, frontiere aperte o chiuse, e delle masse che premono alle porte del continente. Come ha riassunto il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier: «Mai prima nella storia tante persone hanno lasciato le loro case per fuggire dalla guerra, dalla violenza o dalla persecuzione». Per il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni «fino a tre mesi fa Italia e Grecia sembravano da sole, ora comincia a serpeggiare nella Ue la giusta preoccupazione». Hanno partecipato all’incontro Germania, Italia, Grecia, Francia, Slovenia, Croazia, insieme con l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Federica Mogherini, con il commissario Ue all’Allargamento Johannes Hahn, e con quelle nazioni candidate o «candidate potenziali» all’ingresso nella Ue, che più sentono la pressione da Oriente: Serbia, Albania, Montenegro, Macedonia, Kosovo e Bosnia-Erzegovina. Ma anche sul tavolo di questo vertice, com’era probabilmente inevitabile, non sono rimaste quelle ricette chiare, e quelle «proposte comuni», che tutti a parole si augurano. A parte un piano in 5 fasi, presentato dal ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz, che però alcuni bollano già come utopico, e che comunque dovrebbe passare al vaglio di tutta l’Ue. Prevede fra l’altro la creazione di «aree sicure», magari protette da truppe sotto mandato Onu, nei Paesi d’origine dei migranti (che sono poi la Libia, la Siria, l’Afghanistan o il Mali, e già questi nomi definiscono la complessità del progetto): in queste zone, chi vuole partire per l’Ue dovrebbe passare una selezione preventiva, e una volta superatala potrebbe emigrare alla luce del sole, sfuggendo alla morsa degli scafisti e in genere dei trafficanti di uomini. 
 Se neanche questo piano dovesse concretarsi, ha ammonito Kurz, «le singole nazioni agirebbero ognuna per proprio conto, mettendo così in pericolo la nostra idea europea di confini aperti». «Bisogna far presto», si è ripetuto all’unisono anche a Vienna, come già era accaduto negli ultimi mesi. La presenza contemporanea all’incontro della cancelliera tedesca e del suo ministro degli Esteri ha sottolineato l’allarme della prima potenza europea. Neppure Berlino, oggi, ha la ricetta per conciliare in tutta la Ue generosità ed egoismo nazionale, paura e solidarietà. 


La nuova squadra.


