martedì 19 novembre 2019

Per il futuro dell’Italia servono crescita e lavoro

di Giorgio Gori 


Oggi avevo pensato di parlarvi “da sindaco”, per condividere con voi le difficoltà di un ruolo costantemente in trincea e per raccontarvi come tanti sindaci democratici siano riusciti – in una fase politica decisamente non favorevole – a vincere le ultime elezioni amministrative
Di come queste affermazioni siano nate dalla concretezza e dalla prossimità. Soprattutto, dalla capacità di tenere insieme, ciascuno nella sua città, crescita e inclusione sociale, innovazione e solidarietà, apertura e appartenenza. Ma mi fermo qui.

La politica si fa nella realtà
In questi giorni ho ascoltato molti interventi e visto venire avanti un’idea di fondo sul futuro del Pd: un’idea del tutto condivisibile dal punto di vista valoriale e delle finalità ultime del nostro impegno. Insufficiente però, a parer mio, a guidare la nostra azione politica oggi e domani, nell’Italia degli anni Venti. Di questo dunque vorrei parlare. Ho respirato molta idealità e poca realtà. E la politica, invece, si fa nella realtà.
Si è parlato molto di giustizia sociale, di lotta alle disuguaglianze e di redistribuzione della ricchezza. Tutti temi, ripeto, molto condivisibili. Non altrettanto della formazione della ricchezza, anzi per niente. Ha ragione Mauro Magatti quando dice che non conta solo la dimensione della torta, ma anche chi l’ha fatta, quali ingredienti ha usato, come vengono divise le fette. Ma conta anche la dimensione della torta.
Non c’è stato un solo intervento che abbia affrontato i temi della produttività, della crescita, del debito, della micidiale zavorra rappresentata dagli interessi su quel debito. Anche a me sta a cuore la giustizia sociale, insieme alla libertà. E’ per questo che faccio politica. Ma un partito serio – se ci tiene – ha il dovere di chiedersi come, con quali strumenti, nell’Italia degli anni Venti, quell’obiettivo si possa realizzare. Io non credo ci siano molte alternative. Se vogliamo arrivare a quell’obiettivo dobbiamo mettere il lavoro e l’occupazione al centro dell’agenda del Partito Democratico e del Paese.

Il lavoro come chiave della cittadinanza
Il lavoro come valore, innanzitutto. Il lavoro come chiave della cittadinanza e come antidoto all’insicurezza. Il lavoro inteso come strumento di emancipazione personale, ma anche come leva insostituibile di coesione e sviluppo collettivo. Il lavoro come fondamento dell’identità di questo partito e del suo rapporto con la società. Dobbiamo tornare ad essere il partito del lavoro e dell’occupazione! Di tutti i lavori: di quello dipendente e di quello autonomo, del lavoro precario e del lavoro d’impresa.
Nella mia provincia il tessuto produttivo è composto per oltre il 90% da piccole e piccolissime imprese. Molte di queste sono state create da operai o artigiani che un giorno hanno deciso di mettersi in proprio e con fatica, magari lavorando 15 ore al giorno, piano piano hanno costruito la loro azienda. Oggi sono imprenditori. Mi spiegate come possiamo non stare dalla parte di queste persone? Se siamo un partito di soli pensionati e dipendenti pubblici c’è decisamente qualcosa che non va… Perché stare dalla parte del lavoro e dell’occupazione significa avere una bussola.
E battersi così per la dignità del lavoro, dipendente e precario, e per una giusta remunerazione; dare importanza alla formazione e alla competenza; comprendere che l’innovazione tecnologica rappresenta un’opportunità di emancipazione del lavoro e dei lavoratori, come dimostrano i Paesi che più hanno investito in tecnologie e formazione – Germania, Giappone, Corea del Sud – che hanno bassi tassi di disoccupazione e un’occupazione di alta qualità – altro che tecnofobia; significa riconoscere la transizione ecologica come un’occasione di sviluppo, persino disporre di una chiave per l’integrazione degli immigrati: attraverso il lavoro; e infine un indirizzo etico: perché lavoro significa anche fatica, sacrificio e senso del dovere – e ce n’è molto bisogno.

Investire sul futuro
Un libro che ho letto nelle scorse settimane – “La società signorile di massa”, del sociologo Luca Ricolfi – mette in evidenza un dato abbastanza sconcertante. In Italia lavora solo il 45% degli abitanti. Per farvi capire: in Svezia lavora il 69% dei cittadini – tutti compresi -, in Svizzera il 65%, in Inghilterra il 61%, il 60% negli Stati Uniti, il 59% in Germania. In Italia il 45%, dato che sarebbe ancora più basso – 43% – se si considerassero i soli italiani, e che un poco si alza grazie agli stranieri, che lavorano per il 60%. 45 per cento. E gli altri? Gli altri accedono al surplus – e non se la passano malissimo, secondo l’autore, a giudicare dai consumi – senza lavorare. Se escludiamo i minori e i pensionati, gli altri vivono grazie alla rete familiare, alla ricchezza accumulata dai padri o dai nonni, a rendite di vario tipo, a trasferimenti di denaro pubblico, all’evasione e allo sfruttamento del lavoro servile (lavoro nero e sottopagato, perlopiù di stranieri): una nuova forma di schiavismo.
E’ dagli anni 80 che gli italiani hanno smesso di investire nel futuro, cercando di conservare la ricchezza più che produrla. E da quando questo assetto a cominciato a scricchiolare – per il 50% della popolazione, a causa della doppia crisi iniziata nel 2008, un 50% concentrato soprattutto al Sud e nelle periferie, in cui forte è la quota di giovani e di famiglie numerose – la paura di perdere il benessere che si era acquisito è diventato il sentimento prevalente nel nostro paese. Non stupisce che la modernità sia vista come una minaccia, e la narrazione ottimista come uno schiaffo: perché la gente sente la terra che si disfa sotto i piedi. Proteggere quel benessere che sta svanendo è la prima preoccupazione degli italiani.
E lì trova chi le promette protezione: chi un reddito senza neanche bisogno di lavorare, chi la pensione anticipata, chi un drastico taglio delle tasse… Lì trova l’uomo forte che è capace di cantarle all’Europa, quello che parla chiaro e che promette muri, difese, dazi, porti chiusi. La Nazione come rifugio dal mondo. Come rifugio dalle novità che sottratte ad ogni nostro controllo e contro ogni nostra volontà fioriscono e impazzano nel mondo (globalizzazione, concorrenza, asiatica, tecnologia, stranieri). Rifugio materiale e rifugio culturale. La Nazione come scudo protettivo.
E’ un’Italia spaventata che mitizza il passato e che crede alle favole dei populisti. Prima gli italiani! Potete immaginare qualcosa di più consolatorio? Potete immaginare qualcosa di più illusorio? Di più falso? Noi abbiamo il dovere di dire la verità. La verità è che non può durare. Un Paese che non cresce è un Paese che va indietro, e il conto lo pagano i più fragili. Che senza Europa saremo molto più deboli. La verità è che questo Paese è fermo da 25 anni. E che quelli che lavorano sono troppo pochi per andare avanti. La verità è che chi lo ha governato negli ultimi anni della prima repubblica lo ha indebitato fin sopra i capelli. Anche l’austerità è a suo modo un’illusione. Una necessità ma anche un’illusione.

