sabato 28 febbraio 2015

Pronto un decreto per la rete veloce Telecom.


Corriere della Sera 28/02/15
Fabrizio Massaro
Massimo Sideri
Si chiama, non senza inventiva, «Ring», acronimo di rete italiana di nuova generazione. Come il suono del telefono nei fumetti. Ed è la bozza del decreto legge per la banda larga che coinvolge in primis Telecom Italia. Il contenuto del piano che si trova ora sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico e che da qui a martedì, quand’è atteso al Consiglio dei ministri, potrà cambiare ulteriormente, è incandescente: basterebbero i titoli provvisori dell’articolo 1, inclusione della banda ultralarga nel servizio universale, e dell’articolo 2, attivazione graduale e definitiva delle reti di nuova generazione, per capire quale possa essere il grado di preoccupazione tra gli operatori.
Nella sostanza il piano prevede lo switch off (ovvero l’abbandono) della rete in rame — leggi, dunque, di Telecom Italia — entro il 2030. Un retroscena mostra l’importanza di questo passaggio: fino a una settimana fa la data ipotizzata era il 2024. Una scadenza spostata in avanti di sei anni, visto lo scontro in campo. Pochi giorni fa il board di Telecom ha bocciato l’ingresso in Metroweb (la società di fibra ottica di Cdp e F2i) presentato dall’ad Marco Patuano e ha varato 3 miliardi di investimento sulla reteveloce con 4 mila assunzioni apprezzato dai sindacati.
L’idea iniziale della bozza, contenuta esplicitamente anche nel programma di Matteo Renzi del 2012, era creare una rete pubblica. Il collettore avrebbe dovuto essere la società pubblica delle tlc, Infratel. Nella bozza attuale invece si parla solo di un’architettura «Fttb/Ftth» (Fiber to the building e to the home, cioè la fibra fino almeno al palazzo) che sia «passiva, neutra e liberamente accessibile». Dunque adesso dipenderà dall’attuale scontro l’azionariato e la governance della banda ultra larga.
Gli altri elementi forti della bozza riguardano la fornitura di almeno 30 megabit al secondo di velocità come «servizio universale» entro il 2018 — l’Agcom ha tempo sei mesi per definire quale società avrà questo compito, ma è chiaro che Telecom è il candidato numero uno — e un voucher per gli operatori che porteranno la fibra nelle case. Il piano al quale ha lavorato Raffaele Tiscar per conto del governo sarebbe ora oggetto di considerazioni non sempre concordi da parte di Andrea Guerra, consulente economico di Renzi.
Il progetto del governo sulla rete si incrocia con l’affare delle torri tv. Ancora ieri, a tre giorni dal lancio dell’opas da 1,22 miliardi di euro di Mediaset, attraverso la controllata Ei Towers, su Rai Way, la società delle antenne della tv di Stato, la Borsa ha continuato a credere se non all’operazione in sé quantomeno al fatto che un consolidamento del settore dovrà avvenire. Rai Way è cresciuta del 3,44%, Ei Towers del 1,55%. Anche in questo risiko delle antenne c’è in ballo Telecom Italia, con in programma la quotazione della sua società delle torri, Inwit. Una vicenda su cui la Consob è intervenuta chiedendo entro lunedì informazioni alla Rai sul nodo del possesso pubblico al 51% fissato dal governo. Ma anche il gruppo della famiglia Berlusconi dovrà chiarire se modificherà l’offerta rinunciando al controllo nella società post-fusione. Ieri il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ha proposto «un modello Snam o Terna» per le torri tv, con lo scorporo della rete che «potrebbe essere interamente pubblica, o pubblica e privata» ma senza produttori di contenuto» nel capitale.

«Io c’ero. La minoranza non è omogenea».


Corriere della Sera 28/02/15
Alessandro Trocino
«Renzi ha fatto cose di sinistra, come gli 80 euro e la tassazione delle rendite finanziarie. Ma rendere così liberi i licenziamenti mi sembra un’operazione di destra». 
Cesare Damiano, esponente di spicco della minoranza pd, a differenza di Pier Luigi Bersani e di Gianni Cuperlo, era presente alla riunione pd convocata da Matteo Renzi. 

Riunione molto criticata. 

«Sì, la modalità di convocazione è stata inusuale. E anche la formula non reggeva. Purtroppo si tende a dare troppo enfasi alla comunicazione».

 
E perché è andato?
 
«Appartengo a una vecchia scuola sindacale. Anche se convocano una riunione alle 5 del mattino dietro il convento delle Carmelitane vado, quasi per istinto. E poi la minoranza non è omogenea. E anche se lo fosse, a nessuno verrebbe in mente di dare indicazioni tassative».

 
Bersani e Cuperlo sono stati molto duri. Lei si differenzia dalle loro posizioni? 

«Con Bersani non mi differenzio, perché sul jobs act abbiamo votato entrambi a favore. Cuperlo ha scelto di non partecipare al voto ed è una differenza di impostazione». 

Anche lei però resta molto critico sul Jobs act: perché?
 
«È una riforma troppo schiacciata sulle posizioni della Confindustria. Sui licenziamenti collettivi non tenere conto del parere di due commissioni, votato all’unanimità da renziani e non, è stato un errore e una mancanza di rispetto per il Parlamento. Quando si licenzieranno 20 persone, 15 con le vecchie regole e 5 con le nuove, se il criterio di scelta non fosse legittimo, 15 verrebbero reintegrate e 5 resterebbero fuori dai cancelli, con solo l’indennizzo. È una diseguaglianza che può avere risvolti costituzionali».