Corriere della Sera 28/08/15
Federico Fubini
Il corridoio del primo piano di Palazzo Chigi, quello dal lato di Piazza Colonna che porta all’ufficio del primo ministro, con il tempo è cambiato. Durante governi ormai distanti, si potevano sentire i fattorini discutere a lungo fra loro di ferie e turni, in livrea e scarpe da tennis. All’inizio dell’esecutivo di Matteo Renzi molte stanze erano vuote, e si respirava la disorganizzazione che arriva con l’inesperienza e la voglia di fare. 
 Ora è diverso. C’è ordine nell’attitudine dei fattorini, e le stanze lungo il corridoio non sono più vuote. Renzi si è dato una struttura di consiglieri economici che con i mesi è cresciuta fino a diventare la più robusta mai vista a Palazzo Chigi. Massimo D’Alema aveva il primato, perché quando divenne premier nel 1998 chiamò Pier Carlo Padoan, Marcello Messori, Nicola Rossi, Massimo De Vincenti e, per la politica estera, Marta Dassù. Ma deciso a guidare direttamente dai suoi uffici tutto il programma di governo, Renzi è andato oltre. Ha sette consiglieri per le riforme economiche, e al rientro a settembre il premier cercherà di capire se è il caso di reclutarne altri ancora o addirittura riorganizzare il loro lavoro. La decisione più importante da prendere, quanto a questo, è se applicare il metodo americano: la Casa Bianca ha il Council of Economic Advisors, con procedure, lavoro di squadra, ruoli ben definiti e un capo che coordina l’attività e i rapporti con il presidente. L’ipotesi è già stata discussa. La decisione non c’è. Di certo qualcosa cambierà: come previsto dall’inizio, alcuni dei consiglieri rientreranno nelle loro carriere di prima. Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica che ha gestito per il premier le partite sulla banda larga, la Cassa depositi e l’Ilva, in ottobre (salvo sorprese) diventerà presidente di Eataly. Tommaso Nannicini, l’economista di 41 anni che ha tenuto la regia del Jobs act e della delega fiscale, dovrebbe tornare alla Bocconi: se non lo facesse perderebbe un grosso finanziamento europeo di ricerca. Ci sono poi voci insistenti, ma non confermate, che anche la responsabile per le banche Carlotta De Franceschi potrebbe lasciare. 
 Alla fine Nannicini resterebbe, se solo riuscisse a congelare il suo finanziamento europeo; e anche su De Franceschi non ci sono decisioni. Eppure questa è una squadra che rischia di perdere tre pezzi su sette in poche settimane, mentre persino al completo è già travolta di lavoro: legge di Stabilità, spending review, rapporti con le imprese, quel che resta da attuare nel Jobs act, rapporti con gli enti locali, le riforme bancarie, e tra pochissimo l’attuazione di deleghe delicatissime e molto complesse su giustizia e pubblica amministrazione. 
 Visto dai piani alti dei ministeri di settore, secondo alcuni è in corso un tentativo di accentrare nell’ufficio del premier l’esecuzione di tutto il programma di governo. Visto da Palazzo Chigi, il problema è diverso. I consiglieri di Renzi sanno che devono lavorare con le burocrazie ministeriali per attuare le riforme, semmai in questi mesi è mancato loro qualcos’altro: non si sono mai seduti tutti insieme con il premier, documenti sul tavolo o grafici proiettati sugli schermi, per discutere dei problemi del Paese e delle strategie per risolverli. Renzi è riuscito ad attrarre alcuni dei migliori economisti e dei massimi specialisti d’Italia, spesso sotto o attorno ai 40 anni, tutti scelti anche per la loro duttilità. Ma non ne ha mai fatto una squadra. Ciascuno dei consiglieri parla con il premier da solo e a sua volta ciascuno di loro si dota di un gruppo di persone, spesso informale. Per esempio, il giurista della Bocconi Maurizio Del Conte ha lasciato per mesi l’università e il suo studio di avvocato per scrivere i testi dei decreti del Jobs act in cambio di un rimborso spese: treno da Milano, taxi da Termini a Piazza Colonna e hotel, secondo regolamento non oltre le tre stelle. In vista del confronto con Bruxelles sulla legge di stabilità e operazioni defatiganti e capillari come le riforme della giustizia e dell’amministrazione, a Palazzo Chigi si sta discutendo di un salto di qualità al giro di boa delle riforme. Servono nuovi innesti e, secondo alcuni, una struttura chiara con una persona di riferimento e più lavoro di squadra. Il realtà il metodo Renzi finora si è dimostrato utile: incontrando i suoi consiglieri uno ad uno, tenendo le sue carte coperte, il premier è riuscito a muovere di sorpresa ed evitare che il fuoco di fila contro le riforme partisse troppo presto. Ma il punto di forza del Council of Economic Advisor della Casa Bianca è proprio di far leva sulle competenze per metterle a fattor comune e moltiplicarle, con forte un impatto a valle sulla burocrazia. 
 Su questa ipotesi, ancora volta Renzi tiene le carte coperte. Lo stesso Andrea Guerra per mesi ha lavorato per formare un secondo gruppo (esterno) di poche personalità su cui il premier potesse contare. Non è chiaro che Guerra sia riuscito, anche perché è difficile convincere professionisti affermati ad abbandonare le proprie attività. Ma quale che sia l’esito di questo dibattito in corso, anche la disciplina dei fattorini in corridoio nasconde sempre qualche indizio sulla natura di una leadership. 
 