L’Italia deve tornare a crescere
Dal 1996 ad oggi l’Italia ha accumulato nel complesso un avanzo primario medio del 2% all’anno (è la differenza tra entrate e uscite, al netto degli interessi sul debito), nel complesso pari al 43% del PIL e a circa 700 miliardi di euro ai valori attuali. 700 miliardi! Nessun Paese occidentale è stato altrettanto virtuoso. La Germania non ha fatto altrettanto, eppure… Nelle dinamiche del debito pubblico apparentemente non c’è traccia di decenni di disciplina di bilancio italiano. Dal 2006 ad oggi il debito tedesco è sceso dall’86% al 68% del PIL. Nello stesso periodo quello italiano è salito dal 104% al 134%. Perché?
Perché negli ultimi vent’anni le dimensioni dell’economia italiana sono cresciute dell’0,5% medio, quasi nulla, contribuendo a far salire il debito – su cui ogni anno si aggiungono decine di miliardi di interessi (quest’anno 65, nel 2020 saranno 76) – e soprattutto il rapporto tra questo e il PIL. L’economia tedesca è cresciuta tre volte di più e soprattutto il debito tedesco è un quarto del nostro.  E sarebbe stato molto peggio senza l’euro e senza Draghi! L’austerità è dunque necessaria ma inefficace.
Se l’Italia non riprende a crescere è come cercare con fatica di riempire un secchio bucato. La verità è che senza crescita non abbiamo futuro. E la crescita richiede impegno, fatica, intelligenza e solidarietà: tutte cose oggi piuttosto impopolari. Dobbiamo evitare di dirle perché sono impopolari? Se preferite possiamo accodarci all’onda retrotipista, alla nostalgia del passato, e rituffarci nel ‘900, nella critica del capitalismo sfruttatore, e fustigarci per aver fugacemente creduto che il mercato possa determinare delle opportunità, abiurare il jobs act e i governi Letta, Renzi e Gentiloni. In questi giorni ho sentito parecchia gente suonare questo spartito. Porta voti? Ho qualche dubbio.
E’ la stessa strada percorsa dai socialisti francesi. Se la imboccassimo anche noi credo che Renzi avrebbe motivo di festeggiare… Soprattutto non risolve i problemi dell’Italia. Non restituisce benessere a chi ha paura di perderlo, non crea nuovi posti di lavoro, non frena la denatalità, non evita la fuga di tanti giovani, non allarga il welfare, non sostiene una vera svolta ambientale, non potenzia l’istruzione. Non avvicina l’obiettivo della giustizia sociale. Senza crescita non ci sono i soldi per fare cose di sinistra. Lo stiamo vedendo con la legge di bilancio: per evitare l’aumento dell’Iva, che sarebbe stato un disastro, e fare poco di più, facciamo 14 miliardi di deficit e siamo costretti ad inventarci nuove tasse.
Siamo in un loop di debito che cresce, interessi che si mangiano tutto e pochi spiccioli che restano per fare le cose. Certo, c’è il contrasto dell’evasione fiscale, ma non pensiate che basti. E’ da un quarto di secolo che l’Italia non cresce, anzi decresce se si conta la senescenza naturale degli edifici, delle infrastrutture e delle conoscenze. Il problema è nella produzione. La Francia ha quasi la stessa produzione manifatturiera con 800 mila addetti in meno. Un addetto in Italia crea 60 mila euro di valore all’anno, in Francia 73 mila, e in Germania 77 mila. Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma rischiamo il sorpasso da parte della Francia. Per cambiare marcia servono più investimenti: privati, pubblici e delle multinazionali. Bisogna convincere le aziende – i cui depositi sono cresciuti di 128 miliardi dal 2012 al 2019 – a investire nel digitale, in ricerca, in nuove soluzioni organizzative, in capitale umano – esattamente com’è stato fatto in Emilia Romagna e come abbiamo fatto anche noi con Industria 4.0, muovendo 240 miliardi di investimenti, e come oggi fatichiamo a fare. E perché le aziende si decidano ad investire servono una pubblica amministrazione più efficiente, una forte semplificazione delle norme e della burocrazia e una giustizia più rapida.

La distanza dagli alleati di governo
Difficile non vedere come questo punto – il lavoro, e cosa serva per creare lavoro – segni una rilevante distanza dalla cultura dei nostri attuali alleati di governo. Non ero contrario ad avviare una la collaborazione, viste le alternative – ben altro è immaginare un’“alleanza strutturale” – ma la qualità di un governo non si giudica dalle intenzioni, si giudica dalle opere. E le opere, su questo specifico fronte, lasciano molto a desiderare. I titoli li conoscete: Ilva, Alitalia, Whirpool, Comau, riconversione dell’automotive, fallimento del reddito di cittadinanza, frenata su Industria 4.0.
C’è un problema di egemonia culturale, che stiamo subendo. L’impressione che diamo è che il governo non abbia abbastanza cuore la crescita e la produttività, e a che a prevalere sia la cultura del risarcimento assistenziale, accompagnata da un ritorno di statalismo. Visto dalle regioni del Nord, questo determina una gravissima frattura con i ceti produttivi, e non solo con gli imprenditori. E’ un problema molto serio. Come ha scritto Dario Di Vico: “La Lega è già forte di suo – anche qui, anche in Emilia Romagna – non ha bisogno di essere aiutata”.

Il modello Emilia Romagna
E a proposito di Emilia Romagna, la piazza delle “sardine” – l’altra sera – è stata meravigliosa. Qualcuno ha osservato che era una piazza principalmente “contro”, e non si vince se ci si ferma al “contro”. Quella piazza, secondo me, era invece anche “per”: per un modello di società che si accompagna ad un modello di economia. E che le “sardine” stipate in Piazza Maggiore vogliono tenersi stretto. Quel modello, il modello dell’Emilia Romagna, è fondato innanzitutto sul lavoro e sull’occupazione, ed è un modello che tutta l’Italia vi invidia. E’ il modello di una regione che in questi anni ha portato la disoccupazione dal 9 al 4.8%. E che vanta un tasso di occupazione del 71,3%, il più alto del Paese. Che ha raggiunto questi risultati partendo dal Patto per il Lavoro – appunto – sottoscritto con imprese, sindacati, camere di commercio, comuni, università e terzo settore. E che ha saputo attivare investimenti per oltre 20 miliardi nelle opere pubbliche e nella mobilità, nella tutela del territorio e nella casa, nella ricerca tecnologica, nell’innovazione e nell’internazionalizzazione del sistema produttivo, nella formazione, nella sanità e nel welfare. Investimenti pubblici e investimenti privati. Che ha avuto la capacità di attrarre investimenti privati nelle aree interne, chiedendo impegni nella formazione i cambio degli incentivi.
Lavoro, occupazione, crescita. Lavoro, occupazione, crescita. Su cui si fondano l’ampliamento del welfare, il contrasto della povertà e la lotta alle disuguaglianze. La giustizia sociale che ci sta tanto a cuore.
Questo è il modello Emilia Romagna, che quelle “sardine” vogliono sia difeso. E che mi piacerebbe che fosse il modello di tutto il Pd.
Crescita e inclusione. Sviluppo e solidarietà. Apertura e comunità. È esattamente la ricetta dei sindaci democratici. Con questa ricetta a maggio abbiamo vinto, battendo i candidati della Lega.
Sono sicuro che ci riuscirà anche Stefano Bonaccini.

sabato 9 novembre 2019

9 novembre 1989


Sono Liliana.

Sono una donna.
Sono italiana.
Deportata.
E a 90 anni, come a 13, perdo di nuovo la mia libertà. Come allora. Perché ebrea.