Però ha votato a favore del Jobs act.

«Abbiamo accettato la sfida di un nuovo paradigma. Ma se si indebolisce la tutela del posto del lavoro, bisogna che sia più forte nel mercato del lavoro. E questo non è: parlo degli ammortizzatori sociali. Quanto al disboscamento delle forme precarie, bene l’abolizione del contratto a progetto, ma si rischia di tornare al lavoro coordinato e continuativo. Che è ancora più precario».


Non è troppo tardi ormai?

«No, ci sono ancora alcuni decreti attuativi e si può intervenire. Ma non sono fiducioso. Alcuni si erano illusi che avremmo continuato con il metodo Mattarella: io non ero tra quelli, ma sui licenziamenti collettivi c’è stata addirittura una controsvolta».


Cioè?

«Mi sembra che tutto si stia schiacciando tra il sì e il no. E poi vedo che si aprono tanti forni: ma se ammazziamo tutti i fornai, nessuno farà più il pane».


Si dice che Renzi faccia fatica ad ascoltare.

«Sì, va bene che siamo in una situazione rivoluzionaria e i vecchi occhiali non servono più, ma siamo pur sempre un partito che appartiene al socialismo europeo. Vorrei un po’ di coerenza».


La minoranza cosa può fare?

«Spero che i non renziani, come me, facciano battaglie comuni, anche attraverso un patto di consultazione».


A un renziano suonerebbe come una «minaccia».

«Ma no, è un fatto naturale. La maggioranza cerca il massimo della convergenza e anche noi dobbiamo farlo».

Renzi riunisce il Pd: non cambio le riforme 
I big della sinistra disertano e attaccano.


Corriere della Sera 28/02/15

Al. T.t
La riunione dei parlamentari convocata ieri dal segretario Matteo Renzi al Nazareno segna la rottura della tregua nel partito, cominciata con l’elezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Perché non soltanto alcuni big della minoranza — Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Stefano Fassina e Rosy Bindi — hanno deciso di disertare polemicamente. Ma anche perché hanno scelto di commentare da lontano, in toni molto duri, le modalità di convocazione e il «mancato» dialogo all’interno del Pd. Un segnale subito colto dal «Mattinale», ispirato dal «forzista» Renato Brunetta, che si spinge fino a scrivere «Forza Bersani». Renzi, invece, ribadisce: riforma costituzionale e Italicum non si toccano e si «deve correre» su scuola (il ministro Stefania Giannini conferma che a gennaio «saranno assunti 180 mila insegnanti») e Rai.

Quattro ore di dibattito preceduti da una protesta rumorosa (con fumogeni) di una trentina di studenti, e con numeri che divergono: 200 presenti, secondo fonti di maggioranza, meno di 100 per la minoranza. Le critiche dell’ex segretario democratico vengono rintuzzate dal vicesegretario Lorenzo Guerini: «Il suo eccesso di polemica non è utile». E dal ministro Maria Elena Boschi: «Non capisco il motivo delle polemiche». Bersani ribadisce le critiche: «Rubricare tutto in una logica di potere è un insulto». Quanto alla riunione, «ognuno nella minoranza farà quel che vorrà. Io ho mandate quattro idee. È ora di discutere sul serio, non per spot. Attenzione che stiamo cambiando forma alla nostra democrazia e non sono cosucce da poco». E a chi gli domanda se davvero Renzi si appresta, a maggio, a cambiare gli equilibri dei gruppi parlamentari, l’ex segretario pd dice solo «spero proprio che non sia così». Ettore Rosato, in realtà, non lo esclude: «Una verifica è prevista ogni due anni, ma non è un tema politico».

Anche Cuperlo fa sentire la sua voce da lontano, molto polemica: «Sul Jobs act il governo ha ignorato suggerimenti e linee votati dalla direzione. E sulla riforma costituzionale non è si è tenuto conto neppure di un voto». Quanto al «ricevimento parlamentari», come lo chiama, «in tre minuti riesco a risolvere dei quiz, non la riforma fiscale». Cuperlo ha mandato una lettera aperta, condivisa dalla trentina di parlamentari che hanno aderito a Sinistradem, nella quale avanza alcune proposte specifiche: un istituto universalistico contro la povertà, un credito di imposta per le imprese che investono in ricerca e innovazione, reddito di cittadinanza, una legge sulle unioni civili, «norme di buon senso sulla flessibilità in uscita» e correzioni sull’Italicum. Sulla riforma costituzionale, si chiede un «seminario di verifica». Si arrabbia anche Pippo Civati: «Non si dica che non ci sono soluzioni alternative, perché le abbiamo avanzate. Questo è infamante». E se la Bindi, a Bologna per un incontro antimafia, si dice «d’accordo con chi ha scelto di non andare», non tutti hanno fatto la stessa scelta. Della minoranza erano presenti, tra gli altri, Damiano, Boccia, Tocci, Amendola, Campana, Miccoli. Renzi ha scherzato con Damiano, che alzava la mano: «Compagno Damiano, ci mancherebbe che non le dessi la parola». «Ci mancherebbe compagno Renzi», ha replicato, aggiungendo: «Mi auguro che le mie osservazioni non facciano la fine di quelle sui licenziamenti collettivi».