La nuova sinistra di scuola ateniese


Paolo Mieli 
Corriere della Sera 27 agosto 2015
Proletari di tutto il mondo unitevi. Ma se, per un accidente della storia, vi capita di vincere le elezioni, sfogliate i giornali, cercate un pretesto, sparate a zero contro il vostro governo e pensate subito a dividervi. Eviterete così, quando si voterà di nuovo, di dover fare i conti con la realtà ma soprattutto potrete assaporare il piacere di aver provocato un gran danno alla vostra casa madre.
Se sarete abili, di mandarla in rovina. Il «successo» del cofferatiano Luca Pastorino che alle recenti regionali in Liguria ha fatto perdere la democratica Raffaella Paita a vantaggio del berlusconiano Giovanni Toti (pur se è quasi assodato che la Paita sarebbe stata sconfitta anche se Pastorino fosse rimasto, per così dire, al suo fianco) potrebbe diventare il simbolo di un fenomeno di portata continentale.
Alle imminenti elezioni greche si presenterà «Unità popolare» guidata dall’ex ministro Panagiotis Lafazanis che, secondo i sondaggi, potrebbe prendere tra il 5 e il 7 per cento. «Puntiamo su un consenso a due cifre», ha annunciato il suo compagno di scissione Stathis Kouvelakis, docente di filosofia al King’s College di Londra. Peccato che, come annuncia Vassilis Primikiris, un altro dei leader della nuova formazione «unitaria» - nella storia della sinistra è tradizione di quasi tutti gli scissionisti quella di ornare l’intestazione del nuovo partito con il termine «unità» - nel nuovo Parlamento i seguaci di Lafazanis non si potranno alleare neanche con i comunisti: «sono indisponibili e lo dico con amarezza, perché vengo da lì come la gran parte dei compagni di Syriza», si rammarica Primikiris. E che persino il loro astro di riferimento, Yanis Varoufakis, li abbia fin qui snobbati. Lo scopo evidente di Lafazanis e compagni è quello di fare danno ad Alexis Tsipras anche se è improbabile che riescano a ottenere l’«effetto Toti», riescano cioè a far vincere Nea Dimokratia, la destra di Evangelos Meimarakis. Comunque le percentuali a cui aspirano possono essere considerate un discreto risultato. Risultato che (sempre che lo ottengano) verrà annunciato proprio nei giorni in cui - dopo la catastrofe elettorale di Ed Miliband del maggio scorso - potrebbe salire sul trono dei laburisti britannici l’iper repubblicano Jeremy Corbyn, deputato da trentadue anni che dall’epoca in cui si affermò Tony Blair e il Labour «sterzò al centro», sostiene di aver votato ai Comuni ben cinquecento volte contro le indicazioni del proprio partito. Cinquecento casi di disobbedienza politica da parte di un solo individuo. Un record che, qui da noi, farà impallidire i seguaci di Miguel Gotor.
In ogni caso Corbyn conquisterebbe la leadership laburista dall’interno e - pur non essendo stato negli ultimi venti anni un campione di lealtà - rispettando le regole. Non è a lui, quindi, che può essere ricondotto il modello Pastorino-Lafazanis. Semmai ispiratore di questa politica può essere considerato Oskar Lafontaine, eccellente primo ministro della Saar dal 1985 al 1998. Nel ‘90 Lafontaine era stato candidato dalla Spd contro Helmut Kohl reduce dalla riunificazione del suo Paese. E aveva perso. Vinse invece, otto anni dopo, Gerhard Schröder che riportò al governo i socialdemocratici tedeschi e chiamò il suo meno fortunato predecessore a guidare il ministero delle Finanze. Ma già nel 1999 Lafontaine lasciò l’incarico (tuonando «contro la dittatura dei mercati finanziari») anche se mantenne, nel partito, la prestigiosa carica di presidente. E da presidente non perse occasione per manifestare il suo dissenso nei confronti della politica di rigore imposta da Schröder (politica, va detto, a cui oggi anche i suoi ex oppositori riconoscono il merito di aver reso possibile che la Germania diventasse la locomotiva del treno europeo).
Nel 2005, Lafontaine lasciò la Spd, fondò assieme ad altri partitini Die Linke (La sinistra) si presentò alle elezioni e da allora ha collezionato una lunga serie di minisuccessi. Ha dimostrato di saper parlare al cuore dell’elettorato di sinistra come tra il 2008 e il 2009, quando il suo candidato alla presidenza della Germania, l’attore Peter Sodann, suggeriva l’arresto del presidente della Deutsche Bank Josef Ackermann, lodava la Ddr - dove pure era stato un dissidente - ricordando come fosse stato «il Paese con il maggior numero di teatri in Europa e con un ottimo sistema sanitario» e proponeva di sostituire l’inno nazionale tedesco con il «Kinderhymne» di Bertolt Brecht. La presidenza poi era stata conquistata dall’ex direttore del Fondo monetario internazionale Horst Köhler ma Sodann e Lafontaine furono contenti lo stesso. Così Die Linke è andata crescendo (pur restando tra il 10 e il 15 per cento) di elezione in elezione e, proprio in virtù di questi exploit , la sinistra tedesca ha sempre perso e Angela Dorothea Merkel ha avuto un’assicurazione a vita alla cancelleria di Berlino. Nel 2008 l’ex leader socialdemocratico Helmut Schmidt, per spiegarne le fortune, ha sostenuto che Lafontaine gode di un grandissimo carisma («come Adolf Hitler», ha aggiunto non senza una qualche malizia).
Nel 2013, Günter Grass, con toni meno eleganti, lo ha definito un «viscido traditore» specializzato nel far perdere la sinistra nel suo insieme. Lafontaine ha risposto per le rime rinfacciando all’autore del Tamburo di latta di aver «assillato» nel lontano 1966 il socialdemocratico Karl Schiller, ministro dell’Economia nel governo di Grosse Koalition, per il suo passato di iscritto al Partito nazionalsocialista. E di averlo fatto mentre taceva la sua appartenenza alle Waffen SS. Anche questo scambio di ceffoni ha deliziato gli spiriti più intransigenti del mondo progressista tedesco e, ad un tempo, i giornali più conservatori che gli hanno dato grande risalto. E mentre la sinistra tedesca si diletta in questo modo, l’Spd negli ultimi dieci anni (dieci anni!) ha dovuto accontentarsi di stare in grande coalizione con la Merkel dal 2005 al 2009, fuori dal governo tra il 2009 e il 2013, e di nuovo dentro dal 2013 sotto la guida di Sigmar Gabriel che nella recente crisi greca ha assunto una posizione intermedia tra la Merkel e Wolfgang Schäuble. Tale è la fiducia dei socialdemocratici per il futuro che uno dei loro principali leader, il primo ministro dello Schleswig-Holstein, Torsten Albig, ha proposto al proprio partito di saltare il turno elettorale del 2017. Missione compiuta, compagno Lafontaine.

