STEFANO FOLLI
La Repubblica 8/11/14
Con gli amici che vanno a trovarlo o
gli parlano al telefono Giorgio Napolitano lascia trasparire in
questi giorni un duplice sentimento. Da un lato è soddisfatto per
l’energia e la determinazione messe in mostra dal presidente del
Consiglio, Renzi. Gli sembra che il dinamismo e la volontà di
affrontare i problemi siano i fattori politici di cui il Paese ha
bisogno in questa fase drammatica. La legislatura ha bisogno di un
motore e Renzi dimostra di possedere il temperamento adatto a
incarnare lo spirito dei tempi.
Dall’altro lato il presidente della
Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi
brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben
definita: la fine dell’anno, allo spirare del semestre italiano di
presidenza dell’Unione europea. Le ragioni sono legate alla fatica
del compito, sempre più estenuante per un uomo che nel prossimo mese
di giugno festeggerà i novant’anni.
NAPOLITANO è stanco e ritiene di aver
diritto di esserlo. Rispetta gli impegni con puntualità, quelli
interni e quelli internazionali, ma sta diradando l’agenda, se si
tratta di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà
all’Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni
Spadolini a vent’anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti
europei, di cui uno a Torino, utili a ricordare che il destino
italiano si compie in Europa e non altrove. Infine il messaggio di
Capodanno agli italiani, l’ultimo dei nove pronunciati a partire
dal 31 dicembre 2006.
È un percorso di cui si mormora da
tempo nei palazzi della politica romana e adesso c’è anche la
certezza che la decisione del presidente è presa. Nel 2015
Napolitano seguirà le vicende italiane dallo studio di Palazzo
Giustiniani che è già pronto ad accoglierlo quale presidente
emerito. Tuttavia lo stato d’animo del presidente non è quello con
cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo
incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo
delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Soprattutto
quest’ultima, che non richiede, come è noto, una revisione della
Costituzione, gli è sempre parsa la più adatta a chiudere un’epoca
e ad aprirne un’altra: proprio perché, nella condizione del Paese,
si tratta di una legge di sistema, destinata a garantire l’assetto
generale delle istituzioni.
Dunque una legge sfrondata dagli
elementi di incostituzionalità che avevano provocato il naufragio
della precedente norma a opera della Consulta. E al tempo stesso un
modello in grado di rassicurare l’opinione pubblica circa il fatto
che il confronto politico si sviluppa entro argini ben definiti e se
possibile tra forze che tendono a riconoscersi l’un l’altra come
pienamente legittimate, in grado cioè di scambiarsi i ruoli di
governo e opposizione in un quadro di stabilità. In fondo era solo
su questa base che Napolitano aveva accettato il secondo mandato. E
chi ricorda il discorso d’insediamento davanti alle Camere riunite,
il 22 aprile 2013, rammenta anche il tono aspro, quasi sferzante con
cui il capo dello Stato appena rieletto aveva richiamato i
parlamentari alle loro responsabilità. Era in gioco allora come oggi
la corretta funzionalità delle istituzioni e una prospettiva
politica capace di rendere salde le radici europee della dialettica
interna.
Nel mosaico immaginato da Napolitano
c’era molto di più: il riassetto del sistema bicamerale, la
riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e altro. Ma
la nuova legge elettorale appariva quasi un pegno urgente da offrire
agli italiani per convincerli che la stagione dell’eterna
transizione era davvero alle spalle.
Come chiunque può notare, oggi lo
scenario non è quello sperato e Napolitano non nasconde la sua
delusione. È chiaro che alla fine dell’anno non avremo la riforma
del voto, ma è altrettanto certo che il presidente della Repubblica
non aspetterà i tempi dei partiti. Non intende farsi condizionare
dai ritardi e della solita pratica del rinvio. Su tale passaggio si
mostra molto deciso con i suoi interlocutori. Quindi viene meno il
nesso tra riforme e dimissioni. E non ci sarà l’inaugurazione di
Expo 2015, come vorrebbe il premier Renzi. L’uscita dal Quirinale
sarà il compimento di una missione personale, il cui bilancio sarà
dato dalla gran mole di atti compiuti in oltre otto anni e mezzo. Ma
se le forze politiche non sono state in grado di dare forma conclusa
a un nuovo capitolo della storia repubblicana, il presidente le
lascia alle loro responsabilità. Non le asseconderà al solo scopo
di coprire lacune e debolezze di un sistema rinnovato solo in piccola
parte.
Ora prevalgono le ragioni di salute,
per cui ogni giorno trascorso nel palazzo costa un sacrificio di cui
non tutti sono consapevoli. Napolitano è sicuro di aver superato in
modo brillante la prova più dura sul piano psicologico, la
testimonianza davanti ai magistrati e agli avvocati del processo di
Palermo. Ma l’intera vicenda, come è noto, lo ha ferito. Ripete
spesso due punti che gli stanno a cuore. Primo, non intende trovarsi
a gestire una nuova crisi politica e di governo, non se la sente più
di reggere gli sforzi fisici e mentali già sopportati nel recente
passato. A maggior ragione — ed è il secondo aspetto sottolineato
— egli non porterebbe mai il paese a nuove elezioni anticipate. Non
ci sarà più uno scioglimento delle Camere da lui firmato. Toccherà
eventualmente al successore decidere in merito. E il presidente
ritiene che in democrazia il Parlamento deve essere pronto e capace
in ogni momento di eleggere un’altra figura al vertice
istituzionale.
Questo è il sentiero prefigurato al
Quirinale. I partiti hanno quindi poco tempo per affrontare il
problema ed evitare che la scelta del successore di Napolitano, di
qui a poche settimane, si trasformi in un altro episodio di
logoramento istituzionale. Tuttavia il copione non è stato ancora
scritto. Non esiste un’ipotesi reale di accordo su un nuovo nome.
Ci sono in campo tre soggetti maggiori, il Pd, Forza Italia e i
Cinque Stelle. Più altri soggetti minori suscettibili di giocare una
loro partita, come i leghisti. Se e come i fili saranno annodati,
attraverso quali intese trasparenti o sotterranee, per ora non è
dato sapere. Ma tutti sanno che il tempo stringe.
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