domenica 28 aprile 2019

PICCOLA STORIA TRISTE

Si è scoperto che l'organizzatore della Maratona di Trieste è un fan di Salvini.

giovedì 25 aprile 2019

BUON 25 APRILE.


Caro Ministro Matteo Salvini gli uomini e le donne non si fronteggiarono in un derby ma in una lotta tra chi credeva nella libertà e nella democrazia e chi l’aveva schiacciata e derisa.
Per la sua libertà deve ringraziare i partigiani, non lo dimentichi mai.
Marco Bentivogli

Moro: Discorso per il trentennale della Resistenza

Aldo Moro, “Discorso per il trentennale della Resistenza”, Bari, 25 Aprile 1975
L’italia rivive cosi una drammatica ma esaltante esperienza ed approfondisce la sua identità nazionale. Quella identità nazionale appunto che si rivela in momenti di svolta, destinati ad esercitare una decisiva influenza nella storia dei popoli.
La Resistenza fu uno di questi momenti. Ad essa dunque, ancora oggi, facciamo riferimento. Ad essa ci rivolgiamo come al luminoso passato, sul quale è fondato il nostro presente ed il nostro avvenire.
La Resistenza fu lo scatto ribelle di un popolo oppresso, teso alla conquista della sua libertà. Ma essa non fu solo un moto patriottico-militare contro l’occupante tedesco, destinato, perciò, ad esaurirsi con la fine del conflitto mondiale. La Resistenza viene da lontano e va lontano. Affonda le sue radici nella storia del nostro Stato risorgimentale. E’ destinata a caratterizzare l’epoca della rinnovata democrazia italiana. Un dato storico è da mettere in rilievo: alla Resistenza parteciparono, spontaneamente, larghe forze popolari, e non solo urbane, ma della campagna e della montagna. Furono coinvolti ad un tempo il proletariato di fabbrica, che difendeva gli strumenti essenziali del suo lavoro, e la realtà contadina.
Alle azioni gloriose delle formazioni partigiane e del nostro corpo di liberazione, schierati in battaglia, si accompagnò un’infinità di episodi spontanei, il più delle volte oscuri o poco noti, che rappresentarono l’immediata risposta delle popolazioni alle sopraffazioni delle brigate nere o dell’esercito nazista, una risposta data anche fuori dai centri urbani, nei più sperduti paesi rurali, nelle zone collinari e pedemontane. Questa Resistenza più ramificata e diffusa, che non è stata classificata tra le operazioni delle divisioni partigiane direttamente impegnate nello scontro armato, si è collegata molto spesso al ricordo delle lotte lunghe e tenaci che le leghe, contadine avevano condotto in tante regioni: dal Veneto alla Toscana, all’Emilia, alle Puglie, contro lo squadrismo agrario e le violenze nazionalistiche o fascistiche degli anni venti e anche oltre. Ma non era mero ricordo, bensì un dato vitale, una sorta di impegno civile, che ha immesso nella Resistenza fattori sociali connessi con la storia delle grandi masse popolari, a lungo escluse dalla partecipazione alla vita dello Stato unitario. La Resistenza supera cosi il limite di una guerra patriottico-militare, di un semplice movimento di restaurazione prefascista, come pure da talune parti si sarebbe allora desiderato. Diventa un fatto sociale di rilevante importanza.
A lungo si è ripetuto che alla piena esplicazione della Resistenza ha nociuto il peso negativo rappresentato dal Mezzogiorno, che non ha compiuto l’esperienza della lotta partigiana del Nord Italia. Gli storici tendono ora a correggere questa visione dualistica, di un Nord, proiettato verso una peraltro indefinita rivoluzione, e un Sud, ancora una volta “palla al piede” dello sviluppo italiano. Il rapporto tra Mezzogiorno e Resistenza è complesso. Non va dimenticato, nello sfondo, ciò che pagarono le campagne del Mezzogiorno al fascismo. E’ vero, fu avviata una politica di bonifiche che consentì in un secondo tempo la formazione di ceti agrari più progrediti, meno attaccati alla esclusiva conservazione della rendita. Ma quel poco che si fece sotto il fascismo per il Sud, ebbe come corrispettivo il blocco dell’emigrazione interna, una politica di bassi salari, sperequazioni tributarie e pesanti vincoli contrattuali nelle campagne.
Il programma fascista di un’Italia rurale ed eroica portò in realtà ad un eccesso di popolazione contadina, costretta a vivere entro strutture economiche rimaste arcaiche e statiche e perciò prive, di impulsi creativi. Crollato il fascismo e liberato il Mezzogiorno dalle truppe alleate, non per caso ancora una volta furono le campagne a muoversi. Si trattava della lotta al latifondo e della riforma agraria, cioè di una delle esperienze più significative di questo dopoguerra, che ha consentito lo svilupparsi di un grande movimento contadino nel Sud ed ha impegnato i governi in un notevole sforzo, nel suo insieme positivo. Ma, tornando agli anni cruciali che vanno dalla fine del ’43 a tutto il ’45, non ci sembra si possa dire che il Mezzogiorno fu una remora alla realizzazione degli ideali della Resistenza. Non vanno dimenticati gli intellettuali meridionali schierati sul fronte della libertà. Eppoi parlano le cose. Il Sud ha dato con profonda convinzione il suo apporto alla guerra di liberazione e ai primi atti dei governi della coalizione antifascista; ha contribuito al crollo degli eserciti nazifascisti, facilitando l’avanzata di quelli alleati; ha visto la nascita e l’affermarsi delle prime libere manifestazioni politiche dei partiti antifascisti; ha scritto con la insurrezione napoletana una tra le pagine più belle della Resistenza. (…)