Ho dedicato la mia intera esistenza, sopravvissuta per puro caso allo sterminio in un campo di concentramento, alla memoria, alla testimonianza, per ricordare cosa è stato. Affinché non accadesse mai più. Certa che mai più saremmo scivolati di nuovo in quell’abisso.

Ma mi sbagliavo. A 8 anni sono stata espulsa da scuola senza colpa. A 13 sono stata messa in un vagone bestiame e portata ad Auschwitz. E fino a 14 ho visto ogni giorno la gente morire attorno a me.

Per tre volte ho visto medici in divisa nazista scrutarmi tra le ossa e decidere, con uno sguardo, se potessi essere sfruttata ancora o mandata nelle camere a gas. Ho sentito madri nella notte invocare i nomi dei propri bambini trascinati alle “docce”. E ho sentito i bambini chiamare le mamme.

E tutto cominciò così. Come oggi sta ricominciando. Non invocando camere a gas e stermini. Ma facendo differenze tra “noi” e “loro”. E incitando all’odio noi contro loro. Cominciò così. Con gli stessi toni, lo stesso clima, lo stesso odio prima sottaciuto, poi “tollerato”, poi alimentato.

E qualcuno dice ancora che oggi nulla è cambiato. Per oltre 70 anni non ho mai avuto bisogno della scorta. Oggi sì. Oggi sono di nuovo in pericolo. Perché ebrea. E perché chi odia, oggi, rispetto a ieri, si sente protetto, legittimato, autorizzato a rialzare la testa.

Sono Cathy. Sono Francesca. Sono Maria. Sono Giovanna. Sono Valeria. Sono Marcella. Sono un’ebrea. Sono una donna.
Sono Liliana.

IL TUO DIO, SE ESISTE, È UN DIO CRUDELE.

Nel trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino mi viene alla mente un episodio - un dialogo fra i deputati Giancarlo Pajetta (PCI) e Maria Eletta Martini (DC) che ho ascoltato da un divano “accanto” nel transatlantico di Montecitorio - sul finire del 1989. Quella era evidentemente la parte finale di una conversazione fra due colleghi che si stimavano sul piano personale oltre che politico. Non sono stato indiscreto perché la voce baritonale di Pajetta si faceva ascoltare ben oltre il divano su cui ero seduto io. “Il tuo Dio, cara Maria Eletta, se esiste, è un Dio crudele”. “Cosa dici Giancarlo, vedi di non bestemmiare perché non lo sopporterei”. “No, non voglio bestemmiare, ma debbo ribadire che - se esiste - è crudele, perché se non lo fosse non mi avrebbe tenuto in vita sino ad oggi, per farmi assistere al fallimento della mia vita. Quella comunista è stata per me una fede, a cui ho dato tutta la mia vita, compresi dieci anni di galera. Capisci il mio dolore?”.
Ecco questo tema del dolore dei comunisti non era considerato da chi non lo era, tranne uno: Benigno Zaccagnini. Più volte confessó infatti di pregare in quel periodo per i suoi amici comunisti di cui comprendeva sino in fondo l’umana sofferenza, proprio lui che nel 1963 alla Camera. all’indomani dell’innalzamento del muro, aveva “profetizzato” che quel muro sarebbe stato abbattuto non da carri armati ma dall’anelito alla libertà dei popoli soggiogati dall’Unione Sovietica. 
Pierluigi Castagnetti

sabato 12 ottobre 2019

Niente condanna per Erdogan al CdS dell’Onu

Altre Terre  ottobre 12, 2019
La diplomazia internazionale alle Nazioni Unite  non trova le parole per fermare l'invasione turca che procede spedita e senza intoppi nonostante l'appello del Segretario Generale. Già 100.000 i profughi
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è riuscito a concordare una dichiarazione di condanna dell’operazione militare turca in Siria. Gli  europei, che hanno messo in guardia su  crisi umanitaria e aiuto indiretto ai militanti dello Stato islamico, sono stati sconfitti.
Durante  una sessione d’emergenza a porte chiuse del consiglio infatti – riferiva ieri il Washington Post – sei ambasciatori europei che avevano convocato la riunione nella speranza di presentare un fronte unificato contro la Turchia, volevano una risoluzione di condanna che chiedesse alla Turchia di cessare  le sue operazioni militari. Ma nonostante a parole sia Stati Uniti sia Russia abbiano manifestato preoccupazioni per quanto avviene, la montagna non ha partorito nemmeno un topolino e si è chiusa senza risoluzione. Col via libera della Nato è la seconda pugnalata vibrata nella schiena dei curdi dalla diplomazia internazionale.
Tutto ciò  mentre  le Nazioni Unite continuano a far presente la situazione gravissima in Siria e il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto di ritenere una de-escalation  “assolutamente essenziale”.
Proseguono intanto la manifestazioni di sostegno ai curdi in tutta Europa, Italia compresa: lunedì prossimo 14 ottobre alle ore 17,30 in Piazza Santi Apostoli, Roma, ci sarà un presidio promosso da CGIL CISL UIL, contro l’offensiva militare della Turchia in Siria. L’offensiva turca però non si ferma: si stima che 100.000 persone siano fuggite dalle loro case nel nord-est della Siria, secondo le  Nazioni Unite, mentre Ankata  continua la sua offensiva contro i combattenti curdi nonostante le crescenti critiche internazionali sulla campagna e le preoccupazioni che tutto ciò potrebbe portare alla rinascita dell’ISIS.






senza parole


martedì 8 ottobre 2019

PAZZESCO

Pierluigi Castagnetti
NON CI SI SCANDALIZZA PIÙ DI NIENTE, neppure di una nuova guerra alle porte di casa dichiarata da un paese NATO. Siamo pover’uomini prigionieri della pigrizia morale e della miopia umana e politica.
LA LOGICA DEI SOVRANISTI. Erdogan sta invadendo il nord della Siria con l’assenso degli USA. Obiettivo distruggere i curdi i quali libereranno i terroristi Isis da loro detenuti. Una nuova guerra. L’Italia chieda convocazione urgente Consiglio NATO e Ue poiché Turchia nella NATO.
 

Se Trump abbandona al loro destino i curdi


La Turchia sta per invadere la Siria e disperdere il popolo che ha sconfitto l'Isis. Ma per Donald prevale la "real politik". L'analisi di Fulvio Scaglione