Il limite dei 240 mila euro. Stoccata a Palazzo Madama, ecco chi sfora il tetto per i manager.


Corriere della Sera 26/08/15
Andrea Ducci
«Non è un tettuccio». Matteo Renzi gioca con l’accento fiorentino per ricordare il tetto agli stipendi dei manager, salvo affondare il colpo e dire che il limite di 240 mila euro non sembra valere per tutti. «C’è ancora qualcuno che, approfittando di essere un organo costituzionalmente rilevante, ne ha ancora diritto». Il riferimento esplicito è al Senato. Sarà perché il servizio bilancio di Palazzo Madama ha bocciato più di un provvedimento dell’attuale esecutivo o per la comprensibile diffidenza dell’intera struttura amministrativa del Senato nei confronti del ddl Boschi (riforma della camera alta), ma i rapporti tra il premier Renzi e gli alti funzionari dell’organo presieduto da Pietro Grasso sono ai minimi storici. Di qui la stoccata di Renzi per ricordare che a Palazzo Madama non applicano ancora il tetto agli stipendi. 
 La soglia dei 240 mila euro in verità è già stata introdotta nel settembre del 2014. Per vederla applicata il consiglio di presidenza del Senato ha però stabilito che il taglio della parte di retribuzione che supera il tetto sarà effettuato per scaglioni, nell’arco di quattro anni. In pratica, lo stipendio di Elisabetta Serafin, segretario generale del Senato, passerà dagli attuali 427 mila euro a 240 mila euro nel 2018. Nel frattempo subirà tre sforbiciate per rendere più graduale il giro di vite. Analogo destino per gli altri 97 consiglieri parlamentari: la retribuzione di un consigliere al quarantesimo anno di servizio è di 372 mila euro, ma scenderà a 240 mila euro entro il 2018. Questa gradualità vale sia per il Senato sia per la Camera. E vale, ironia della sorte, anche per il più alto dirigente che coadiuva il lavoro del presidente del Consiglio. Paolo Aquilanti, attuale segretario generale di Palazzo Chigi è, infatti, un consigliere parlamentare del Senato fuori ruolo. Il suo stipendio supera il fatidico tetto dei 240 mila euro e, dato che a pagarlo è l’amministrazione di Palazzo Madama, dovrà essere sottoposto alle analoghe sforbiciate imposte alle retribuzioni dei suo colleghi.