Si è anche talvolta affermato che la Resistenza sarebbe stata tradita nel suo significato più autentico e che il graduale ritorno alle vecchie strutture dello stato prefascista avrebbe sancito una continuità statale di vecchio tipo. Se la polemica non fa velo, credo possa apparire evidente a tutti il grande salto di qualità che si è compiuto passando dallo Stato prefascista a quello nato dalla Resistenza sotto il profilo sia della struttura sia dei fini istituzionali. Non sono differenze di superficie, ma di sostanza, che riguardano anzitutto il processo di formazione e articolazione della volontà politica nazionale attraverso i partiti di massa, la consistenza democratica di base dello Stato, il suo ruolo di propulsione e di guida nella vita economica e sociale. Se vi furono aspetti di restaurazione, se vi furono remore e momenti anche di arresto nella realizzazione delle premesse ideali della Resistenza, ciò non può farci dimenticare il progresso compiuto e il senso storico-culturale della opzione politica in favore della democrazia che fu alle origini della fondazione del nuovo Stato. (…)
Con tutte le cautele e le gradualità imposte dalle esigenze della strategia alleata e dalla crescente diffidenza che divise ben presto le potenze occidentali dall’Unione Sovietica, la Resistenza fu indubbiamente molto di più di una operazione patriottico-militare. Essa agì in profondità nella vita politica del nostro Paese, dando una nuova dimensione allo Stato, arricchendo la vita democratica e creando una originale mentalità antifascista, la quale superò quella formale e parlamentaristica che aveva in certo modo caratterizzato in precedenza la opposizione al fascismo.
Lo Stato al quale i partiti democratici hanno dato vita è lo Stato che lo spirito della Resistenza e le circostanze oggettive hanno reso possibile in una valutazione globale di tutti gli interessi del Paese, interessi nazionali ed internazionali, immediati e in prospettiva. E certo occorreva uno Stato nel quale si riconoscesse il maggior numero possibile di cittadini, che fosse capace, su questa base, di ricostruire l’Italia, dandole un assetto stabile di libertà e di giustizia.
Sono questi, che ho appena ricordati, momenti della nostra vicenda trentennale sui quali è ancora aperto il giudizio storico, aperta la valutazione politica. Credo tuttavia che, pur partendo da punti di vista diversi e nella comprensibile divergenza d’opinioni sulle strade seguite e sulle soluzioni date in alcuni stretti passaggi della nostra vicenda nazionale, una cosa si possa dire e cioè che i partiti i quali si richiamano alla Resistenza e si riconoscono nella Costituzione repubblicana, ciascuno secondo la propria responsabilità ed il proprio ruolo, hanno guardato alle istituzioni democratiche, da presidiare ed accreditare nella coscienza del Paese. Via via, nel corso di questi trent’anni, un sempre maggior numero di cittadini e gruppi sociali, attraverso la mediazione dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa che animano la vita della nostra società, ha accettato lo Stato nato dalla Resistenza. Si sono conciliati alla democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie e chiusure classiste. Ma, soprattutto, sono entrati a pieno titolo nella vita dello Stato ceti lungamente esclusi.
Grandi masse di popolo guidate dai partiti, dai sindacati, da molteplici organizzazioni sociali, oggi garantiscono esse stesse quello Stato che un giorno considerarono con ostilità quale irriducibile oppressore. Se tutto questo è avvenuto nella lotta, nel sacrificio, è merito della Resistenza, di un movimento cioè che si è mosso nel senso della storia, mettendo ai margini l’opposizione antidemocratica e facendo spazio alle forze emergenti e vive della nuova società.
Certo, l’acquisizione della democrazia non è qualche cosa di fermo e di stabile che si possa considerare raggiunta una volta per tutte. Bisogna garantirla e difenderla, approfondendo quei valori di libertà e di giustizia che sono la grande aspirazione popolare consacrata dalla Resistenza.
Il nostro antifascismo non è dunque solo una nobilissima affermazione ideale, ma un indirizzo di vita, un principio di comportamenti coerenti. Non è solo un dato della coscienza, il risultato di una riflessione storica; ma è componente essenziale della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa, sul terreno sociale come su quello politico, conservazione e reazione.
Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico.
In questo ambito ed in questo spirito è responsabilità politica dei partiti l’effettuare quelle scelte di indirizzi, di contenuti e di schieramenti ritenuti meglio rispondenti agli interessi del Paese.
Trent’anni fa, uomini di diversa età ed anche giovanissimi, di diversa origine ideologica, culturale, politica, sociale; provenienti sovente dall’esilio, dalla prigione, dall’isolamento; ciascuno portando il patrimonio della propria esperienza, hanno combattuto, per restituire all’Italia l’indipendenza nazionale e la libertà.
Questo è stato il nostro grande esodo dal deserto del fascismo; questa è stata la nostra lunga marcia verso la democrazia.