07/10/2019
di Fulvio Scaglione
Il primo pensiero, ovviamente, va ai curdi, in questo caso ai curdi siriani, per l’ ennesima volta traditi dai Paesi occidentali. C’ è questo, infatti, nella decisione con cui Donald Trump ha concesso luce verde a un intervento militare della Turchia nella Siria del Nord. Intervento diretto proprio contro quei curdi che sono stati i migliori alleati degli Usa nella lotta contro il Califfato di Al Baghdadi ma che Recep Erdogan considera un movimento terroristico e una minaccia per il suo Paese. Il progetto del Presidente turco è chiaro: ritagliare una fetta di territorio siriano (una trentina di chilometri di profondità lungo tutto il confine con la Siria, lungo 480 chilometri), disperdere i curdi, impedire la vittoria finale dell’ esercito siriano e di Bashar al-Assad e ricollocare nell’ area occupata gran parte dei 3,6 milioni di profughi siriani che in questi anni sono scappati verso la Turchia.
Altrettanto chiaro è il contorno del dramma curdo. Il “popolo senza Stato” è per l’ ennesima volta vittima del proprio sogno. Il regime centralistico e autoritario di Assad prometteva ai curdi, al massimo, un certo grado di autonomia all’ interno dello Stato siriano. Un patto tutto da contrattare tra mille diffidenze reciproche: Assad col dubbio che i curdi, una volta solidificata l’ autonomia, potessero poi pretendere una vera indipendenza, magari con l’ aiuto delle solite potenze esterne che non hanno certo rinunciato alla partita siriana; i curdi con l’ angoscia che Assad, una volta consolidata la vittoria militare ottenuta con l’ aiuto della Russia di Vladimir Putin, decidesse di soffocare anche quella poca o tanta autonomia concessa.
Così i curdi si sono affidati agli americani, nella speranza che fossero proprio loro ad aiutarli a realizzare il progetto del Rojava, l’ embrione di quello Stato laico e democratico che sognano da sempre. In nome di questo obiettivo i curdi hanno combattuto a fianco delle truppe Usa contro l’ Isis sia in Siria sia in Iraq, sacrificando molte vite e spendendo molti sforzi. Invano, come si vede oggi.
Donald Trump, d’ altra parte, mostra nel suo cinismo una sorta di spietata coerenza. Nel settembre del 2017 il presidente (curdo) del Kurdistan iracheno, Mas’ ud Barzani, fece svolgere un referendum sull’ indipendenza della regione dall’ Iraq. Ottenne un 93% di sì ma gli Usa, grandi protettori dei curdi all’ epoca di Saddam Hussein, si pronunciarono subito contro il referendum, rifiutando di riconoscerne l’ esito e abbandonando Barzani e i suoi alla reazione del governo centrale iracheno.
La stessa cosa avviene ora con il Rojava, a dimostrazione di quanto tattico e strumentale fosse il sostegno americano alla causa curda. Finito l’ Isis, finito il sostegno. In realtà, la Casa Bianca fa scelte assai più razionali di quanto sembri a prima vista. Dal punto di vita strategico, in Iraq era più interessante, per gli Usa, proteggere l’ unità del Paese che non favorire la fuga in avanti di questa o quella componente. Soprattutto tenendo conto dell’ influenza dell’ Iran, che è già forte e che in un quadro di frammentazione avrebbe solo potuto crescere. La stessa cosa accade ora in Siria: per gli Usa è più importante recuperare un rapporto con la Turchia di Erdogan, che è pur sempre un Paese della Nato e che negli ultimi tempi ha costruito una buona relazione con la Russia, che non far nascere uno Stato curdo, sia pure nella forma “ridotta” del Rojava.
Resta da vedere che cosa farà, ora, la Siria. Si lascerà scippare una fetta di territorio da Erdogan oppure sarà pronta a combattere, magari alleandosi proprio ai curdi abbandonati dagli americani? La sensazione è che queste ultime mosse siano solo la conclusione di un lungo processo che, dietro le quinte, ha visto anche la partecipazione della Russia come “madrina” di Assad. L’ esercito siriano non ha le forze per scontrarsi anche con quello turco. E il Cremlino non ha alcun interesse a prolungare una guerra non ancora terminata o, addirittura, ad allargarla. È possibile che Assad scorga nella mossa di Erdogan anche alcuni possibili vantaggi. Per esempio, una sforbiciata alle ambizioni dei curdi che, come si diceva prima, sono un problema anche per il governo di Damasco. E poi, i profughi siriani che fossero eventualmente ricollocati nella Siria del Nord occupata dai turchi, potrebbero essere incentivati a ritornare alle proprie città e ai propri villaggi, avendo a quel punto perso la speranza di potersi sistemare in Turchia o di poter da lì partire verso l’ Europa. E si sa quanto stia a cuore ad Assad, anche nella prospettiva della ricostruzione, il ritorno dei profughi.

Lampedusa


Vergogniamoci per lui

L’amaca 8 ottobre 019
Michele Serra

All’interno di un corpus già notevole per pochezza e grettezza, i tweet di politica estera di Donald Trump hanno la capacità aggiuntiva di indignare. Inserire tra le “ridicole guerre tribali” la resistenza dei curdi di Siria, se si pensa alla magnifica laicità di quell’esercito, ai suoi ideali democratici, alle sue donne combattenti, alla sua composizione internazionale (morirono con quella divisa, tra i tanti, l’italiano Lorenzo Orsetti e l’attivista turca Ayse Karacagil), al grande contributo militare dato alla resistenza contro lo Stato Islamico, è semplicemente disgustoso. Forse anche cretino. Ma soprattutto disgustoso.
Tra i curdi e Trump, tribale è certamente il secondo, che giudica utili le guerre (sempre nei suoi orribili tweet) solo se “convenienti e vincenti” per la propria Nazione. Confermando che tra nazionalismo e provincialismo il passo è minimo: i nazionalisti hanno una testa da cortile.
Mentre quel popolo povero, disperso e orgoglioso non si è mai chiesto, evidentemente, se fosse conveniente e vincente rischiare la pelle non solo per la propria indipendenza, ma per una tipica causa di interesse internazionale (la democrazia e la libertà, la resistenza al jihadismo), questo cafone miliardario, capo del Paese più ricco, potente e armato del mondo, come pretesto per riportare a casa i suoi cento soldati, ciascuno dei quali è da supporre armato e protetto più di cento curdi messi assieme, si permette di defalcare la guerra dei curdi all’Isis, con spregio, come trascurabile fenomeno locale. Ci vergogniamo noi per lui, non avendone egli la facoltà.