Cambiare Dublino.


Corriere della Sera 27/08/15
Maria Serena Natale
Quando in Notre-Dame de Paris il campanaro Quasimodo strappa Esmeralda all’impiccagione, la porta in cima alla cattedrale e la solleva sul mare di folla gridando «Asilo». Esmeralda è salva. Sulla soglia di Notre-Dame, scrive Victor Hugo, «cessava ogni giustizia umana». 
 Da sempre rifugio degli ultimi e dei perseguitati, l’asilo è un pilastro del diritto internazionale, regolato da un ampio corpo di convenzioni e protocolli. L’istituto giuridico che nella recente storia europea ha soccorso figure come Thomas Hobbes, Cartesio e Voltaire, oggi torna al centro del dibattito sulle norme Ue incapaci di fare ordine e garantire la dignità dei rifugiati. La Germania di Angela Merkel ha appena fatto ricorso alla «clausola di sovranità» per sospendere in stato d’emergenza e limitatamente ai cittadini siriani l’applicazione del Regolamento di Dublino, pietra angolare del sistema d’asilo europeo. L’urgenza di ripensare Dublino è stata riaffermata ieri dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni intervistato dal Corriere . «Dublino III» ed «Eurodac II» sono i regolamenti del 2013 che rappresentano la versione più aggiornata di un’architettura nata con la Convenzione del 1990 e modificata con «Dublino II» nel 2003. Si tratta in sostanza di un insieme di norme e meccanismi con il quale l’Unione Europea stabilisce su quale Stato ricada la competenza per l’esame delle richieste di protezione internazionale. «Eurodac» è un database comunitario di impronte digitali. 
 Il controverso principio base è quello del Paese di primo accesso: salvo eccezioni, l’onere spetta «in primis» allo Stato che abbia svolto il maggior ruolo rispetto all’ingresso e al soggiorno del richiedente asilo in territorio Ue. L’obiettivo principale è evitare che più Stati si ritrovino a trattare una stessa domanda. In questo modo però il sistema scarica una pressione insostenibile sulla «prima linea»: Italia e Grecia, alle quali nelle ultime settimane si è aggiunta anche nelle dichiarazioni ufficiali di Bruxelles l’Ungheria del premier nazionalista Viktor Orbán, che forte di un implicito ruolo di «baluardo» sta alzando un muro di filo spinato al confine con la Serbia. Paese di primo accesso teme di diventare ora anche la Bulgaria che ha appena schierato blindati e guardie di frontiera. Dublino si fonda su presupposti astratti che hanno subito ceduto al peso della realtà. Pur ampliando i dispositivi per una maggiore tutela dei diritti, soprattutto dei minori, «Dublino III» ha mantenuto tutti i limiti che rendono la gestione delle pratiche disfunzionale e inumana. Nell’Unione non esistono infatti livelli omogenei di protezione: tempi e condizioni di accoglienza variano da Stato a Stato e i criteri «oggettivi» fissati non tengono conto delle esigenze dei migranti, spesso decisi a raggiungere familiari già in Europa, in alcuni casi trattenuti in veri centri di detenzione. Da anni Italia e Grecia sono accusate da Paesi come Germania e Svezia — che mantengono il record d’accoglienza perché la maggior parte dei rifugiati finora arrivava con «tradizionali» viaggi in aereo — di non registrare i migranti e lasciarli proseguire verso il Nord. Proprio per dare sollievo agli Stati di primo accesso è stato pensato il «sistema hotspot» dell’Agenda Immigrazione Ue: una serie di centri per il controllo e la registrazione gestiti dalle forze nazionali in cooperazione con le agenzie comunitarie. Soluzione parziale e già superata dagli eventi. Un ulteriore passo verso la revisione di Dublino è il piano tedesco in dieci punti «per una nuova integrazione della politica europea dell’asilo» appena presentato dal vice cancelliere Sigmar Gabriel e dal ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Ancora uno strappo della Germania ormai leader nella gestione di una crisi che è una corsa contro il tempo. L’ultima tragedia è quella di un 15enne somalo soccorso da una nave di Medici senza frontiere. Prima di prendere il mare era stato torturato, non ce l’ha fatta.

