Il comizio di Dubcek, il via vai in piazza san Venceslao, gli
incontri nei caffé con gli intellettuali della Primavera. Mario Lavia
racconta il "suo" 1989 da cronista radiofonico in Ungheria
Ero stato un mese prima a Budapest per seguire il congresso del
partito comunista, il POSU, nel quale si era deciso di far cadere la O,
che stava per operaio, diventando così “partito socialista ungherese”.
Dopo qualche giorno cadde il Muro – ero rientrato a Roma, accidenti, lì
c’era andato un altro collega – e proposi di farmi mandare in
Cecoslovacchia, che sarebbe stato teatro di grandi avvenimenti. Non era
una previsione difficile.
Faceva un freddo cane, a Praga (tranne che nella stanza del mio
alberghetto economico, dove il termosifone andava a palla). Era pieno di
giornalisti di tutto il mondo, stavamo più o meno tutti nei vari hotel
di piazza San Venceslao, dove sostavano in permanenza centinaia di
giovani, che il giorno diventavano migliaia, decine di migliaia. Tutta
Praga in piazza: non c’erano più vere e proprie manifestazioni, era una
manifestazione permanente. Tutte facce allegre. L’austera Praga certe
mattine sembrava la gaia Londra, o la entusiasmante Parigi in bianco e
nero del Maggio ’68.
Io andavo in giro con il grosso registratore tutto il giorno: si
poteva intervistare chiunque. In un caffè, un tardo pomeriggio gelido,
ci trovammo con altri colleghi. Fra loro, c’era Pietro Buttitta, del
giornale radio Rai (mi pare l’allora Gr1) che era un uomo molto
spiritoso e un grande conoscitore di politica internazionale, era stato
inviato ai quattro angoli del mondo, il quale all’improvviso mi fece:
«Vai a intervistare quell’anziano signore, si chiama Jiri, parla
italiano, è uno dei pochi che sa tutto». Andai, ed effettivamente quello
parlava italiano meglio di me e mi spiegò quello che stava avvenendo,
insistendo parecchio sulla continuità ideale fra il ’68 praghese e gli
eventi di quei giorni.
Tornai da Buttitta, che mi sorprese: «Hai intervistato Jiri Hajek, il
maestro di Dubcek». Un grande personaggio! Uno degli artefici della
Primavera di Praga, anche ministro, poi ovviamente emarginato dal regime
comunista di Husak. Dubcek! Per noi della sinistra occidentale era un
nome davvero leggendario. Ebbene, lo stesso Dubcek, che aveva già
arringato la folla di piazza San Venceslao il primo giorno della velvet revolution, parlò il giorno dopo in un enorme comizio alla spianata di Letna, davanti allo stadio.
Ci andai a piedi in un tragitto che mi parve lunghissimo – e lo era –
che feci insieme a Giovanni Berlinguer, il fratello di Enrico, era un
dirigente di primo piano del Pci. Giovanni (che purtroppo adesso non sta
bene e a cui va il mio ricordo affettuoso) Praga la conosceva
benissimo, ci aveva vissuto in anni giovanili credo come rappresentante
degli studenti comunisti italiani nell’organizzazione mondiale degli
studenti comunisti, una di quelle strutture filosovietiche tipiche degli
anni Cinquanta. Così che Berlinguer mi fece spesso in quei giorni da
guida per la città vecchia, il ghetto ebraico, Mala Strana e le altre
meraviglie dell’allora capitale cecoslovacca. Nella delegazione del Pci
c’era anche Gianni Cuperlo, segretario della Fgci, che era una persona
squisita come poi è rimasto, c’era Luciano Antonetti, il funzionario del
Pci che conosceva la Cecoslovacchia meglio di tutti, parlava pure la
lingua e infatti aveva tradotto molti libri di intellettuali cechi.
Tornando a quel comizio di Dubcek, rimasi impressionato per il
gigantesco consenso attorno a lui e per la lucidità del suo messaggio.
Aveva ben compreso che si stava voltando – e per sempre – una pagina
della storia del suo paese, quel paese che lui si era illuso di poter
cambare “dal di dentro” ricevendone in cambio l’umiliazione, l’esilio,
la povertà. Aveva fatto il boscaiolo, mi pare. Ma non si era piegato. E
ora tornava, Dubcek, troppo vecchio per prendere lui la guida del paese
ma in qualche modo “padre” della nuova, più radicale, rottura,
“benedendo” la transizione che ora si apriva.
Era questa l’aspettativa di osservatori, politici: una transizione
dal vecchio regime alla democrazia. Il partito comunista cecoslovacco
annaspava. Si cercavano facce nuove. I segretari del partito si
susseguivano. Quando in quei giorni fu nominato un tal Urbanek, meno
compromesso col regime, chiesi a Giovanni Berlinguer : «Tu lo sai cosa
pensa, questo Urbanek?». E mi rispose, con la sua cadenza sarda:
«Innanzi tutto, bisogna vedere “se” pensa». Aveva ragione a non dargli
troppo credito, ai comunisti “buoni”.
In effetti, la storia si era messa a correre molto più in fretta. Ma
quando una sera andai alla “Lanterna magica”, la mitica sede di
intellettuali, riformisti, artisti, eretici vari, e con altri colleghi
intervistammo un bell’uomo in maglione a collo alto e pantaloni neri,
non immaginavo certo di avere a che fare con il prossimo presidente, con
uno degli uomini più positivi del ventesimo secolo, il drammaturgo
Vaclav Havel.
Ricordo che qualche giornalista francese ne aveva letto qualche
testo, ma si sa come sono i francesi, sempre i più secchioni. Ora non
ricordo chi, ma mi venne spiegato che era il capo dell’opposizione al
regime comunista, era un personaggio di sicuro avvenire, già in quei
giorni era uno degli uomini-chiave della transizione. Io stesso gli feci
una domanda, registrai la risposta che “girai” a Roma come si faceva
allora, appoggiando la cornetta del telefono al registratore. Spiegai
che era un uomo importante. Ma non sapevo nemmeno io quanto lo fosse,
quanto lo sarebbe diventato, e che sarebbe stato per sempre l’uomo più
importante che avessi mai intervistato.
Uscii dalla “Lanterna Magica” molto tardi e in piazza san Venceslao c’era ancora tanta gente. La Rivoluzione, la guardavo.
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