sabato 28 settembre 2019

Papa Francesco: sono assediato, la preghiera del mio popolo mi può liberare


Riccardo Maccioni 
giovedì 26 settembre 2019

Su La Civiltà Cattolica le parole del Pontefice nel colloquio con i gesuiti durante il recente viaggio in Africa
"Vi chiedo di pregare per me": Papa Francesco lo dice alla fine di ogni incontro, che sia una udienza o un Angelus. Da qualche tempo ha anche aggiunto: "Ne ho davvero bisogno". Una sorta di "elemosina", questa richiesta di preghiera, come lui stesso ha detto nell'incontro con 24 confratelli gesuiti di Mozambico e Madagascar nel recente viaggio in Africa, ai quali ha spiegato anche il perché. "È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo, come si legge negli Atti degli Apostoli". A riferire le parole del pontefice, di questi incontri a porte chiuse, è su Civiltà Cattolica il direttore padre Antonio Spadaro. "Quando Pietro era imprigionato, la Chiesa ha pregato incessantemente per lui. Se la Chiesa prega per il Papa, questo è una grazia. Io davvero - dice Francesco - sento continuamente il bisogno di chiedere l'elemosina della preghiera".
Il pastore della Chiesa universale. Ma anche un semplice “padre”, un uomo come gli altri che ha bisogno della grazia di Dio e del sostegno del suo popolo per vivere al meglio il proprio ministero di servizio totale a Cristo e all’uomo. Nel dialogo con i gesuiti africani pubblicato come anteprima del prossimo quaderno de La Civiltà Cattolica, le tre dimensioni appaiono perfettamente complementari, unite senza distinzioni, capaci di disegnare una figura di grande spessore spirituale, di intensa profondità, eppure capace di parlare a tutti.
«L’elezione a Papa – confida Francesco rispondendo a uno scolastico (equivalente di un seminarista diocesano) – non mi ha convertito di colpo, in modo da rendermi meno peccatore di prima. Io sono e resto un peccatore. Per questo mi confesso ogni due settimane. Non c’è alcuna magia nell’essere eletto Papa. Il Conclave non funziona per magia».
Durante il suo viaggio in Mozambico, per la precisione giovedì 5 settembre, il Pontefice ha incontrato in forma privata un gruppo di 24 gesuiti. Il testo anticipato da La Civiltà Cattolica è la trascrizione completa di quel dialogo, un botta e risposta in cui Bergoglio ribadisce la netta differenza tra l’evangelizzazione, che «libera» e il proselitismo che invece fa perdere la libertà e «prevede sempre gente in un modo o nell’altro assogettata. Nell’evangelizzazione il protagonista è Dio, nel proselitismo è l’io».
All’incontro in Mozambico erano presenti, sotto la guida del padre provinciale Chiedza Chimhanda, 20 gesuiti del Paese ospitante, 3 dello Zimbabwe, un portoghese. Parlando con loro Francesco ha indicato nella «fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento» una delle dimensioni del clericalismo, grave distorsione della vita consacrata. «Ci si concentra sul sesso – spiega il Papa citando l’insegnamento di un “grande gesuita” – e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne». Ma decisamente pericoloso e anticristiano è anche l’atteggiamento di rifiuto dell’accoglienza, la filosofia di chi alza barriere, l’indifferenza verso i poveri, l’ostilità nei confronti del diverso, dello straniero.
«La xenofobia – spiega – distrugge anche il popolo di Dio». E ancora: «costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica». Ma per capirlo pienamente, per dare spazio al vento liberante dello Spirito, c’è bisogno della preghiera, quella che Bergoglio chiede alla fine di ogni incontro. «È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo, come si legge negli Atti degli apostoli. Quando Pietro era imprigionato, la Chiesa ha pregato incessantemente per lui.
Se la Chiesa prega per il Papa, questo è una grazia. Io davvero sento continuamente il bis l’elemosina della preghiera. La preghiera del popolo sostiene».
La preghiera, dunque, come esercizio di svuotamento di sé per lasciare spazio all’azione dello Spirito, come via per comprendere e seguire la volontà del Padre su di noi, come antidoto alla vita comoda. Condizione che mal si coniuga con il Vangelo, con la condizione dei cristiani all’acqua di rosa. «Quando noi entriamo in questo tepore, in questo atteggiamento di tiepidezza spirituale – ha detto il Papa stamani durante la Messa in Casa Santa Marta –, trasformiamo la nostra vita in un cimitero. C’è soltanto chiusura perché non entrino dei problemi come questa gente che “sì, sì, siamo nelle rovine ma non rischiamo: meglio così. Già siamo abituati a vivere così”».

La questione Renzi e le ragioni di una scommessa


Alberto De Bernardi e Mario Rodriguez

Italia Viva ha prodotto una indubbia lacerazione, che però salvo alcuni rari casi è stata analizzata seguendo l’indirizzo prevalente assunto dalla maggioranza del partito e dagli opinionisti d’ “area” come una decisione avventata, che appartiene più al campo della psicologia, o meglio della psicopatologia di uno malato di leaderismo incontenibile, fino alla valutazione espressa da Orlando nella sua relazione alla direzione del Pd di una scelta personalistica, non “motivata da processi storici e politici” in cui sui mescolano “malesseri” “aspirazioni personali”, che nessuno dei presenti ha smentito.

La psicopatologia della leadership
Orlando forse non lo sa ma nella tradizione politica da cui proviene – il comunismo – l’accusa di personalismo apriva immediatamente le porte al sistema concentrazionario bolscevico. Ma l’affermazione è ancor più stupefacente se si guarda al tempo presente: le nostre sono le giornate nelle quali una giovane donna di 16 anni parla all’Onu di ambiente, nelle quali si discute della brexit e il Sistema Westminster, modello per decenni, sembra entrato in crisi; nelle quali in Spagna si rivota per la quarta volta in un anno; nelle quali le innovazioni tecnologiche nel campo della IT stanno creando un cambiamento che taluni paragonano alla introduzione della stampa a caratteri mobili; e, infine, nelle quali gli stati nazionali appaiono sempre più inadeguati a governare i processi economici indotti dalla globalizzazione.
Probabilmente Orlando, proteso nelle periferie alla ricerca del “noi”, non se ne è accorto. Ma anche chi ha evocato la Bibbia ha contribuito a creare un clima di “damnatio”, con l’obbiettivo esplicito di mettere in ombra le ragioni e conseguenze di una scelta politica che dovrebbe invece interrogare da vicino proprio quelli che si richiamano alla lunga battaglia per affermare la cultura politica della sinistra liberale. Si è preferito in sintesi insistere sull’obbiettivo di distruggere la credibilità del parlante.
Zingaretti e i riformisti che oggi stano entrando in maggioranza in nome di una “gestione unitaria”, come si suol dire, hanno accompagnato le valutazioni “soggettivistiche” sulla mossa di Renzi con un’affermazione ricorrente di chi viene spiazzato dalle decisioni altrui e vuole rivendicare una forza che però sa di non avere interamente: per far politica “ci vuole altro”! Ma quest’ “altro” rimane nell’iperuranio: si parla di rifondazione, di partito del tutto nuovo, di aree vaste, campi e perimetri, di costituente delle idee, di congresso straordinario, come se la risposta stesse nello sforzo riorganizzativo del partito, che l’uscita di Renzi costringe a prendere atto di essere diventato altro rispetto a quello originario.
Crediamo che questo approccio sia sbagliato, soprattutto in quanti hanno riconosciuto alla leadership renziana il merito di aver cercato di tradurre in scelte politiche di governo l’impianto ideale del liberalismo di sinistra, perché non riesce a collocare la scelta di quanti hanno deciso di dare vita a Italia Viva nel contesto effettivo nel quale valutarla a pieno, nel merito e nelle sue conseguenze.

Che fine fa il progetto del Pd?
Ciò che va messo a fuoco, a nostro giudizio, è che stiamo attraversando un passaggio di fase politica rilevante, avviatosi dalla sconfitta del referendum prima e dalle elezioni del 2018 poi, nella quale, per una serie di errori, ma anche per un mutamento di scenario politico globale, con l’emergere dell’egemonia populista e sovranista, è rimasto stritolato anche il progetto costituente del Partito Democratico.
Di fronte a una narrazione degli eventi nella quale prevaleva la critica al progetto riformista del Pd in nome del ritorno a un presunto passato “socialdemocratico” che significava in sintesi tornare da essere una forza politica consociativa, assistenzialista e statalista, sorprendentemente proprio le minoranze riformiste, che quel progetto avevano contribuito a inverare in policies efficaci, hanno accettato questo piano di discussione, senza avvedersi o sottovalutando che stava diventando l’ossatura ideale di un progetto politico alternativo al Pd. Dietro il “chiedere scusa” di Zingaretti e Martina c’era la negazione dei principi ispiratori del Pd e il ritorno a un partito di sinistra minoritario, inevitabilmente condannato ad un’alleanza organica con il populismo non irrimediabilmente nazionalista rappresento dal M5S.
Come qualcuno di noi ha cercato timidamente di puntualizzare la cultura politica della maggioranza zingarettiana chiude così la fase aperta dalla fondazione del PD, perché vengono considerati superati, in quanto sconfitti nell’azione pratica, anche i principi guida e gli obiettivi che la determinarono: intreccio delle culture politiche riformiste, corrispondenza di segretario e candidato premier, contendibilità delle cariche, primarie aperte, vocazione maggioritaria, partito di governo di centrosinistra.