coerenze...


martedì 25 agosto 2015

L’allegra brigata kalimera che Tsipras tradì.


Corriere della Sera 23/08/15
Aldo Grasso
Dov’è finita l’allegra Brigata? Intendo la Brigata Kalimera, quel manipolo di irriducibili che da febbraio 2015 ha preso a frequentare Atene come ultimo baluardo della sinistra dura e pura. Prima per festeggiare il successo elettorale di Alexis Tsipras e, poi, la vittoria nel referendum. L’allegra Brigata Kalimera, intendo i Fassina, i Vendola, le Spinelli, i Maltese, i Civati, la minoranza dem, i fans di Syriza e Podemos e la «sinistra di popolo» in viaggio-studio ad Atene (Erasmus per fuori corso) per affermare che un’altra sinistra è non solo possibile ma può diventare forza di governo. 
 Pochi giorni fa, però, Tsipras ha «tradito» la Brigata Kalimera, ha chiesto le elezioni anticipate, si è comportato da statista responsabile e non più da leader populista. Sconfessando l’esito del referendum (non si può vivere sempre in campagna elettorale), si è convinto che per andare avanti deve accettare le regole che vengono imposte non dai debitori ma dai creditori. L’allegra Brigata oggi è triste: il suo destino, se continuerà a prendere lucciole per lanterne, sarà sempre la sconfitta, la perenne stasi nell’illusione demagogica. Il modello Tsipras come antidoto al renzismo è svanito e con esso l’occasione per un’altra politica della sinistra italiana. 
 Dal buongiorno ( kalimera ) alla buonasera ( kalispera ) è questione di ore: « Ogni ilusion xe senza luse, quando fa sera » (Biagio Marin).

lunedì 24 agosto 2015

DDL scuola: non è questione di "genere" ma di libertà

Laura Venturi
24 agosto 2015
Nel DDL sulla Buona Scuola una parte fondamentale riguarda il piano triennale dell'offerta formativa che definisce l'identità culturale e progettuale delle scuole. 
In questo quadro e' passato un emendamento, in conformità al Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere previsto dal decreto legge n. 93/2013, che recita testualmente che il piano triennale dell'offerta formativa deve assicurare "l'attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate, ecc.".
È questo il famigerato "attacco gender" di cui si stanno riempiendo la bocca tanti soloni preoccupati dell'integrità morale e addirittura fisica dei loro figli ?
Io mi preoccupo invece di vivere in un paese nel quale la verità viene distorta e le notizie manipolate a piacimento per incutere paure e diffondere pregiudizi.
Al di là delle polemiche tra chi vede nella presunta ideologia gender un insieme di oscure minacce e chi, come me e tante altre persone, ritiene che non esista tale teoria (a meno che non ci si riferiva impropriamente ai "gender studierà" che sono però una cosa completamente diversa) se non nella mente di chi l'ha creata per poterla poi combattere, chiediamoci cosa tratta davvero il DDL scuola in questo ambito specifico.
Tratta di educazione e di libertà.  Di crescita e di conoscenza. Di un patto di fiducia tra genitori e insegnanti e tra insegnanti e alunni. 
E nel citato articolo 16 tratta di educazione di genere intesa come educazione alla parità, nella consapevolezza che solo l'educazione al rispetto e alla valorizzazione delle differenze potrà aiutare i nostri figli a superare gli stereotipi  e a costruire una società senza discriminazioni e prevaricazioni.
Il peggior danno che si può creare in una bambina e in un bambino, e nei suoi genitori, e' quello di incrinare i sentimenti di rispetto e fiducia su cui si devono basare i rapporti nella scuola, oltre che nella società. 
Chi in malafede, e distorcendo la verità, vuol far credere che nel DDL scuola si annidino insidie per la crescita dei nostri figli commette un atto da condannare con fermezza. 