mercoledì 10 aprile 2019

A Bologna la farsa della vecchia sinistra

9 aprile 2019
Alberto De Bernardi
presidente di Libertà Eguale

Dopo diversi anni nei quali Bologna aveva perduto la sua fama di laboratorio della vita politica nazionale conquistate a ragione negli anni dell’Ulivo, tra il 7 e l’8 di marzo del 2019 essa è tornata sulla scena come il centro della vita politica nazionale.
La vecchia sinistra riunita a Bologna
In quei giorni si è svolto innanzitutto il I° congresso di Articolo 1 il partitino di Bersani e D’Alema, inutilmente coordinato da Speranza, che ha aperto i battenti al canto dell’Internazionale e del pugno chiuso militante, ha aderito al comitato Lula libero, evocando il tradizionale terzomondismo della tradizione cattocomunista e si è concluso esaltando la necessità di una sinistra radicale sul modello Sanders-Corbyn e l’impegno a dare vita a un partito socialista e ambientalista: rosso-verde. Al di la dei temi discussi il focus del congresso era sdoganare l’alleanza con il Pd, che seppur nel dibattito sia stata sottoposta a mille distinguo e alla richiesta di mille autocritiche, è l’unica cosa che i suoi dirigenti possono fare se non vogliono scomparire.
 Le lacrime di Merola e la tenda di Prodi
Ai margini del congresso un intervento di saluto del sindaco Merola che ha rivendicato, tra le lacrime,  la necessità del ritorno del “trattino” tra centro e sinistra, perché l’ integrazione – centrosinistra senza trattino – è fallita. Ad anticipare queste tematiche due dichiarazioni di Prodi – cha deve essere uscito dalla tenda perché ormai imperversa quotidianamente dopo anni di burbanzoso silenzio – a sostegno dell’alleanza tra il Pd di Zingaretti e la sinistra di Mdp perché non solo “uniti si vince” e lui lo aveva già capito vent’anni fa costruendo l’Ulivo, ma soprattutto il Pd finisce di essere il partito dei ricchi e può tornare dopo Renzi ad essere il partito del poveri: a corredo, i ripetuti inviti ai riformisti della deputata Zampa, portavoce del “professore” e nulla più, di togliere il disturbo dal Pd.
Una rappresentazione farsesca della sinistra
Un vecchio saggio nato a Treviri due scoli fa diceva che spesso la storia quando si ripete diventa una farsa e aveva colto nel segno. Infatti quella che si è verificata a Bologna e appunto una rappresentazione farsesca della sinistra, che allegramente rispolvera i vecchi miti senza sapere di essere “perduta”: una sopravvivenza del XX secolo che oltre a non contare nulla sul piano elettorale (il partito di Prodi alle elezioni prese lo 0,6 e Art.1 à dato all’1,5% in tutti i sondaggi) ha la pretesa di possedere la chiave della riscossa, presentando vecchia ricette già abbondantemente sconfitte come fulminati novità, ovviamente con il corteo di giornaloni e giornalini osannanti.
Una visione prigioniera dello scontro destra-sinistra
In effetti dal congresso di Articolo 1 non è uscito niente di interessante e nuovo perché quel campo di forze è prigioniero di una visione del mondo che non riesce a liberarsi del classico scontro tra destra e sinistra, che riproduce, come ha ben messo in luce Maurizio Ferrera su “la Lettura” del 24.3.2019, la vecchia dicotomia tra stato e mercato su cui si erano collocate le appartenenze politiche nel corso del XX secolo: alla destra mercatista/liberista si contrapponeva una sinistra che vedeva nello stato lo strumento per controllare le forze distruttive del capitalismo e garantire eguaglianza e inclusione sociale.
Erano il baricentro politico della “Grande trasformazione” analizzata da Polanyi nel fuoco della seconda guerra mondiale e che ha sorretto il lungo ciclo fordista conclusosi alla fine degli anni settanta.
Stato e Mercato si sono combinati in maniera dinamica
Ma per quarant’anni mercato e stato seppur contrapposti nell’immaginario politico, si sono combinati in maniera dinamica creando una sosta di capitalismo statalmente organizzato fondato sull’egemonia americana e lo stato nazionale, che affondava le sue basi sociali in un compromesso progressista tra le due classi dominanti della società industriale: la borghesia e il proletariato. La sovrapposizione tra destra e sinistra da un lato e mercato e stato dall’altro reggeva, anche se l’ordine del mondo occidentale era fondato su una collaborazione che, al di la dei conflitti sociali anche aspri che lo attraversavano, presupponeva il comune riconoscimento della crescita e del benessere collettivo come principi fondanti e irrinunciabili della stabilità politica democratica.
