sabato 8 novembre 2014

Praga 1989: la Rivoluzione vista da vicino

Mario Lavia Europa
 
Il comizio di Dubcek, il via vai in piazza san Venceslao, gli incontri nei caffé con gli intellettuali della Primavera. Mario Lavia racconta il "suo" 1989 da cronista radiofonico in Ungheria 

Ero stato un mese prima a Budapest per seguire il congresso del partito comunista, il POSU, nel quale si era deciso di far cadere la O, che stava per operaio, diventando così “partito socialista ungherese”. Dopo qualche giorno cadde il Muro – ero rientrato a Roma, accidenti, lì c’era andato un altro collega – e proposi di farmi mandare in Cecoslovacchia, che sarebbe stato teatro di grandi avvenimenti. Non era una previsione difficile.
Faceva un freddo cane, a Praga (tranne che nella stanza del mio alberghetto economico, dove il termosifone andava a palla). Era pieno di giornalisti di tutto il mondo, stavamo più o meno tutti nei vari hotel di piazza San Venceslao, dove sostavano in permanenza centinaia di giovani, che il giorno diventavano migliaia, decine di migliaia. Tutta Praga in piazza: non c’erano più vere e proprie manifestazioni, era una manifestazione permanente. Tutte facce allegre. L’austera Praga certe mattine sembrava la gaia Londra, o la entusiasmante Parigi in bianco e nero del Maggio ’68.
Io andavo in giro con il grosso registratore tutto il giorno: si poteva intervistare chiunque. In un caffè, un tardo pomeriggio gelido, ci trovammo con altri colleghi. Fra loro, c’era Pietro Buttitta, del giornale radio Rai (mi pare l’allora Gr1) che era un uomo molto spiritoso e un grande conoscitore di politica internazionale, era stato inviato ai quattro angoli del mondo, il quale all’improvviso mi fece: «Vai a intervistare quell’anziano signore, si chiama Jiri, parla italiano, è uno dei pochi che sa tutto». Andai, ed effettivamente quello parlava italiano meglio di me e mi spiegò quello che stava avvenendo, insistendo parecchio sulla continuità ideale fra il ’68 praghese e gli eventi di quei giorni.
Tornai da Buttitta, che mi sorprese: «Hai intervistato Jiri Hajek, il maestro di Dubcek». Un grande personaggio! Uno degli artefici della Primavera di Praga, anche ministro, poi ovviamente emarginato dal regime comunista di Husak. Dubcek! Per noi della sinistra occidentale era un nome davvero leggendario. Ebbene, lo stesso Dubcek, che aveva già arringato la folla di piazza San Venceslao il primo giorno della velvet revolution, parlò il giorno dopo in un enorme comizio alla spianata di Letna, davanti allo stadio.
Ci andai a piedi in un tragitto che mi parve lunghissimo – e lo era – che feci insieme a Giovanni Berlinguer, il fratello di Enrico, era un dirigente di primo piano del Pci. Giovanni (che purtroppo adesso non sta bene e a cui va il mio ricordo affettuoso) Praga la conosceva benissimo, ci aveva vissuto in anni giovanili credo come rappresentante degli studenti comunisti italiani nell’organizzazione mondiale degli studenti comunisti, una di quelle strutture filosovietiche tipiche degli anni Cinquanta. Così che Berlinguer mi fece spesso in quei giorni da guida per la città vecchia, il ghetto ebraico, Mala Strana e le altre meraviglie dell’allora capitale cecoslovacca. Nella delegazione del Pci c’era anche Gianni Cuperlo, segretario della Fgci, che era una persona squisita come poi è rimasto, c’era Luciano Antonetti, il funzionario del Pci che conosceva la Cecoslovacchia meglio di tutti, parlava pure la lingua e infatti aveva tradotto molti libri di intellettuali cechi.
Tornando a quel comizio di Dubcek, rimasi impressionato per il gigantesco consenso attorno a lui e per la lucidità del suo messaggio. Aveva ben compreso che si stava voltando – e per sempre – una pagina della storia del suo paese, quel paese che lui si era illuso di poter cambare “dal di dentro” ricevendone in cambio l’umiliazione, l’esilio, la povertà. Aveva fatto il boscaiolo, mi pare. Ma non si era piegato. E ora tornava, Dubcek, troppo vecchio per prendere lui la guida del paese ma in qualche modo “padre” della nuova, più radicale, rottura, “benedendo” la transizione che ora si apriva.
Era questa l’aspettativa di osservatori, politici: una transizione dal vecchio regime alla democrazia. Il partito comunista cecoslovacco annaspava. Si cercavano facce nuove. I segretari del partito si susseguivano. Quando in quei giorni fu nominato un tal Urbanek, meno compromesso col regime, chiesi a Giovanni Berlinguer : «Tu lo sai cosa pensa, questo Urbanek?». E mi rispose, con la sua cadenza sarda: «Innanzi tutto, bisogna vedere “se” pensa». Aveva ragione a non dargli troppo credito, ai comunisti “buoni”.
In effetti, la storia si era messa a correre molto più in fretta. Ma quando una sera andai alla “Lanterna magica”, la mitica sede di intellettuali, riformisti, artisti, eretici vari, e con altri colleghi intervistammo un bell’uomo in maglione a collo alto e pantaloni neri, non immaginavo certo di avere a che fare con il prossimo presidente, con uno degli uomini più positivi del ventesimo secolo, il drammaturgo Vaclav Havel.
Ricordo che qualche giornalista francese ne aveva letto qualche testo, ma si sa come sono i francesi, sempre i più secchioni. Ora non ricordo chi, ma mi venne spiegato che era il capo dell’opposizione al regime comunista, era un personaggio di sicuro avvenire, già in quei giorni era uno degli uomini-chiave della transizione. Io stesso gli feci una domanda, registrai la risposta che “girai” a Roma come si faceva allora, appoggiando la cornetta del telefono al registratore. Spiegai che era un uomo importante. Ma non sapevo nemmeno io quanto lo fosse, quanto lo sarebbe diventato, e che sarebbe stato per sempre l’uomo più importante che avessi mai intervistato.
Uscii dalla “Lanterna Magica” molto tardi e in piazza san Venceslao c’era ancora tanta gente. La Rivoluzione, la guardavo.

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