Spesa pubblica, consociazione, conservazione: il “nuovo” partito della sinistra
La decisione di Matteo Renzi non determina ma prende atto dell’ambiente politico del tutto nuovo, accetta in fretta e spregiudicatamente (e questo dispiace a molti di coloro che ci avevano creduto) che alcuni dei temi fondativi del Pd del Lingotto e di Orvieto non sono più riproponibili all’interno dello “spazio pd” perché la “mozione vincente”, la nuova maggioranza interna al Pd, intende superarli progettando un nuovo partito orgogliosamente di sinistra della spesa pubblica, della consociazione con i corpi intermedi corporativi, del meridionalismo novecentesco, proporziona­lista e conservatore dal punto di vista costituzionale. Affermare che si tratti di un ritorno ai DS con l’integrazione delle residuali forze del dossettismo democristiano, forse è eccessivo, ma indubbia­mente nella testa di Zingaretti e dei suoi consiglieri vi è il progetto della creazione di un soggetto politico assai distante dal Pd.
I riformisti rimasti nel Pd hanno preso atto di questa strategia? Non è una domanda impropria viste le critiche alla scelta di Renzi parrebbe proprio di no, laddove emerge l’esaltazione del “grande partito” – purchessia, viene da chiedersi? – indipendentemente dal fatto che esso rappresenti la negazione di quanto sostenuto in passato. E può bastare la riproposizione, anche se finora abbastanza debole, dei temi fondativi del Lingotto come strategia di resistenza? Probabilmente se non ci fosse stata l’operazione renziana non si sarebbe verificata nemmeno quella debole riproposizione.
Senza una riflessione sulla fase e le fratture che essa ha prodotto nel nostro campo questa riproposizione rischia di ridursi in una battaglia di retroguardia, perché pensare che si possano ricreare le condizioni per un ribaltamento della maggioranza è infondato se si sta accettando nel frattempo un cambiamento delle regole costitutive del partito, che si basa sulla rinuncia esplicita alla contendibilità della leadership. L’idea di partito che sottende la App presentata da Zingaretti e Boccia – annunciata ancora prima che la commissione per la riforma dello statuto termini i suoi lavori – lascia intendere che si vuole rimuovere proprio quella apertura agli elettori che permise “all’intruso” di conquistare la leadership.
Sentire riproporre anche tra i riformisti il vecchio adagio “meglio aver torto dentro che ragione fuori”, meglio le “battaglie all’interno”, anche se strutturalmente minoritarie, che le scissioni, fa emergere un’inattesa convergenza sulla rifondazione zingarettiana di un partito del tutto nuovo che altro non è che è un di cui della concezione novecentesca del partito.
Quei partiti non torneranno come non torneranno le ideologie, i sistemi di pensiero, le religioni civili (e le risorse che mantenevano apparati di “viventi di politica”) che ne permettevano l’esistenza.

Il progetto del Lingotto non si è realizzato
I tratti distintivi del Pd discendevano dalla presa d’atto di questo cambiamento epocale: il pluralismo programmatico (riconoscimento della sua positività, quindi pluri e non mono culturale), la corrispondenza di candidato leader e segretario, la leadership legittimata da una competizione aperta agli elettori, e nuovi criteri di selezione del gruppo dirigente erano il frutto sofferto dell’intuizione che il XXI secolo era profondamente diverso da XX, anche per quel che riguardava le forme di organizzazione dell’azione collettiva nello spazio pubblico.
Certo nell’apertura agli elettori c’era un pezzetto di “populismo”, c’era la necessità di tener testa alla crisi di autorevolezza delle élite politiche, c’era il riconoscimento che la voice espone alla verifica e combatte il ripiegamento su se stessi tipico delle oligarchie basate sulla cooptazione. Ma una scelta del genere richiedeva la costruzione di una cultura condivisa, di procedure riconosciute valide da maggioranza e minoranza, richiedeva una legittimazione reciproca, che però non si è mai realizzata a pieno, per le resistenze dovute a preesistenti appartenenze politiche e ideologiche, ma anche perché la percezione del cambiamento non era stata metabolizzata dai gruppi dirigenti che avevano condotto la fondazione del nuovo partito. E i segretari che si sono susseguiti non l’hanno voluta, potuta o saputa combattere.
Di qui la non accettazione delle procedure di selezione e del ruolo della minoranza. Le cosiddette primarie, la selezione competitiva delle leadership, non sono mai state accettate pienamente. Né per le cariche monocratiche (al tempo della segreteria Bersani il suo capo segreteria affermava pubblicamente che le primarie non erano un dogma e si facevano dove non si riusciva a trovare un’intesa sul candidato) né per i parlamentari. Il coinvolgimento degli elettori non è mai diventato un principio ispiratore di nuove forme di selezione o verifica di proposte o candidature. Non si è mai messo mano alle procedure per renderle più efficaci.
Se il meccanismo della leadership competitiva non viene accettato dalla minoranza sconfitta si riaprono le porte a meccanismi di decisione e di scelta basati sulla mediazione e questo spinge a formare gruppi di pressione (anche piccoli) indipendentemente dal peso elettorale. Da qui la permanenza dell’unica forma possibile di selezione: la cooptazione oligarchica. Se il processo di legittimazione della leadership non è competitivo (e veramente aperto) non può che essere oligarchico consociativo. Ma in una situazione nella quale l’ordinamento verticale garantito dalla ideologia condivisa non plasma più l’autorità e la legittimità della leadership, la cooptazione oligarchica diventa meno meritocratica perché conta la fedeltà. Da qui però discende la necessità delle correnti, che sono una componente ineludibile, sistemica, non una degenerazione morale di avidi poltronari!

Il ritorno del partito oligarchico e consociativo
Sconfitte quelle pulsioni innovatrici rappresentate dalla cultura politica del Lingotto ritorna l’idea di un partito basato su un sistema di pensiero, che racchiude l’ambizione di scaturire da una teoria della società condivisa; mentre la politica torna al vertice delle competenze, torna l’ambizione prometeica di fare sintesi. Ma ci si scontra contro l’aumento della complessità, delle specializzazioni funzionali, della necessità di una visione poliarchica, di una politica che accetti e comprenda le delimitazioni dei propri ambiti di intervento. Ed in assenza di un pensiero forte che possa tener insieme la complessità delle componenti quello che può uscire è solo il pantano, la mediazione snervante, i minimi comun denominatori che all’esterno appariranno molto probabilmente solo intese di potere fatte all’insegna del simulacro dell’unità: in effetti quello che è accaduto nell’ultimo anno, con l’aggravante di escludere programmaticamente Renzi da ogni accordo, senza che nessun riformista sentisse la necessità di stigmatizzare un comportamento tanto assurdo e autolesionista: come se il ritorno alla consociazione oligarchica prevedesse una conventio ad escludendum di Renzi tra i suoi corollari “materiali”.
La maggioranza di Zingaretti ripropone, dunque, lo schema di un partito in cui l’inclusione significa catch all party e in cui una leadership frutto di mediazioni oligarchiche comporti strutturalmente la paralisi dei processi decisionali (al netto delle pulsioni populiste senza principio che emergono dalla suddetta App), affidate a un segretario ridotto controllore di quella mediazione permanente, progressivamente senza scopi che vadano oltre il mantenimento dell’equilibrio.
Ma in queste condizioni una leadership, affrancata dal meccanismo della mediazione sistemica ricorrente, più dinamica e con un gruppo dirigente più coeso (per via della condivisione the alcuni connotati distintivi) potrebbe garantire una maggiore dinamicità ed efficacia: questa è la scommessa dei fondatori di Italia Viva e non si può dire che sia destinata al fallimento.