Una risposta a Bersani, che alludeva a una possibile incostituzionalità del Jobs act, è arrivata dal ministro Giuliano Poletti: «Abbiamo verificato i profili di costituzionalità. Rispetto l’opinione di Bersani, ma non ci sono forzature».



Quanto pesano gli «attacchi alle aziende» nella partita tra Berlusconi e il Carroccio.


Corriere della Sera 28/02/15
Francesco Verderami
Ha sopportato qualche dichiarazione in disordine, l’arrivo ad Arcore per cena in jeans e maglione, i penultimatum sulle alleanze per le Regionali. Ma l’attacco a Mediaset no, è un affronto che considera «inaccettabile». Ed è certo quindi che per Berlusconi questa storia con Salvini non finisce qui, «non finirà qui», ha detto infatti il leader di Forza Italia, furioso non solo per la contrarietà espressa dal segretario leghista all’opas del Biscione su Rai Way, per il modo allusivo con cui ha evocato il Nazareno e i presunti patti indicibili con Renzi, ma soprattutto per la chiosa: «Sarebbe un saldo di fine, fine, fine stagione».

L’insistenza sulla parola «fine» da parte di Salvini è parsa a Berlusconi un chiaro riferimento alla traiettoria della sua leadership. Probabilmente il fondatore del centrodestra ci sarebbe passato sopra ancora una volta, se non fosse che il capo del Carroccio ha legato quel giudizio politico alle sorti della sua ditta. Ecco perché gliel’ha giurata, sebbene la congiuntura giudiziaria e la delicatezza dell’operazione finanziaria — più che la necessità di trovare un’intesa con la Lega in Veneto — lo abbiano indotto a non replicare. Ha lasciato solo che il Giornale evidenziasse la strana alleanza tra Grillo e Salvini. A futura memoria.

Nulla più. E infatti tutti sono restati zitti, anche a Mediaset, dove l’ordine di Confalonieri è la consegna del silenzio, per non pregiudicare l’iniziativa industriale. Altrimenti dal quartier generale del Biscione sarebbero stati denunciati i «riflessi pavloviani di una certa sinistra che non manca mai occasione di mostrare il suo antiberlusconismo», insieme all’«improntitudine di chi non avrà fiato per durare». Anzi, a Salvini ieri è stata offerta la tribuna di «Mattino cinque», sulla rete ammiraglia, per dargli modo di rimangiarsi ciò che aveva detto il pomeriggio prima: «Non ho divorziato da Berlusconi, gli ho chiesto solo di scegliere con chi allearsi».

Ma a Berlusconi delle alleanze per le Regionali interessa fino a un certo punto. Piuttosto ha capito qual è la scelta di Salvini. Più che gli attacchi al suo primato e al suo partito, sono stati quei concetti sull’opas di Mediaset su Rai Way, quel «non permetteremo che vengano svenduti gli ultimi pezzi di aziende sane rimaste in Italia», che gli hanno fatto comprendere le reali intenzioni del segretario leghista. In fondo l’ex premier è l’anticomunista più marxiano che esista: parte sempre dall’interpretazione economica della realtà per farne discendere l’analisi politica. E al cuore della questione, il «goleador» — come lo aveva ribattezzato per conquistarlo — lo sta colpendo al portafogli, che è un pezzo di anima per ogni imprenditore.

D’altronde i sondaggi raccontano a Salvini che più si allontana dall’ex premier più raccoglie consensi, perciò si è messo a cannoneggiare sulla ridotta berlusconiana, attenta al cuore cioè alla mobilia, e prova così a recidere il cordone ombelicale di quel che resta dell’elettorato berlusconiano, denunciando — con quelle espressioni — che l’unico suo interesse è la difesa dei suoi interessi. Ecco perché l’affronto è «inaccettabile», ecco perché «non finirà qui»: perché il segretario leghista starebbe sabotando il rinascimento di chi, sul fronte imprenditoriale, vorrebbe prendersi la rivincita rispetto all’oltraggiosa fortuna che sta vivendo sul fronte politico e giudiziario.

E invece Salvini ripete per tre volte «fine, fine, fine stagione» e avverte che «noi ci metteremo di mezzo in ogni modo». La tesi che il capo del Carroccio abbia reagito a un complotto, che abbia voluto mandare un segnale a chi mirava ad oscurarlo mediaticamente, non regge a giudizio del leader forzista. Persino il Pd è insorto per «il grave squilibrio a favore di Salvini» nei programmi di Raitre e con i dati dell’Osservatorio di Pavia rilevati tra gennaio e febbraio ha rivolto un’interrogazione alla tv di Stato: «Ci spieghi come mai il leader della Lega in quel periodo ha avuto a disposizione 4.723 secondi, mentre il premier e segretario del partito di maggioranza ne avuti 2.561».

L’affondo di Salvini contro Mediaset sembrerebbe a prima vista una riedizione del «berluskaz». Non è così, e non solo perché dalla canotta si è passati alla felpa, ma perché Bossi — agli occhi di Berlusconi — ha un’altra statura politica: ai suoi tempi, con meno voti, governava tre regioni con la mano destra e l’Italia con la mano sinistra. Salvini invece — secondo l’ex commissario europeo Tajani — «farà la fine di Tsipras, che pensava di mettere in riga la Merkel». Probabilmente l’alleanza in Veneto tra Lega e Forza Italia si farà, di sicuro Berlusconi se l’è legata al dito: «Non finisce qui». Se finisse, vorrebbe dire davvero che è finita.