Ma la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale hanno radicalmente modificato questo scenario obbligando a ricollocare la dicotomia destra-sinistra lontana da quell’altra: non si tratta della fine della contrapposizione tra destra e sinistra di cui parlano i populisti, ma, come già ricordava Giddens, di ridisegnare il profilo ideale e progettuale della sinistra oltre la contrapposizione tra stato e mercato, per il venir meno dello stato nazionale e per il moltiplicarsi delle fratture sociali oltre quelle di classe che hanno perso centralità.
Oltre la contrapposizione tra stato e mercato
Questo è il cammino difficile, ma imprescindibile, da intraprendere già dalla fine del secolo scorso se la sinistra vuole ancora rappresentare il cambiamento sociale e le speranze degli ultimi, che costituiscono le origini della sua storia ormai bisecolare. E un cammino ancora in corso, che ha seguito itinerari poco lineari, che ha visto crescere fratture e contrapposizioni drammatiche tra diverse anime e diverse visioni, vittorie e sconfitte brucianti, e il traguardo ancora non si vede.
Il modello consociativo e l’eccezione italiana
La sinistra italiana costituisce un esempio di scuola di questa difficoltà a uscire dalle sua vecchia ortodossia che è stata speculare a quella della destra legata a un capitalismo familista alla permanente ricerca di protezioni pubbliche. Paradossalmente, la protezione dalla concorrenza internazionale sotto l’ombrello statale perseguita dalle èlites economiche e la difesa del vecchio welfare novecentesco da parte dei sindacati e dei partiti nati dalla dissoluzione del Pci hanno unificato destra e sinistra contribuendo non solo a creare il modello consociativo più solido dell’occidente, ma anche a dare un notevole contributo all’eccezione italiana del XXI secolo: bassa crescita, bassa produttività del lavoro, scarsa mobilità sociale, scarsi investimenti infrastrutturali, debito pubblico in continua crescita. Se era questo il partito dei poveri auspicato da Prodi sarebbe meglio collocarlo tra gli errori da non ripetere.
Il progressismo liberale di Renzi e la sinistra ‘perduta’
Renzi è stato l’unico leader della sinistra italiana che ha cercato di trasformare in programma di governo il nodo strategico di ricalibrare il discorso progressista con una forte carica di liberalismo democratico puntando a ridefinire la domanda di protezione sociale che proviene da strati sociali non protetti o protetti poco dal vecchio welfare (giovani, donne, famiglie) con la valorizzazione delle opportunità nuove e straordinarie offerte dalla globalizzazione tecnologica: cioè di riproporre a distanza di quasi un secolo l’integrazione tra socialismo e liberalismo che aveva pensato Carlo Rosselli nel suo esilio lipariota.
Questo progetto ha incontrato l’opposizione della vecchia sinistra, che ha combattuto con testardaggine e con armi che si riterrebbero irrituali e discutibili anche se venissero utilizzate contro gli avversari, per impedire che dal suo declino inarrestabile – in Francia il Ps e al 7% in Olanda al 6%, in Grecia il Pasok è sparito come il partito socialista israeliano, in Germania sono arrivati al 20% e nei paesi dell’est europeo sono ai margini – prendesse forma una nuova sinistra liberale capace di ripensare radicalmente il rapporto tra stato e mercato. Ma al di là della protervia e della cecità, la sinistra “perduta” è stata solo un protagonista residuale di questa sconfitta: una mosca cocchiera si sarebbe detto nel Pci, perché il vero protagonista della crisi della sinistra è stato il nuovo imprenditore politico uscito dalla crisi del 2007, cioè il populismo.
La vecchia sinistra si rispecchia nel populismo statalista
Un nuovo attore che si è fatto paladino del vecchio statalismo caro alla sinistra, riconiugato però nel nuovo quadro ideologico sovranistra: stati nazionali chiusi vengono rilanciati come strumenti per difendere quel che resta (e in Europa è moltissimo) delle protezioni ereditate dal grande ciclo progressista tra gli anni cinquanta e settanta a favore di gruppi sociali a loro volte eredi di una stratificazione sociale del passato.
Non è un caso che in Italia gli operai e i dipendenti pubblici siano il grande bacino elettorale della Lega e dei 5S perché in nome di uno statalismo assistenzialista garantiscono il mantenimento di solide tutele sociali a chi già le possiede ed è esposto assai poco ai rischi del cambiamento. I populisti occupano oggettivamente uno spazio che era della sinistra novecentesca e ciò spiega perché pezzi della sinistra radicale e del suo elettorato siano attratti da un dialogo con queste nuove forze: si rispecchiano in un campo di parole d’ordine, di simboli, di programmi che appartiene alla loro identità profonda.
L’alleanza tra Pd e i partitini di sinistra cancella il progetto riformista