venerdì 21 agosto 2015

"I poveri non sono scarti. Serve condivisione "


Al Meeting di Rimini il segretario Cei, Nunzio Galantino evidenzia che "il disperato cerca, l'appagato no".

C'è bisogno di maggiore attenzione "a tutti i poveri, a quelli che non hanno il lavoro o lo hanno perso, a quelli che provengono da zone più povere ed economicamente arretrate, a quelli che non sono in grado di difendersi perché attendono di nascere e godere della vita". Anche la Chiesa deve "rinnovarsi nelle sue strutture, nelle dinamiche decisionali e nelle prassi concrete delle comunità". Servono "dinamiche autenticamente evangeliche e libere, che manifestino in modo sempre più trasparente la carità". Dalla parte degli ultimi, sempre. "Il limite è una scuola capace di insegnarci quale sia il segreto della vita: chi è appagato non cerca, né lo fa chi è disperato-afferma il segretario generale della Cei Nunzio Galantino-. Cerca invece chi è povero, cioè chi percepisce il limite come caratterizzante la natura umana e ne fa motivo di crescita. La persona va concepita in modo che il limite non sia un accidente, ma costitutivo dell’essere. Se accettato, la coscienza del limite si trasforma in desiderio di aprirsi agli altri e all’Altro, con la a maiuscola, cioè a Dio". Quindi "l’umiltà è l’atteggiamento interiore che consente di valorizzare il limite, rendendolo un motivo di crescita invece che di rammarico: è la virtù che permette di accettare la propria condizione senza desiderarne un’altra, ma accogliendone le sfide e la bellezza", evidenzia il vescovo Galantino davanti alla platea di Rimini.
Alla 36°edizione del Meeting per l'amicizia tra i popoli, il suo intervento era tra i più attesi dopo una settimana di polemiche sugli sbarchi di migranti e l'inadeguatezza della politica. Monsignor Galantino ha parlato del senso del limite e del fascino delle frontiere. "Gesù, sceglie la povertà per stare con noi- spiega-.La diffusione del cristianesimo è l’evento che più ha rivoluzionato la storia del mondo e il modo di pensare l’humanum. Credere in un Dio che soffre fino alla morte, che è il punto drammaticamente più alto del limite; e credere in un Dio che vince il male assumendo la debolezza altrui introduce una visione che stravolge per sempre le categorie attraverso le quali si pensa il divino". Il comandamento dell’amore, che per il Vangelo riassume tutti i comandamenti, "porta a intendere gli ultimi non più come scarti, ma come persone da sollevare e delle quali condividere la sorte". Una Chiesa che "fa del limite una risorsa assume lo stile missionario invocato da Francesco, divenendo sempre meno dispensatrice di servizi e sempre più ospedale da campo, chinata sugli ultimi, nei quali è racchiusa la più grande ricchezza, nei quali è presente lo stesso Signore, dai quali spera di essere accolta nel Regno di Dio". Ed è la vita del singolo che deve essere rivista e ammodernata da una più forte presa consapevolezza del proprio limite."L’esperienza del limite annichilisce la vita dell’uomo o può rappresentare, se adeguatamente compresa e integrata, un’occasione di crescita e di umanizzazione?- si schiede il vescovo scelto da Francesco per cambiare la Chiesa italiana-. Il senso del limite è solo un momento dell’esperienza dell’uomo che non smette di subire costantemente il fascino delle frontiere". Infatti "a ogni azione o orientamento corrisponde un valore che si intende perseguire: sempre vi è alla base dell’agire un'idea di persona, un ideale di essere umano e di società da raggiungere e verso il quale ci si incammina". Per questo motivo, aggiunge il numero due dell'episcopato, è essenziale "elaborare un’antropologia adeguata, senza la quale si sarà guidati da un’immagine distorta di ciò che siamo".
