Salvini impersona la voglia di rivalsa, la delusione e a tratti la
disperazione di un pezzo di società, offrendo una risposta fortemente
identitaria ma politicamente sterile
Ma davvero qualcuno pensa che Matteo Salvini possa
diventare il leader del nuovo centrodestra post-berlusconiano?
L’entusiasmo del circo politico-mediatico per l’exploit della Lega in
Emilia sembra piuttosto confermare una diffusa incapacità degli addetti
ai lavori a comprendere la realtà e ad analizzarla con le categorie del
buonsenso. La spasmodica – e in sé giustificatissima – ricerca di un
anti-Renzi non deve abbagliare, e soprattutto non deve dimenticare le
ragioni che hanno portato proprio Renzi al successo di questi mesi.
La radicalità della sua proposta politica (la “rottamazione”) si è
infatti sempre accompagnata allo sforzo sistematico di tranquillizzare
l’opinione pubblica moderata, offrendo una prospettiva di riforme e di
cambiamento e, soprattutto, un orizzonte di speranza e di crescita. Nel
derby fra la “rabbia” e la “speranza” andato in scena alle scorse
elezioni europee Renzi è riuscito a doppiare Grillo proprio per questi
motivi.
Salvini non è il nuovo Berlusconi: è piuttosto il nuovo Grillo. Non
si propone di riunificare e federare la destra, come ha sempre fatto con
discreto successo il Cavaliere in questi vent’anni, allargandone i
confini al centro così da costruire uno schieramento sociale, politico
ed elettorale maggioritario: al contrario, Salvini impersona la voglia
di rivalsa, la delusione e a tratti la disperazione di un pezzo di
società, offrendo una risposta fortemente identitaria ma politicamente
sterile.
La nuova Lega è un pezzo importante del centrodestra italiano, ma è
strutturalmente incapace di rappresentarlo tutto. La sua forza,
destinata a crescere in visibilità e consenso per mancanza di
alternative in campo, è anche il suo limite: protestare contro l’euro,
l’Europa e gli extracomunitari può riscaldare qualche piazza e riempire
qualche urna, ma serve a poco – e anzi finisce con l’essere
controproducente – se lo scontro si sposta sul terreno del governo.
La vena autoritaria che Salvini, non senza cinismo, sembra coltivare
in certe uscite pubbliche, visitando con entusiasmo la Corea del Nord o
elogiando l’autocrate Putin, può forse guadagnargli qualche strizzatina
d’occhio (e magari qualche finanziamento), ma difficilmente gli
consentirà di allargare il consenso e costruire una proposta credibile
per l’elettorato moderato e liberale.
La fiammata leghista – come l’anno scorso quella grillina – non è la
soluzione, ma parte del problema: la protesta da sola, per quanto
rumorosa e spensieratamente amplificata dal sistema dei media, è
destinata prima o poi a rifluire se non si aggancia ad un progetto
realistico e condivisibile di governo.
La forza di Renzi, in fondo, è tutta qui: stare a palazzo Chigi e
provare a far qualcosa. Per batterlo non basta puntare l’indice contro
le mancanze, le contraddizioni, le insufficienze del governo, e tanto
meno è sufficiente organizzare e canalizzare la protesta di piazza: ci
vuole qualcosa di più – una narrazione, una proposta, un orizzonte
inclusivi, capaci cioè di rivolgersi all’intero paese.
La strada di Salvini – come sul fronte opposto quella di Landini, che
tuttavia almeno per ora si guarda bene dal fondare un partito – tende a
bloccare il sistema politico, non a definirne un’alternativa
praticabile. Berlusconi lo sa bene, e per questo non si preoccupa più di
tanto del successo leghista. Ma è altrettanto vero che, in mancanza di
meglio, il nuovo Carroccio lepenista tenderà ad ingrossarsi ancora. E un
sistema politico bloccato non è mai una buona cosa, neppure per chi sta
al governo.
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