In questo nuovo scenario, il terreno effettivo di una alleanza possibile tra il PD e questa galassia di forze alla sua sinistra sta nel cancellare il progetto riformista della precedente legislatura, che si può sicuramente catalogare tra le migliori esperienze di “terza via” da Blair in poi, e ricostruire una forza politica interamente iscritta nella tradizione socialista del passato, anche se oggi è la famiglia politica più malandata d’Europa: D’Alema questo ha chiesto dal palco del congresso di Bologna a Zingaretti, invitandolo per le spicce a portare a termine il rinculo progettato dai suoi strateghi Bettini e Smeriglio.
Verso l’alleanza tra sinistra tradizionale e populismo di sinistra
Ma questa alleanza per avere un senso non può che essere propedeutica all’altra, ben più consistente sul piano strategico, che è quella di un’alleanza tra una sinistra ricondotta nel suo alveo tradizionale – che in Italia però non è stata la socialdemocrazia ma il comunismo eccentrico del Pci – e il populismo a sua volta “di sinistra”, che ha per base programmatica il ritorno alla vecchia contrapposizione tra stato e mercato come fulcro dello scontro tra destra e sinistra: una follia, che per ora è stata impedita dall’ultima grande scelta politica di Renzi (altro che pop corn…) ma che ritorna costantemente perché ha delle sue oggettive basi politiche.
L’alternativa è muoversi in direzione di una rinnovata “terza via”, o come la si intenda chiamare. Cioè si torna a costruire il “partito della nazione” maggioritario e liberalprogressista, che ha nel populismo il suo avversario su scala mondiale; oppure si ritorna al “socialismo”, che combatte con la destra la sua storica battaglia, che in Italia, però, nella la sua storia recente, non evoca il volto di Brandt, di Mitterand o di Palme, ma quello di un ircocervo rappresentato da D’Alema e dalla Bindi, da Bersani e da Cofferati, dalla Camusso e da Bertinotti, insieme a uno stuolo di intellettuali e di padri della patria sul viale del tramonto.
La vera vittoria politica del populismo? Resuscitare la sinistra identitaria
Un ritorno la cui prima vittima sarebbe proprio il Pd, che prima con Veltroni e poi con Renzi si era allontanano da quelle derive ma che la forza del populismo ha risospinto nelle vecchie ridotte delle tradizioni consunte, negli approdi apparentemente convincenti della sinistra perduta. Al di la dei voti, la vera vittoria politica del populismo è stata interrompere il processo di affermazione della sinistra liberale che era in corso e farla riconfluire nel suo passato identitario e minoritario.
Ma Zingaretti è come l’asino di Buridano: i suoi consiglieri lo spingono in quella direzione, ma sembra consapevole che una parte consistente del suo gruppo dirigente, al di la degli opportunismi congressuali e delle ambizioni di carriera personali, non sarebbe disponibile a tornare al Pds, anche per la costatazione banale che un partito cosi fatto farebbe fatica a raggiungere il 20% nei prossimi anni: anche se ha vinto il congresso promettendo “il grande ritorno al passato”, appare sempre più evidente che realizzare effettivamente la promessa è andarsi a mettere nel vicolo cieco nel quale stanno ormai da tempo i congressisti di Bologna, cioè laddove li ha spinti la vittoria di Di Maio e Salvini, che per loro è stata un sberla ancor peggiore di quella presa dal PD.
Unire la sinistra contro la destra: una proposta datata e consunta
In un vuoto di indirizzo politico, il segretario mesta nel torbido della “politica delle alleanze”: una scelta suicida perché impegna uno dei più ragguardevoli capitali politici della sinistra europea – solo il partito socialista portoghese e il Labour hanno più voti del Pd – in una operazione politicista e di retroguardia, priva di appeal elettorale (ricordarsi Bersani 2013), senza esplicitare la qualità e i contenuti dell’offerta politica del partito che dirige.
Presentarsi alle Europee con il messaggio “unire la sinistra” per aprire una nuova stagione di lotta contro “la destra” prevedendo uno scenario occidentale attraversato da una radicalizzazione dello scontro tra queste due polarità non è sensato perché la proposta è datata e consunta, ma soprattutto è priva di interlocutori.
Nonostante gli sforzi del gruppo Espresso-Repubblica e delle televisioni di Cairo di accreditare la tesi che la sinistra esista e sia uno spazio dinamico, come nel 1994/5, in Italia la sinistra è un deserto (23% a essere ottimisti) di voti e di idee, che ha inoltre come unico elemento di coesione interna lo scontro con i riformisti per aprire all’alleanza populista, spaccando o spacchettando il Pd. E’ in realtà un manipolo di ceto politico residuale soprattutto di ex comunisti e di intellettuali che provengono dalla stessa storia, sovraesposto sul piano comunicativo, ma sganciato da ogni effettiva rappresentanza sociale: tutti baby boomers, che dominano da anni, il mondo della comunicazione scritta e televisiva, che, però, le elezioni del 4 marzo del 2018 e quelle successive hanno dimostrato essere generali senza esercito.