La rabbia di Silvio sull’altro Matteo: 
è inaffidabile, fa il gioco del governo.


Corriere della Sera 27/02/15
Tommaso Labate
« Ha detto che io e lui siamo diversi? Che con Forza Italia non c’è accordo? Allora non c’è niente da fare, questo Salvini è inaffidabile. E, soprattutto, s’è messo a fare il gioco di Renzi». Quando gli comunicano l’ultima presa di posizione di Matteo Salvini, che stavolta è direttamente contro FI, Silvio Berlusconi non chiede nemmeno di vedere i lanci d’agenzia. È pomeriggio, e l’ex premier è impegnato a Palazzo Grazioli in una serie di incontri di routine, diviso com’è tra le partite imprenditoriali in cui ha schierato Mediaset e la scadenze elettorali che attendono.

I tempi in cui Berlusconi provava ad ogni costo a stringere i bulloni di «un patto a due» con Salvini — arrivando al punto di prospettargli (lo fece intervenendo alla presentazione romana dell’ultimo libro di Bruno Vespa) la futura guida della coalizione di centrodestra — sembrano preistoria. Ora l’ex premier non ha alcuna voglia di «porgere l’altra guancia» rispetto al «gioco» che sta conducendo il numero uno del Carroccio.

«E pensare che l’ultima volta che ci siamo visti ad Arcore», ripete ai suoi Berlusconi ricordando il faccia a faccia di qualche domenica fa, «sembrava che fossimo d’accordo, eravamo rimasti che si sarebbe fatto di tutto per ricostruire un centrodestra che potesse battere i candidati di Renzi alle Regionali: tutte chiacchiere, come al solito, Salvini s’è dimostrato un interlocutore inaffidabile». L’atto d’accusa che l’ex premier è pronto a opporre pubblicamente al segretario federale della Lega è già stato messo nero su bianco. Berlusconi aspetterà il comizio romano in cui il leader leghista scandirà il suo «Renzi a casa». Poi dirà la sua. E cioè «che Salvini sta facendo l’esatto contrario di quello che dice, sta facendo esattamente il gioco del premier, è un suo alleato, anche più di Alfano. Altro che nemico… Perché l’unico modo che abbiamo per battere il Pd renziano già alle Regionali è quello di presentarci tutti insieme. Se lui mette veti, come sta facendo, si perde».

Berlusconi è convinto di avere più di un alleato, in questa partita a scacchi contro Salvini. È convinto che Roberto Maroni o Luca Zaia, che in Veneto rischia in prima persona, siano pronti a manifestare il loro disappunto contro i veti salviniani al tandem FI-Ncd. Lo ripete anche Giovanni Toti: «Salvini esulta quando guadagna qualche zero virgola nei sondaggi. Ma, se continua così, perderà tutte le caselle dove la Lega governa». Il riferimento non è solo al Veneto, dove oggi si recherà una delegazione forzista composta da Toti e da Deborah Bergamini. Ma anche alla Lombardia, dove adesso Berlusconi minaccia di «aprire la crisi». A conti fatti, l’unica mossa che l’ex premier e i suoi escludono è quella di sostenere Flavio Tosi, oppositore interno di Salvini, «ché tanto alla fine non si candiderà». Per il resto, la sfida all’«altro Matteo» sarà senza sconti.

Ma nonostante il fronte aperto col Carroccio trovi tutti d’accordo, i veleni interni a Forza Italia non accennano a scomparire. Sotto accusa lo spettacolo andato in scena al Senato due giorni fa, quando per colpa di «dodici stro… di senatori FI non presenti in Aula», ha denunciato Augusto Minzolini su Twitter, non è stata abolita l’Imu agricola. Nel mirino, mormorano al partito, anche la coppia composta da Sandro Bondi e Manuela Ravetto, assenti entrambi. Ma pure Maria Rosaria Rossi. Che, dimenticando la pallina di carta che i senatori usano per bloccare la pulsantiera, è risultata presente nell’unico momento in cui non avrebbe dovuto. E cioè sulla richiesta, avanzata dalla Lega, del numero legale. Un voto che ha salvato il governo Renzi in extremis. Miracoli involontari di un Nazareno che non c’è più.




Gaza: Tra i bambini senza casa “Ora li uccide anche il freddo”