L'uomo, infatti, non è solo libertà individuale ma anche "ricerca di Dio e della verità, responsabilità, accettazione del sacrificio, alle quali è intimamente legato il raggiungimento di una libertà vera". E invece, avverte monsignor Galantino, "il relativismo vuole promuovere a tal punto la libertà individuale da non tollerare chi la intenda in altro modo, limitando la libertà altrui al fine di difenderla: autentica contraddizione e vero spirito post-filosofico, non razionale".
Il segretario generale della Cei propone di comprendere l’essere umano a partire dal limite, articolando così una “antropologia del limite”, non nel senso di un’antropologia non orientata alla felicità o al benessere della persona, ma nel senso di un’antropologia che li persegue tenendo conto della "nativa debolezza dell’uomo".
Il limite, la “mancanza” non possono essere messi da parte come un inconveniente o un elemento trascurabile, ma "vanno assunti come elementi che strutturano radicalmente l’essere della persona, e vanno valorizzati come portatori di una potenziale ricchezza". Del resto, sottolinea Galantino, l’uomo è, nella sua stessa essenza, un “essere-nel-limite”. E' il limite insito nella natura stessa dell’uomo, in quanto "essere creaturale e intrinsecamente mancante". Una mancanza, della quale "facciamo esperienza ogni giorno e che si manifesta in molte forme e innumerevoli aspetti: nella malattia e in ogni forma di sofferenza, nella difficoltà o impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni, nella fatica a collaborare e convivere con gli altri, nella morte che pare azzerare e svuotare ogni obiettivo raggiunto". Se il limite, di cui siamo rivestiti, non è accettato, l’esistenza può trasformarsi in una "finzione e divenire il tentativo di svincolarsi dai limiti senza mai riuscirvi, di negare la propria natura finita e la propria pochezza".
L’essere umano, infatti, "desidera ciò che è grande e illimitato e tende a raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha". Questo è positivo e non è un male in se stesso. Lo diviene però se egli rifiuta la sua debolezza e intende questi obiettivi come dei diritti, arrivando a pretendere di raggiungerli invece che perseguirli con umiltà. "Il limite è nell’uomo un fattore propulsivo, in quanto genera il desiderio, che è il motore della volontà- afferma Galantino-.Se l’uomo possedesse tutto, non cercherebbe nulla; se al contrario si scopre mancante, è mosso alla ricerca di ciò che non ha. Perciò il limite non è semplicemente sinonimo di “imperfezione”, ma è la radice stessa dell’apertura dell’uomo. Proprio l’esperienza dell’indigenza che nasce dal limite, porta al fascino delle frontiere".
Nel suo ragionamento Galantino pone l’esigenza di riconoscere la contemporanea presenza nell’uomo del senso del limite e del fascino delle frontiere. Un modello antropologico per il quale "non è possibile affermare una separazione tra l’essere storico ed incarnato dell’uomo e il suo essere trascendente, fatto quindi per autotrascendersi".
Quello di Galantino è un discorso dottrinario, in cui non manca un richiamo alla politica “guidata da interessi”. Non è morbido il passaggio in cui sostiene che la ricerca dell'utile prevale nelle scelte, sia individuali che pubbliche, rispetto a progetti a lunga scadenza. «Il nostro tempo - sottolinea - è stato, tra l'altro e da più parti, definito come tempo post-filosofico, perché sempre meno attento alla giustificazione razionale degli orientamenti e delle scelte, individuali e pubbliche, guidate per lo più dal perseguimento di interessi e fini immediati e poco meditati, dettati spesso dalla ricerca dell'utile e meno da un progetto consapevole e a lunga scadenza».