“Campo largo” o vicolo cieco?
Se tutta questa strategia del “campo largo” si riduce a due o tre posti in lista alle europee per seconde fila di Articolo 1 (gli ultimi quadri locali del dalemismo), più qualche ex dirigente della Cgil, più qualche magistrato antimafia nel Mezzogiorno (come se tutto il sud fosse Gomorra) e la foglia di fico di Calenda, non fornisce una prospettiva credibile, perché è basata su una analisi sbagliata della fase politica e della struttura sociale del paese: andare da Macron a Tsipras è una strategia; andare da Calenda a Pisapia è galleggiare senza una effettiva prospettiva.
Infatti a una quarantina di giorni dalle elezioni europee non abbiamo ancora detto all’elettorato quale Europa vogliamo e come e con chi farla, spingendo molti elettori e militanti del Pd a scegliere +Europa il cui profilo europeista è più chiaro e marcato di quello del Pd: con Calenda e Bonafè vai verso l’Alde insieme a + Europa e con i verdi centristi, con i transfugi di Leu e Pisapia si guarda all’ala sinistra del Pse, che guarda a sua volta verso la gli eurocomunisti e gli ecosocialisti. Forse raccatti un pò di voti, ma una volta eletto come si muove il gruppo parlamentare europeo? L’orribile divaricazione del voto su Maduro la dice lunga di quali rischi si corrono nel costruire carrozzoni elettorali privi però di identità programmatica.
L’unionismo anti-Salvini è privo di contenuto
Oggi il Pd sta solo “prendendo tempo”: una girandola e di iniziative e dichiarazioni prive di contenuto, in assenza di iniziativa politica; sta già “tirando a campare” a solo un mese dal congresso perché chi lo dirige non ha le risorse politiche per fare quello che ha promesso e la promessa nei fatti non va oltre una riedizione dell’Unione, che era già la riedizione farsesca dell’Ulivo, con forze politiche rissose e ridotte ai minimi termini, unificate dall’ “antisalvinismo” che a sua volta è la riedizione farsesca dell’antiberlusconismo, con il suo mesto corteo di scontri all’arma bianca tra fascismo e antifascismo.
In ogni caso – come era già evidente nel dibattito congressuale – questa proposta non riesce ad essere il fulcro di una alternativa effettiva al populismo perché è in attesa di allearsi con la sua “ala sinistra”, che ai fini degli interessi del paese è forse più pericolosa della sua ala destra.
Riprendere il cammino del riformismo
Bisognerebbe invece riprendere il cammino interrotto il 4 marzo per cercare di dialogare con quel 40% di elettori che avevano dato per ben due volte fiducia al Pd, proprio perché era riuscito a superare quelle vecchie tagliole ideologiche e a presentarsi come il partito delle opportunità, ma anche delle nuove protezioni, collocando la distinzione tra destra e sinistra sulla discriminante conservazione/innovazione.
Attorno a questo partito “della nazione” si era raccolto il consenso largo di quel centro “repubblicano” riformatore e democratico che è una componente essenziale del riformismo europeo, e che poi si è progressivamente allontanato dal Pd quando il suo profilo si è opacizzato e si è messo in moto invece il “grande rinculo”.
Su questo dovrebbe ruotare la nostra proposta politica in Europa come nei comuni dove si voterà a breve per riprendere il dialogo con quegli elettori, che per comodità chiamiamo centristi o moderati, ma che in realtà sono forze vitali che costituiscono la base più solida della stabilità democratica della nazione, appunto. Sono quelli che riempiono sale e teatri dove Renzi presenta il suo libro, ma che al Pd di Zingaretti sembrano non interessare come potenziali elettori perché fanno emergere l’inconsistenza politica della demonizzazione del Pd riformista su cui ha vinto il congresso.
Una traversata in mare aperto
Il “nuovo Pd” – mai aggettivo è stato usato in maniera più maldestra – si accontenterà del 20% dicendo che è una grande vittoria, perché ha preso 1 o 2 punti in più di quello “vecchio” e l’elettorato rifomista e democratico rimarrà alla finestra in attesa di una offerta politica convincente. Per fortuna Renzi è in campo: è il leader riformista dotato del più altro consenso in Italia e di una reputazione internazionale notevole. Se darà una mano alle elezioni tenendo alta la bandiera della sinistra liberale non tutto è perduto. Ma sarà comunque una traversata in mare aperto e con poche carte nautiche.