FABIO SCUTO
La Repubblica 27 febbraio 2015
A sei mesi dal cessate il fuoco la ricostruzione non è ancora ripartita, fermata dai timori di un nuovo conflitto
Omar se ne torna dalla scuola dell’Unrwa di Shejaia con uno zainetto stinto sulle spalle, come tutti i ragazzini del mondo alla fine delle lezioni. Cammina con la testa bassa, deve traversare mezzo di questo quartiere fatto adesso di collinette alte otto-dieci metri, sono le macerie delle case distrutte nella guerra di questa estate. I ragazzini di questa zona, li riconosci subito. Portano le scarpe senza calzini, anche se la temperatura sfiora appena i sei gradi. Dalle rovine di casa sono state strappate coperte e poco altro. Calze niente, perché non sono una priorità. La notte la temperatura è gelida, i neonati sono quelli che spesso pagano il prezzo più alto. Si moltiplicano i casi di polmonite, ma anche di congelamento. «È diventato blu», dice con dura semplicità Munir Khassi, il nonno di un bimbo di 5 mesi morto nel sonno nel gelo notturno della sua casa sventrata a Khan Younis.
Dieci anni e già veterano di quattro guerre, Omar non ha più nemmeno un libro, un gioco. La sua famiglia — i Fodil — vive dalla scorsa estate fra le rovine della loro casa. La madre cucina con un fuoco fatto di legni sul pavimento di quello che era il soggiorno. La sera a Shejaia si sente l’odore di legna bruciata. I fuochi che si intravedono fra le macerie sono l’unica fonte di luce e di calore in questo quartiere un tempo di 60.000 persone. Nella guerra sono state distrutte 96.000 case. Dei 130 mila sfollati in pochi hanno trovato ospitalità nei container o nelle tende, in ventimila vivono ancora nelle scuole dell’Unrwa adibite a rifugio ma la maggior parte sopravvive fra le macerie della sua casa. La ricostruzione sei mesi dopo il cessate il fuoco è appena accennata, e a questo ritmo ci vorranno 100 anni — ha stimato Oxfam — per ricostruire ciò che è stato distrutto dalle bombe in 50 giorni di guerra, mentre i miliziani di Hamas erano occupati a lanciare 4.500 razzi verso Israele. Una scia di sangue di 2.200 palestinesi morti, 10.000 feriti, 72 israeliani uccisi, 1.500 i feriti.
L’Unrwa, l’Agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi, ha finito i suoi fondi interrompendo il suo programma di assistenza in dena- ro per sostenere dove possibile i lavori di riparazione nelle abitazioni o per l’affitto di locali o magazzini per ospitare gli sfollati. Gli impegni miliardari assunti al vertice internazionale del Cairo non sono stati rispettati e gli islamisti di Hamas, che controllano questo fazzoletto di terra, si rifiutano di allentare la presa. Anzi si preparano di nuovo alla guerra. Sparano missili in mare per testare la gittata, addestrano i ragazzi delle scuole superiori alle armi per formare anche un esercito di minorenni.
«Le modeste speranze di un futuro migliore sono state spazzate via da questa ultima guerra e dalla paralisi politica», dice Robert Turner capo delle operazioni dell’Unrwa a Gaza, «i palestinesi sono intrappolati nella Striscia senza nessuna speranza di cambiamento. Migliaia di famiglie sono in attesa di aiuti, ma noi — l’Unrwa — non abbiamo più soldi. Se non siamo più in grado di riavviare l’erogazione dei sussi- di, la gente compresa quella che ha lasciato le nostre scuole e trovato soluzioni alternative, sarà costretta a tornare».
Una delle ragioni per la mancata erogazione di fondi da parte dei Paesi donatori, e di Israele di far passare materiali da ricostruzione, è che il cemento potrebbe essere usato da Hamas per i bunker sottoterra dove vivono i suoi leader e per i tunnel, l’acciaio per costruire missili. I leader islamisti sono stati abili dopo la guerra ad annunciare di voler cedere molte responsabilità di governo a Gaza, ma certo non il potere. I loro uomini esercitano ancora il controllo sui tre “valichi” con Israele e l’Egitto. La polizia islamica controlla le città e i miliziani del braccio armato Ezzedin al Qassam sono pronti a uscire dai loro rifugi sottoterra. Anche i giornalisti che entrano a Gaza, sempre di meno per le minacce di rapimento che vengono dai gruppi filo-salafiti, ricevono il benestare all’ingresso da Hamas. Gli islamisti che considerano Hamas troppo moderato guadagnano consensi, la propaganda filo-Is fa proseliti. Sono stati loro a far saltare in aria il Centro Culturale francese. In un mese sono stati fatti esplodere 4 bancomat e nessuno sa chi possa essere stato. Esplodono anche le automobili nelle notti buie di Gaza, quattro in due settimane. La “voce della strada” dice che si tratta di una escalation delle varie fazioni in lotta. Perché in questa lingua di sabbia straziata dalla guerra ci sono almeno altri due conflitti armati: quello tra Hamas e i salafiti che acclamano il Califfato, e quella tra i fedeli — sempre meno — del presidente Abu Mazen e quelli dell’ex delfino di Arafat Mohammed Dahlan che sta cercando di mettere in piedi Fatah 2.0 per far fuori la vecchia guardia.
La Pesca è praticamente ferma, gli agricoltori hanno avuto campi devastati dalle bombe e le fabbriche di Gaza sono state colpite. Come la Pioneer che inscatolava pelati, o la Al-Awda che produceva gelati, patatine e biscotti. Alla Al-Awda — danni per 24 milioni di dollari — il lavoro è parzialmente ripreso ma solo per i biscotti. Potrebbero fare di più se Israele consentisse di far passare dei pezzi di ricambio e nuovi macchinari per sostituire quelli ridotti a rottami. Ma per ora niente. «il gelato dovrà aspettare » dice sconsolato il direttore Manil Hassan.
Gaza è una metafora di tutto ciò che è sbagliato.