La scommessa di Renzi
Matteo Renzi ha colto questo cambiamento di fase (forse lo ha anche accelerato) ma ha saputo prendere atto prima di altri di alcuni dati di fatto evidenti:
– Il Pd è imbozzolato in questa trasformazione regressiva senza sostanziali anticorpi attivi, capaci di andare oltre il richiamo retorico al suo profilo identitario e di farne il cuore di battaglia politica vera; certo il Pd non diventerà i Ds 2.0, ma una convergenza di due pensieri poco liberali e competitivi, fortemente segnati da quello consociativo e corporativo del cattolicesimo sociale e da quello tardo socialdemocratico (nella sua versione italiana post comunista) statalista e assistenzialista, deficit spending, ma oggi non è oggettivamente in campo una alternativa questa deriva;
– C’è bisogno di forze organizzate di tipo nuovo, che invochino un cambiamento di passo, di fronte al rischio che la società italiana entri irreversibilmente in un cul-de-sac caratterizzato da un lato (a destra) dalla minaccia populista e sovranista e dall’altra (a sinistra) da una risposta statalista e consociativa. Questo rende il futuro dell’Italia ancora prigioniero delle sue debolezze e dei suoi retaggi storici negativi fatti di scarsa crescita, debito pubblico esorbitante, amministrazioni pubbliche inefficienti.

Accettare una nuova sfida riformista
Forse Renzi non ha lo spessore culturale richiesto per un grande leader, ma nessuno dei suoi competitori né ha di più, anzi si veleggia a soglie molto più basse: è figlio del suo tempo, forse, ma è l’interprete migliore che c’è sulla scena politica. Certo non ha scritto un paginone sul Foglio per spiegare la sua scelta politica e lasciare un segno nella storia del pensiero politico dell’Occidente.
Ma non lo si può accusare di non aver chiaro cosa voglia fare: parlano le cose fatte al governo. Portarle avanti, (correggendo e migliorando) è di per sé un indirizzo culturale, che si traduce in una posizione coerentemente liberaldemocratica, che vive oggi largamente indebolita all’interno del Pd, non per colpa della scissione ma in ragione delle scelte sbagliate fatte dalla minoranza riformista.
È una posizione politica e culturale così chiara da suscitare l’opposizione fermissima dell’entourage zingarettiano, una guerra senza quartiere dell’intellighenzia “sinistra”, che frequenta ossessivamen­te giornali e televisioni, ma anche, purtroppo, un fuoco di sbarramento da parte di chi invece dovrebbe cogliere il senso e l’opportunità che la scelta renziana apre per il riformismo italiano, dentro e fuori il Pd.

domenica 15 settembre 2019

Se torna un po di umanità

Michele Serra
15 settembre 2019
A chi giova l’accoglienza europea, via Italia, offerta agli ottantadue della Ocean Viking? Giova, intanto, agli ottantadue della Ocean Viking, sottratti all’umiliante e malsano bordeggiare di altre navi, prima di questa, in quel mare di nessuno che era diventato il Mediterraneo dei porti chiusi.
Questo è un punto fermo: ottantadue esseri umani trattati con i criteri propri dell’umanità. Solo poche settimane fa non era scontato.Un giovamento conseguente, diciamo di secondo grado, meno vitale e però significativo, può concedersi quella parte non piccola dell’opinione pubblica italiana che viveva con angoscia, e con una certa vergogna, la politica gretta del respingimento pregiudiziale, quella che aveva trasformato ogni arrivo in una sconfitta e ogni cacciata (e ogni annegamento, nelle zone più feroci dei social) in una vittoria.
È certamente poco, il sicuro approdo della Ocean Viking davanti a Lampedusa, rispetto all’enormità della questione migratoria dall’Africa, un gigantesco sconquasso geografico e politico che ha cambiato il volto (soprattutto il volto elettorale) di molti Paesi europei. Ma è molto se serve a dare un segnale. Se riesce a sbloccare, indirizzandolo verso una destinazione un po’ meno incerta, un po’ più governabile, l’ingorgo dei migranti che ingrassa prima i negrieri del Nord Africa, poi i trafficanti di mare, poi gli sfruttatori nostrani di terraferma che aspettano con ingordigia manodopera a basso costo e senza diritti.
Portare alla luce questa filiera, chiamarla per nome, provare a mondarla dei suoi aspetti brutali e criminali, provare a costruire un’accoglienza europea degna di questo nome (Diritti e Doveri le prime due materie in ordine di importanza), provare a mitigare il pregiudizio e il disagio degli accoglienti in forza di una migliore integrazione e di un reciproco vantaggio, provare a ricevere gli accolti come portatori di lavoro e di speranza e non come vettori di virus e impurità, sarà mai possibile? Non è male ricordare che è una domanda che ci si pone, in Europa, da più di vent’anni, senza che si sia riusciti, fin qui, a mettere insieme un convincente piano d’azione corale. È da questa esasperante, impotente lentezza, di fronte alla velocità e alla potenza della storia, che hanno preso forza e coraggio idee assurde oppure feroci, l’isolazionismo ringhioso, il razzismo esplicito, le teorie paranoiche sulla “sostituzione etnica”, i rigurgiti del vecchio nazionalismo che il maquillage d’epoca ha ribattezzato sovranismo. La politica di sedicente “difesa della Patria” del precedente governo aveva creato davanti alle nostre coste meridionali una specie di piccolo, grottesco blocco navale, più ipotetico che funzionale (era come fermare il mare della storia con il pettine delle scartoffie). Un sedicente giro di vite “contro le ong”, nei fatti contro la povera gente in fuga o in viaggio verso una vita decente. Ma difeso, e integro, è un Paese che sa farsi carico delle responsabilità, anche sgradevoli, anche soverchianti, che la storia gli scarica addosso. Tutt’altro che difeso e integro è un Paese bambino, spaventato e lagnoso, che tratta da infezione un’ordinaria vicenda umana — le migrazioni — che si manifesta, in questi anni, con intensità straordinaria.Infine, per chi si domanda se l’Unione Europea stia riservando un trattamento più collaborativo e più vantaggioso a questo governo piuttosto che al precedente, compreso l’impegno, per ora soprattutto sulla carta, di una comune politica sulle migrazioni; la risposta, senza dubbio, è sì. Due pesi e due misure con i gialloverdi prima, i poi. La spiegazione è semplice. Si chiama reciprocità. Anche i due differenti governi italiani, rispetto all’Europa, hanno adottato due pesi e due misure.