domenica 7 aprile 2019

Il Professor Prodi e le Coalizioni

Claudio Petruccioli
6 aprile 2019 
Nel PD c’è maretta sulla formazione delle liste per le elezioni europee del 26 maggio: vanno aperte anche a chi, non più di due anni fa, se ne andò per farsi un altro partito? La questione non è di facile soluzione: si tratta, in fin dei conti, di legittimare o meno una scissione le cui ferite sono ancora aperte.
Qui, però, non tratto di questo pur importante problema di oggi, bensì del modo in cui lo ha commentato – con riferimenti al passato – Romano Prodi. Leggo (da Goffredo De Marchis su la Repubblica – virgolettato): “O si fanno le coalizioni oppure si perde. Io l’ho capito benissimo che si devono fare le coalizioni. Forse in anticipo. Per questo ho fatto l’Ulivo”.
Con tutta la stima per il Professore (così lo presenta De Marchis) l’enunciazione mi sembra molto sbrigativa e, almeno in parte, smentita dai fatti. E’ indubbio che le due vittorie elettorali che gli hanno aperto le porte di Palazzo Chigi, Prodi le ha riportate guidando una coalizione; ma è altrettanto certo che in ambedue i casi, dopo un paio d’anni, quelle stesse coalizioni persero pezzi non riuscirono a stare insieme e determinarono la caduta dei suoi governi.
Nel 1998 a vanificare la vittoria dell’Ulivo del 1996 ci pensò Bertinotti. Nel 2006, scomparso l’Ulivo non c’erano più neppure i collegi uninominali, sostituiti da un premio di maggioranza assegnato a chi prendeva un voto in più. Prodi costruì l’Unione, una coalizione larga con dentro tutti che, sia pure per un soffio, tagliò per prima il filo di lana; ma era a tal punto disunita e sgangherata che nel 2008 il suo creatore dovette gettare di nuovo la spugna.
Turigliatto non aveva la statura politica di Bertinotti; ma anche lui agiva su quel fianco sinistro lungo il quale lo schieramento di centrosinistra registra di solito le falle e le defezioni che lo mettono in crisi. E’ lo stesso fianco che oggi Zingaretti si affanna a presidiare; gli auguro che i risultati siano migliori di quelli esperiti da Prodi, anche se non mi è facile capire perché oggi le cose dovrebbero andare diversamente.
De Marchis fa seguire una sua chiosa alla enunciazione del Professore. “Il discorso – precisa – sembra valere per le Politiche dove ci sono i collegi ma anche per le Europee, dove gli accordi sono utili per ottenere un voto in più”. Il senso delle parole di Prodi è senza dubbio questo; ma proprio lui sa bene che ci sono occasioni nelle quali è meglio non sacrificare una posizione politica a obiettivi elettorali che, pur apparentemente migliori, compromettono quella stessa posizione.
A ottobre del 1998, quando fu costretto a lasciare Palazzo Chigi dal rifiuto di Bertinotti, non gli sfuggivano le manovre di non pochi complici acquattati all’ombra dell’Ulivo. Pochi mesi dopo decise perciò di presentarsi alle elezioni europee del 1999 da solo; da solo, altro che coalizione! Lo fece con la denominazione “I Democratici” e con il simbolo dell’asinello; prese quasi due milioni e mezzo di voti, il 7,73% ma soprattutto ottenne un successo politico perché dimostrò la inconsistenza delle posizioni di quanti avevano congiurato contro di lui.
Il fact checking è utile sempre, non solo sui social. In questo caso dimostra che le coalizioni, se mal fatte, possono farti prendere più voti ma poi determinano la tua caduta e – soprattutto – la rovina della politica che vorresti fare. Anzi, in qualche caso, per affermare e difendere quella politica devi perfino – come fece Prodi nelle europee di venti anni fa – competere da solo. Se le tue sono buone ragioni troveranno riscontro e anche i voti non mancheranno. Se, invece, sacrifichi la politica a convenienze immediate e precarie, non ci sono voti che tengano.