“La responsabilità civile non è una punizione più poteri ai magistrati con l’anticorruzione”


LIANA MILELLA
La Repubblica 27 febbraio 2015
Andrea Orlando Il guardasigilli risponde alle toghe e rivendica di averne difeso “l’autonomia nell’interpretazione della legge”
Orlando «deluso» dalle toghe. Orlando che assicura: «Il governo non è contro la magistratura ». Orlando che rimbrotta chi critica la legge «perché non è stato compreso pienamente il meccanismo».
Le toghe sono furibonde contro di lei. Se l’aspettava?
«Francamente no, e mi è dispiaciuto per gli argomenti usati, quel parlare di “volontà punitiva”, anche perché loro conoscono bene l’iter testo. Hanno visto l’intervento del governo per correggere il ddl Buemi al Senato e la legge Comunitaria alla Camera, dove c’erano forme di responsabilità invasive e lesive dell’autonomia e indipendenza della magistratura».
Deluso?
«Non me lo aspettavo, perché il testo è passato al Senato con una larghissima maggioranza, per giunta non “nazarenica”, visto che Fi era critica e M5s a favore. Ho incontrato tutte le componenti dell’Anm, ci hanno segnalato i punti critici, ho speso l’impegno del governo per garantire nella relazione una nota chiarificatrice sul “travisamento del fatto e delle prove”».
Dica la verità, c’era un patto con l'Anm di “tagliandare” il testo in cambio del no allo sciopero?
«Non c’era alcun accordo, ma ho garantito il monitoraggio a tutte le componenti, comprese quelle pro sciopero».
Il monitoraggio non si poteva fare prima?
«E come si faceva? Non sappiamo quanti ricorsi ci saranno, né gli errori contestati, ci sarebbe voluto Nostradamus... Ma faccio io una domanda, perché i magistrati hanno cominciato a gridare solo dopo il voto? All’apertura dell’anno giudiziario hanno parlato di ferie, non certo della responsabilità civile... ».
Forse pensavamo che vi sareste fermati, invece avete tagliato il filtro sui ricorsi strumentali...
«Quel filtro si era trasformato in una muraglia al punto da scoraggiare i ricorsi. Era una barriera insormontabile ».
Coscienza tranquilla?
«Ho difeso il giudice non mero applicatore di sillogismi, ma autonomo interprete della legge».
Ne ha parlato con Mattarella?
«L’ho aggiornato sui passi avanti».
Però Legnini teme l’escalation dei ricorsi...
«Questo timore c’era pure per la Vassalli, ma i ricorsi sono via via scemati».
E se la legge finisce alla Consulta?
«Si pronuncerà come su qualsiasi legge».
Non è incostituzionale togliere il filtro?
«Nel processo civile ci sono gli strumenti per disincentivare le liti temerarie».
Il «travisamento dei fatti e delle prove»: è la frase che allarma le toghe. Lei la minimizza, perché?
«Sono due profili distinti, lo Stato è condannato a pagare quando c’è un dolo, una colpa grave, o un travisamento di fatti e prove. Il giudice è chiamato a rispondere solo quando c’è la negligenza inescusabile. Molti di quelli che commentano legge non hanno colto la differenza. Voglio ricordare che parliamo sempre di fatti macroscopici».
Tutte le toghe non hanno capito?
«Interpretano male il segnale politico».
Sarà un boomerang per Renzi?
«No, chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni tre per due resterà deluso. Chi pensa che si possano rimettere in discussione dei giudicati resterà deluso. Ma valutiamo se è utile creare una corsia preferenziale per i ricorsi palesemente infondati nel civile, un’ipotesi già prevista nella legge Berruti».
E la pagina a pagamento sui giornali per ringraziarvi della legge?
«Il tema si è caricato di una valenza fortemente ideologica. Questa legge equilibrata chiude una guerra ventennale».
A danno dei magistrati.
«Assolutamente no. Il segnale più forte sta nel dar loro poteri più stringenti come l’autoriciclaggio, le norme contro la corruzione, portate avanti con determinazione assoluta».
Anti-corruzione? Ma siamo a caro amico...
«La settimana prossima andrà in aula al Senato e a metà marzo tocca alla prescrizione alla Camera».
Ha finito di litigare con la Guidi sul falso in bilancio?
«Il Mise era preoccupato per una norma che penalizzasse imprese che, per dimensione e struttura, possono commettere errori. Ne terremo conto, ma senza ricorrere alle soglie.
Berlusconi considerava i magistrati dei nemici potenti e faceva leggi contro di loro. Voi li sminuite come una casta di fannulloni che deve pagare quando sbaglia. Non è una delegittimazione più subdola?
«È una lettura forzata. Siamo molto attenti alla vita dei magistrati, affrontiamo i loro problemi, cancellieri compresi. I nuovi strumenti ci saranno, dall’anti- corruzione alla legge sugli ecoreati, alla procura anti-terrorismo. Sono segnali di fiducia verso la magistratura. E comunque io non ho mai detto che lavorano poco, o che il taglio delle ferie risolve i problemi della giustizia. Ma se si chiede al Paese di fare sacrifici l'invito va raccolto, pur riconoscendo la specificità del lavoro dei giudici».
Si farà il tagliando? Il vice ministro Costa dice già di no...
«Ho preso un impegno per il governo, non mio personale. Il Csm si candida a vigilare».
Legnini commissario per la responsabilità civile?
«Il Csm è l’organo giusto».

