Il Campidoglio non era la sua prima scelta, forse non è stata la
più adatta. Ma il sindaco può approfittare dell'assenza di alternative
politiche per resistere al vento contrario e recuperare un po' di
popolarità tra i romani.
Per usare un eufemismo, o per semplificare il quadro,
diciamo che Ignazio Marino ha due problemi davanti a sé: uno, grave, con
la politica romana a cominciare dal proprio partito; e un altro,
gravissimo, con i cittadini, certificato da sondaggi disastrosi. Le sue
possibilità di andare avanti nell’avventura da sindaco sono legate in
questo momento alla soluzione del primo problema. Nella speranza che nel
tempo si ricostruisca un rapporto positivo e si recuperi l’attuale
(abissale) gap di consenso intorno all’amministrazione di
centrosinistra.
Sul primo punto era chiarissimo, anche prima del difficile ma orgoglioso discorso sul Multagate
nell’aula Giulio Cesare, che il sindaco non intende lasciare il
Campidoglio e il Pd non ha la forza, e quindi neanche la voglia, di
scalzarlo. Ci sarà un serio scossone a livello di giunta comunale e,
attraverso oculate rimozioni e promozioni, si celebrerà il
riavvicinamento tra il sindaco e il suo partito assai scontento: si
capiva bene dalle stesse parole del discorso. Come sempre, è in gran
parte una questione di ridistribuzione di potere: Marino plebiscitato
dagli elettori nel giugno 2013 ne ha lasciato pochissimo al Pd, il quale
ha ricambiato con la moneta peggiore, ovvero la rivendicazione di posti
(invece che di politiche) e l’ostruzionismo autolesionista.
La ricostruzione di un rapporto almeno decente passa anche attraverso
un’operazione verità sulla domanda «chi ha scelto Marino?» alla quale
ora danno tutti la stessa risposta data giorni fa dall’indiziato numero
uno, ovvero Goffredo Bettini: «Io, no».
La verità è che Marino lo hanno scelto gli elettori (col 64 per cento
dei voti) contro un catastrofico Alemanno, dopo primarie vinte
largamente in un clima di grande simpatia verso “il marziano”. Il quale
marziano, però, non è atterrato sul pianeta Campidoglio con l’entusiasmo
necessario all’impresa.
Questo è il punto taciuto, forse l’origine del problema, alla quale tornare brevemente.
Prima di diventare sindaco, per tutti i primi mesi del 2013 il
senatore-chirurgo fu infatti ministro della sanità in pectore di un
governo Bersani che, a cavallo delle elezioni di febbraio, pareva prima
sicuro poi almeno possibile, per infine svanire come è noto.
Questa (giustificata) ambizione spinse Marino prima a scartare la
competizione per la Regione Lazio, dove pure le sue competenze sanitarie
avrebbero avuto modo di dispiegarsi, costringendo alla scelta di un
recalcitrante Nicola Zingaretti (lui sì invece desideroso di salire al
Campidoglio, nelle more della sua lenta costruzione di una leadership
nazionale); poi a una attesa snervante (per l’ambiente politico romano)
prima della decisione di candidarsi alle primarie. C’è ancora chi
ricorda, di quelle settimane, le angosciose pressioni sul senatore
perché sciogliesse la prognosi, mentre la crisi di governo si trascinava
verso il famoso «impossibile» incarico a Bersani.
Dunque in quei mesi del 2013, vibranti di sentimenti anticasta,
Marino “l’alieno” era perfetto per qualsiasi gara. Una volta decisosi,
quella per il Campidoglio la vinse senza sforzo. Poi però il vento del
rinnovamento radicale s’è posato e il sindaco non s’è reso conto di
dover ricorrere ad altre capacità per rimettere in piedi un ambiente
amministrativo e politico devastato. In tempi di tagli al bilancio e di
insofferenza a presa rapida, non c’è voluto molto perché in città il
vento tornasse ad alzarsi, stavolta tutto in senso contrario.
Ora il Pd, e lo stesso sindaco, devono reggere nella tempesta, in
parte spontanea e in parte alimentata. Dopo Tor Sapienza s’è rivisto
Alemanno marciare nelle strade ma la verità è che perfino a Roma,
perfino in questa situazione al limite del fallimento, una vera
opposizione politica al centrosinistra non esiste, a meno di non voler
considerare i drappelli con caschi, passamontagna e bastoni.
Anche per questa assenza di alternative, il problema meramente
“politico” non è impossibile da risolvere. Sotto la guida di Lionello
Cosentino il Pd locale – primo responsabile dell’evoluzione delle cose,
compresa come s’è visto la stessa candidatura di Marino – sta lentamente
cercando di emanciparsi dai propri peccati atavici. E Marino qualche
atout da giocarsi la ha, avendo gestito bene la trattativa col governo
per il rientro dal dissenso finanziario, le partite sul risanamento
(ancora eventuale) di Atac e Ama, l’incontro/scontro con i poteri forti
immobiliari sulle concessioni per il nuovo stadio della Roma calcio, a
Tor di Valle.
Peccato che non siano dossier di altissima popolarità (tranne forse
quello sullo stadio, ma non prima della posa della prima pietra), e che
dunque per Marino e per l’intero Pd – anche nazionale – rimanga
totalmente insoluto il problema del rapporto con la città non politica,
cioè con i romani ormai sprofondati nello scetticismo di cui sono
campioni mondiali (perché questo è il vero clima, certo pessimo, nella
Capitale: le immagini e le notizie di violenza si allargano dal loro
epicentro all’intero solo mediaticamente, e Roma non è una città
fremente, casomai è una città delusa e rassegnata).
Sulla carta il sindaco ha tre anni davanti a sé per ritrovare il
feeling perduto. In realtà ha molto meno tempo. Molti pochi soldi. Molte
poche personalità di spicco delle quali circondarsi, ammesso che riesca
a smontare l’entourage che l’ha malamente difeso fin qui.
Se non altro, come prime mosse, dovrà liberarsi dalla sindrome
dell’assedio e moltiplicare le puntate pericolose come quella della
trasferta e della successiva trattativa su Tor Sapienza. L’altra arma di
Marino, la denuncia delle resistenze incontrate da parte dei poteri e
delle clientele cittadine, deve inverarsi in misure tangibili, ancora
più evidenti di quelle prese contro l’abusivismo nel commercio e contro
la corruzione nelle municipalizzate. A palazzo Chigi e al Nazareno sono
preoccupati ed esigenti, ma non staccano la spina. Chi scalda i motori
sperando in elezioni anticipate, come il sempiterno Alfio Marchini, non
può però ottenerle finché non è il Pd a deciderle. E il Pd non le vuole.
Può darsi che finora, perfino nella propria testa, Marino non sia
stata la persona giusta al posto giusto. Però le circostanze gli offrono
un’altra chance e lui può ancora stupirsi, e stupire.
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