venerdì 5 aprile 2019

Le sfide per il futuro dell’Europa

Guido Formigoni 
4 aprile 2019
L’Unione europea sta vivendo mesi cruciali su diversi fronti: dalla Brexit alle elezioni del parlamento di maggio. Si ha quasi l’impressione di stare su un crinale decisivo tra rilancio del futuro di questa iniziativa e avvio di un circolo vizioso di crisi e divisione. L’Europa è in questione. Perché ogni cittadina e cittadino compia le sue scelte con consapevolezza, è bene avere in mente l’orizzonte essenziali di problemi che ci sta davanti. Proviamo a riassumerli – senza aver spazio per approfondirli – in alcuni punti essenziali.
Primo.  L’Europa non è un dato di fatto: non è difficile constatare come non abbia evidenti basi comuni di lingua, storia, cultura, identità. I popoli europei stanno insieme solo se si accordano su un progetto condiviso per il futuro. Non si deve mai dare per scontato questo elemento, non si deve dare per ovvia l’identità europea, pena la sua sconfitta. Chi ci crede ha il compito di continuamente rimotivarla e rilanciarla all’altezza delle sfide dell’epoca. L’idea per cui il percorso «comunitario» iniziato settant’anni fa tra sei paesi sia ormai irreversibile e non possa che avanzare, spesso coltivata dagli europeisti, è profondamente illusoria e sbagliata.
Secondo. L’Europa è davvero una necessità per il nostro futuro. Ma occorre spiegarlo non con un vago appello alla cultura delle origini o alle scelte dei nostri nonni. Sempre l’Europa è stata un orizzonte di valore, che però ha funzionato quando costituiva una risposta elaborata a un problema politico reale. Originariamente, il problema della ripresa della Germania dopo trent’anni di guerre. Possiamo dire che oggi ci sia un problema analogo? A me pare del tutto evidente: dopo la crisi del 2008 e la «grande stagnazione» successiva, noi conosciamo un mondo in cui i giganti come Stati Uniti e Cina hanno rilanciato una statualità per governare la globalizzazione (bene o male che lo stiano facendo). Un appello forte in questa direzione oggi è più che mai opportuno: l’Europa non può mancare al tavolo. Occorre ribadire che non c’è futuro per piccoli-medi Stati europei se si isolano stizzosamente tra di loro nel mondo dei giganti. Per cui la necessità dovrebbe muovere l’ingegno.
Terzo. Le acquisizioni della storia hanno ormai distinto l’Europa da altre parti del mondo, costituendo un patrimonio progettuale non trascurabile, se valorizzato. Si pensi al discorso sul metodo di rapporto tra gli Stati (metodo inclusivo e cooperazione invece che egemonie e imposizioni; capacità di governo dell’economia senza dirigismi ma senza subalternità ai mercati). Si pensi all’originale modello sociale (una società che mira a integrare i perdenti lottando contro le diseguaglianze eccessive; rapporti di mediazione articolata tra i gruppi e i mondi sociali, invece che individualismo anglosassone o “collettivismo” asiatico; mediazione continua tra esigenze della crescita economica e esigenze della coesione sociale). E forse, ancora più a fondo, c’è una concezione della persona umana al di sopra della sicurezza o della stessa coesione (integrazione delle diversità e anche delle religioni nel primato della coscienza, ma anche nel dialogo reciproco; rifiuto della pena di morte). Sono tutti tratti «europei» forti, non banali, che a volte sottovalutiamo, ma che vanno sempre aggiornati.
Quarto. Qualcuno oggi dice che il vero scontro è tra europeisti e «sovranisti» o «populisti». Mi pare uno schema riduttivo. Infatti, è ambiguo dire che stanno con l’Europa solo coloro che sostengono la linea politica e istituzionale dell’Unione negli ultimi anni, a partire dalla risposta alla crisi secondo le regole dell’austerità. L’Europa degli ultimi decenni ha seguito linee quanto meno controverse (lo ha ammesso a denti stretti, recentemente, lo stesso presidente della commissione Juncker). Non è un caso che l’Unione europea “così com’è” si sia attirata molte contrapposizioni. Quindi potrebbe e dovrebbe essere un messaggio forte quello che dica: l’Europa è necessaria, ma apriamo un dibattito franco su «quale Europa» oggi vogliamo. I veri europeisti non si sottraggono a questa sfida.
Quinto. L’Europa interessa molto anche i credenti. La Chiesa cattolica può giustamente fare appello a tradizioni europeiste forti, da quando Pio XII ha proclamato san Benedetto patrono dell’Europa. Sulle «radici cristiane dell’Europa» si è discusso fin troppo: negarle è stato un patetico rifiuto della storia; affermarle come rivendicazione di un primato non ha aiutato una riflessione aperta. Anche in questo campo, però, non tutto è ovvio. I vescovi europei fanno ultimamente sempre più fatica a utilizzare questo retaggio per prendere posizioni comuni su temi delicati come le migrazioni (segnatamente, i vescovi dei paesi dell’Est spesso non si distaccano dai loro nazionalismi). C’è quindi un processo di purificazione e di auto-verifica della coscienza cristiana da sviluppare prima di poter lasciare un messaggio positivo. Sarebbe utile aprire un confronto libero e spregiudicato anche su come il cristianesimo parli oggi all’Europa.