venerdì 27 febbraio 2015

Palestina, oggi la mozione Il Pd sempre diviso si tenta una mediazione


 La Repubblica 27 febbraio 2015
( a. cuz.)
«Se nella nostra non ci sarà scritto chiaramente “Stato della Palestina” voterò la mozione di Sel». Alle sei di ieri sera, il sentire della minoranza pd — già provato dal braccio di ferro sull’incontro del Nazareno — era un po’ questo. Ma il capogruppo democratico Roberto Speranza ha lavorato a una mediazione insieme al responsabile Esteri del partito Enzo Amendola, e la mozione sul riconoscimento della Palestina che si voterà oggi — dopo una di linea generale sulla politica estera — dovrebbe riuscire a scongiurare ulteriori divisioni.
«È un testo che spinge sulla riapertura del negoziato e sull’idea di due popoli due Stati », spiega chi ci ha lavorato. «Apriamo al riconoscimento anche sulla base di una sollecitazione che è arrivata dal Parlamento europeo il 27 dicembre». La settimana scorsa, prima che la votazione fosse rinviata, 32 deputati del Pd avevano sottoscritto la mozione della socialista Pia Locatelli in polemica con quella considerata troppo morbida del loro partito. Ce n’erano poi una di Sel, una molto dura con Israele del Movimento 5 Stelle, e quelle di visione opposta del centrodestra. Il voto era slittato per la fiducia sul milleproroghe, e nel dibattito era intervenuta anche l’ambasciata di Israele secondo cui il riconoscimento «sarebbe un passo prematuro che non farebbe che allontanare la pace». Ora, Pia Locatelli è diventata la seconda firmataria della mozione Speranza, il che dovrebbe facilitare l’adesione di tutto il Pd e richiamare, forse, anche i voti di Sel. Non sembrano invece intenzionati ad appoggiare il documento gli alleati dell’Ncd, in questo senso più vicini a Forza Italia che con Daniele Capezzone dice: «I negoziati non sono in una fase positiva e le organizzazioni terroristiche hanno tuttora un peso in Palestina. Non si capisce perché il governo dovrebbe compiere atti diretti o indiretti anche simbolici che accelerino il riconoscimento».

L’ira del premier: Pierluigi come Bertinotti ma non ha i voti


GOFFREDO DE MARCHIS
La Repubblica 27 febbraio 2015
La verità, dice Renzi, è che la minoranza del Pd si sta dividendo, i risultati del governo li stanno spiazzando, «stiamo facendo tanto e non se l’aspettavano ». Dunque la diserzione di alcuni dissidenti dalla riunione di oggi, l’offensiva di Pier Luigi Bersani si spiega così: «Non sarà che per tenere insieme un gruppo sempre meno coeso, sempre più spaccato, paga solo l’attacco frontale e violento?». Il premier ha vissuto lo strappo come una reazione isterica dei suoi oppositori. «Se non si fanno riunioni, non va bene. Se siamo collegiali e ascoltiamo non va bene uguale », dice ai collaboratori riuniti nel corridoio davanti alla sua stanza a Palazzo Chigi. L’altra verità di Renzi è che stanno andando in porto molti provvedimenti e i numeri della minoranza per farli fallire non ci sono.
Le critiche dell’ex segretario sono dunque sterili inutili. E’ vero che oggi molti lo seguiranno assentandosi dalle riunioni tematiche del Nazareno. Ma poi in Parlamento? Per far saltare l’Italicum alla Camera i dissidenti avrebbero bisogno di 60 voti. «Non ce li hanno», garantisce il premier. E allora? «Bersani che vuole fare? Trasformarsi nel Bertinotti del 2015? Ma non ha la forza», ripete Renzi in quel corridoio. Il riferimento è alla sfiducia di Rifondazione comunista votata nel 1998 contro Romano Prodi, l’atto di sepoltura dell’Ulivo. E non è un riferimento casuale perché l’ex sindaco è convinto che l’obiettivo non siano tanto le leggi in sé, ma lui e il suo governo. E pensare, è il ragionamento del premier, «che ho convocato una riunione dal titolo idee in libertà. Io sto lì e ascolto per 4 ore. Perché si arrabbiano?».
L’ascolto non significa che l’esecutivo tornerà indietro. Giammai. Il Jobs act, ricorda Renzi, è stato votato dalla direzione. L’Italicum idem. La riforma costituzionale pure e non solo. Ha finito il suo cammino alla Camera e manca solo il voto finale fissato per il 10 marzo. «Lo ha votato anche la minoranza precisando che avrebbe dato il via libera anche nel passaggio conclusivo». Neanche i dissidenti hanno molti margini per fare dietrofront.
Eppoi Renzi ha le prove che tanti, in quel gruppo di ribelli, stiano cominciando a riflettere. «Una parte di loro comincia a credere che la posizione di scontro non abbia alcun senso». Viene negato lo sgarbo ai capigruppo e in particolare a Speranza per l’appuntamento di oggi. «E’ una riunione come tante. Dicono che sono un uomo solo al comando e quando vogliamo discutere scappano. Non capisco, è un atteggiamento inccomprensibile ». Ma forse, è la posizione di Palazzo Chigi, la minoranza sta perdendo le occasioni dello sgambetto al premier e fatica a ritrovare la compattezza delle elezioni di Sergio Mattarella, strattonata da quello che si muove a sinistra del Pd, movimenti ai quali guardano alcuni di loro a cominciare da Pippo Civati. Og- gi, per esempio, Francesco Boccia sarà al Nazareno per «parlare, nei miei 5 minuti, di fisco». Non è detto che questo segnale confermi la tesi della spaccatura, ma Renzi dice ai suoi collaboratori che «siamo alle barzellette, tutto questo fa ridere. Anche perchè molte delle modifiche apportate alla riforma costituzionale e all’Italicum sono state decise da loro. Il punto è che stiamo facendo tanto e non se lo aspettavano ». Ai ribelli verrà a mancare anche l’occasione per denunciare il colpo di mano del governo. «Le opposizioni torneranno in aula e loro fanno l’Aventino proprio in questo momento?». In fondo il dialogo con Beppe Grillo sulla Rai, può diventare una chiave per far tornare il Movimento 5stelle in aula anche il 10 marzo. E la delicata questione di una legge costituzionale votata in un emiciclo semivuoto cadrà davanti alle immagini.
La tregua nel Pd comunque si è rotta. Ricomincia un confronto a tutto campo, così come lo ha descritto Bersani nell’intervista ad Avvenire . Il fattore numerico diventa fondamentale. Se davvero la minoranza non ha le truppe di almeno 60 ribelli non riuscirà ad approfittare della rottura del patto con Berlusconi. Era successo con il voto per la presidenza della Repubblica, con una momentanea unità del Pd. Ma tutto era partito dall’unità dei dissidenti di fronte a certi nomi fatti uscire dal governo. Oggi per rivedere questa compattezza ci si è dati appuntamento alla convention del 21 marzo, un rassemblement di tutta la sinistra contrapposta alle politiche di Renzi. Questo, secondo il premier, spiega l’attacco violento e frontale. Bisogna alzare i toni anche per non farsi scavalcare da Maurizio Landini e quindi essere schiacciati invevitabilmente sulla linea del segretario Pd. Però ci sono passaggi preliminari. E Bersani ha indicato il primo: il voto finale sull’abolizione del Senato. Lì può andare in scena la resa dei conti.