Il termitaio che esagera


L’amaca 15 settembre 019
Michele Serra
Capita sempre più spesso di leggere dati e numeri sull’inquinamento; e specialmente sull’emissione dei gas serra, che sono i primi responsabili del riscaldamento anomalo del pianeta.
Percentuali, suddivisioni per settore e per nazione, confronto tra dati differenti quando le fonti siano differenti. È una conseguenza virtuosa dell’effetto Greta: al coinvolgimento emotivo e alla “moda” fa seguito la voglia di saperne di più, di motivare meglio un cahier de doléances che, in assenza di pezze d’appoggio, ha meno peso polemico e meno credibilità politica.
Incrociando i dati, c’è un solo elemento ricorrente e dominante, una specie di macro-dato che a suo modo li riassume (quasi) tutti: più si consuma, più si inquina, tanto è vero che gli Stati Uniti, quanto a gas serra, inquinano più del doppio dell’India, pur essendo gli americani circa un terzo degli indiani. Questo significa, grosso modo, che ogni americano, pro capite, inquina come sei indiani.
Può piacere o non piacere, ma è così, esattamente così: più aria condizionata, più cilindrata nel motore, più ghiaccio nel drink, uguale meno salute dell’ecosistema. Al netto di ogni ironia sul pauperismo, e di ogni possibile fiducia nei miracolosi rimedi della tecnologia, rimane evidente il rapporto diretto tra la smisuratezza implicita nei meccanismi del consumismo e la progressiva rovina del pianeta. Sarebbe bello che fosse solo un’opinione: potremmo continuare la nostra crapula con la giusta spensieratezza. Ma non è un’opinione, è un fatto. O ci diamo una nuova misura, o ce la darà la natura ridimensionando duramente il termitaio umano. Una bella seccatura, perché le termiti siamo noi.

giovedì 12 settembre 2019

"Servire, in silenzio"

"Il senso del progetto". Contributo all'HuffPost di Graziano Delrio per spiegare lo spirito e le intenzioni del governo Pd-M5s a chi ha mosso critiche e dubbi
Caro Direttore,
l’Italia è di fronte a una grave crisi strutturale. Non solo per gli indicatori economici che ogni giorno mostrano il declino del nostro Paese, ma anche e altrettanto gravemente a causa dell’impoverimento culturale e della coesione nelle relazioni sociali. Un Paese dilaniato dai conflitti diviene incapace di assumere scelte strategiche di lungo periodo, rischia di essere ossessionato dai tatticismi e dalle convenienze immediate; una nazione che dileggia il sapere e le competenze come qualcosa di distante dal popolo è un Paese destinato inevitabilmente al declino.
Ma l’Italia non è solo questo.
L’Italia è un grande Paese, con risorse economiche, culturali e morali da cui poter attingere per ritrovare speranza e dignità. Abbiamo tutte le possibilità per rimetterci in marcia perché l’Italia ha bisogno di un sogno, di una speranza e di un grande progetto di sviluppo e rilancio. Dobbiamo avere l’ambizione, credo, non solo di completare una legislatura come doveroso, ma di dare vita a un tentativo culturale oltre che politico. Va riconosciuto che l’esperimento fallito in Italia della coalizione populista, con gli enormi rischi e limiti che abbiamo sempre denunciato, aveva comunque un retroterra ideale comune nel tentativo di riprendere il controllo di un sistema che produce grandi diseguaglianze ma poche opportunità e nel primato della politica contro centri di decisione e fenomeni di dimensioni globali quali l’immigrazione e la finanza.
Ma il populismo è irrealizzabile perché fondato sostanzialmente sul ritorno al passato, sulla chiusura delle relazioni, dei porti, degli scambi e il ritorno nella fortificazione dello Stato Nazione. Certo è che il popolo non dovrebbe essere messo nelle condizioni di scegliere fra una “democrazia dei mercati” e una “democrazia populista”. Dovrebbe poter vivere in una “democrazia sostanziale” come l’ha pensata la nostra Costituzione: una democrazia che si nutre di scopi collettivi e non di paure. La scelta di superare la logica del contratto giallo verde ha questa ambizione di superare una cultura di fondo profondamente sbagliata. Un governo che parte con la logica del “contratto”, porta in sé il DNA della sfiducia, tipico delle relazioni competitive e che necessitano di essere burocratizzate.
L’Italia ha invece bisogno di fiducia, di semplicità, di poter sognare fuori da ogni opportunismo individuale, di superare la logica dell’utilitarismo spicciolo per mettere davanti il bene comune. La parola comunità è stata espulsa dal dibattito politico. Ma esistono e vanno riconosciute come ricchezza numerose comunità con radici spirituali, con senso autentico di cooperazione umana e di dedizione alle sorti della vita comune. Sono soprattutto le comunità territoriali come la famiglia, la città e la provincia dove si può conciliare il lavoro tecnico e la promozione dell’umano, i principi estetici e naturali con quelli sociali. Ove la gratuità del gesto d’amore e della cura può essere praticato, come da sempre vien fatto, in uno spazio di libertà personale protetta da utilitarismi ed efficienza. Avvertiamo la necessità di un rinnovato investimento nella educazione per rafforzare queste comunità. Gli investimenti in cultura, dalle biblioteche di quartiere alle scuole di quartiere, ebbene tutte queste cose rispondono a bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica bensì con la vita morale. Che in questo tempo di degrado del linguaggio e delle posture istituzionali è la vera infrastruttura di cui si sente il bisogno. Questi bisogni sono altrettanto sentiti e necessari alla vita quanto quelli fisici.
Ciò che importa è avere una visione di un futuro ed una speranza per i nostri figli ed arrestare la precarietà e l’insicurezza che ci spaventano, per costruire relazioni più sane tra le persone e con l’ambiente in cui viviamo. Non è nella burocrazia dei contratti che si incarna la politica, ma nell’esercizio del confronto continuo e nel lavoro comune. Dobbiamo assumere come verità storica e base culturale il dato che il potere degli uomini non è determinato dalla somma dei singoli individui ma dalla capacità di essere collettività. Gli uomini hanno creato un mondo migliore nel corso degli ultimi decenni grazie alla cooperazione e non grazie alla violenza e alla competizione. Dobbiamo parlare a quell’Italia sana che fatica, studia, lavora ogni giorno e che si aspetta qualcosa di più dei piccoli opportunismi e delle liti da cortile. Occorre davvero un salto di qualità a partire da un atteggiamento più adulto e maturo dei protagonisti di questa scommessa che ha senso solo se collocata dentro a un grande sogno comune.
Da più parti si pone la questione della capacità di rappresentare l’opinione della base elettorale dopo anni di sanguinosi conflitti tra i partiti. Ma come si pensa di scaldare i cuori delle reciproche basi elettorali? Dicendo che si è stati bravi a negoziare un punto programmatico in più, facendo intendere che non ci si è fatti “fregare” o piuttosto coinvolgendo i cittadini nella costruzione di una nuova speranza di uguaglianza, emancipazione e riscatto sociale? Rimanere umani, ritornare a essere umani non significa abbandonare la propria felicità ma realizzarla. Si tratta di riportare al centro della visione politica le persone e le loro esigenze esistenziali, che sono una vita autonoma, dignitosa e vissuta in pienezza con altri. Infine, si deve conseguentemente assumere una agenda chiara di politiche pubbliche prioritarie che rendono possibile l’esperienza personale e comunitaria: politiche radicali di riarmonizzazione con l’ambiente, politiche di welfare comunitario e generativo di capitale sociale, politiche del lavoro e dell’impresa responsabile. Lavoro, salute, educazione e ambiente valgono più del PIL pro-capite per capire la ricchezza di un popolo.
Governare non significa stare in perenne campagna elettorale e guardare ogni giorno i sondaggi. Significa la fatica di sporcarsi le mani, risolvere i problemi e investire per il futuro anche sapendo che i frutti della fatica verranno colti da altri più in là nel tempo e senza che spesso ci vengano riconosciuti. Significa essere generosi verso gli altri e verso chi viene dopo di noi perché il futuro dipende da ciò che ognuno di noi fa nel presente. Questo significa politica di servizio: essere ogni giorno in servizio. In silenzio e senza doverlo continuamente annunciare. Di questo ha bisogno il Paese: di un progetto ambizioso, condiviso, serio e silenzioso. Serve uno scatto, che mi permetto di dire è innanzi tutto etico e culturale, per sfruttare questa occasione e per dare un senso compiuto e una speranza forte a questi giorni difficili.