chiacchiere?

Spread sotto quota 100, mille ex precari assunti a Melfi col Jobs Act, via segreto bancario non solo in Svizzera....la volta buona
Matteo Renzi

giovedì 26 febbraio 2015

Capanna montata


Massimo Gramellini
Da qualche tempo Mario Capanna, il giovane dell’altro ieri, va alla radio e in televisione a irridere i giovani di oggi. Avranno una pensione misera a 70 anni? si domanda dall’alto della sua da ex parlamentare, invece più che soddisfacente. Ben gli sta, si risponde da solo, perché senza lotta non si ottiene nulla nella vita e loro non lottano, ma preferiscono vivere nella bambagia di mamma fino a quarant’anni «tanto che bisogna chiamare i carabinieri per buttarli fuori». A parte che preferisco vivere in un Paese che chiama i carabinieri per fare sloggiare un figlio quarantenne anziché per difendersi da chi tira le molotov. Ma a Capanna, come ai tanti ribelli placati della sua età che imputano ai ragazzi del Duemila di non fare la rivoluzione, continua a sfuggire un piccolo particolare. Che nel «loro» Sessantotto, figlio del boom economico, i giovani erano tantissimi. Avevano con sé l’unica forza che conta in democrazia, quella dei numeri. E vivevano in una società dalle prospettive illimitate, dove il futuro era una certezza indiscutibile.
La società che i sessantottini consegnano ai nipoti è decisamente diversa. Con il calo delle nascite e il prolungamento della vita media, i giovani sono diventati una minoranza silenziosa che pesa poco sulle decisioni della politica. E la frantumazione del lavoro, che la generazione di Capanna non ha saputo evitare e in molti casi ha sfruttato, li ha resi incapaci di pensare al plurale e coniugare i verbi al futuro. Prima di fare la morale ai ragazzi di oggi, quelli dell’altro ieri dovrebbero provare a mettersi nei loro panni. E magari chiedere scusa per avere contribuito a creare questo presente. 

mercoledì 25 febbraio 2015

gossip ....25 febbraio

Attilio Caso
Nichi spiega l'episodio misterioso avvenuto in politica estera degli ultimi giorni: "Noi siamo sempre acuti, precisi e capaci di pensiero alto. Noi siamo lontani da ogni dirigismo ultraliberista, che presupponga tecnica abbinata a velocità. Così, aiutando Alexis nella stesura della lettera per l'Unione Europea, abbiamo dato il meglio di noi stessi: Corradino proponeva avverbi di tempo, Lilli citazioni di Landini e Stefano aforismi di D'Alema, Lucia avanzava titoli ad effetto contro renzismi e berlusconismi, Miguel e Luciano gareggiavano nel sottoporre suggerimenti tratti da Aristotele e Gramsci. Ad un certo punto, a lettera finita, ci siamo resi conto di essere in orario: avremmo spedito tutto il 23 febbraio come garantito.
Allora, presi da un impeto di rifiuto delle logiche della dittatura trepercentista e del puntualismo merkelista, ci siamo mossi io e Pippo. Lui ha iniziato a camminare alle spalle di Alexis, elencando i passaggi in cui correggere e inserire punti, virgole e "Affezionatissimi". Io, presa in mano la situazione, ho inserito due citazioni di Marquez e, soprattutto, al fine di mostrare la nostra considerazione riguardo i sacrifici per rispettare le regole europee, fatti dai popoli spagnolo, portoghese e irlandese, ho dichiarato come indispensabile quella del compianto Maestro Fellini, magistralmente declamata da Alberto Sordi e dedicata ai costanti e zelanti: "Lavoratori! Prrrrrr!" Poi abbiamo inviato il messaggio, perché ormai era l'alba di un nuovo giorno: l'obiettivo di protesta per raggiungere il 24 era ormai colto. E così, siamo usciti a rivedere le stelle e a degustare una colazione a base di maritozzi e espressino"

rivoluzionari...

“Ho sottoscritto, insieme ad altri 53 ex consiglieri lombardi, il ricorso al Tar non tanto per la riduzione della pensione, ma soprattutto per un dato basilare: i diritti acquisiti, costituzionalmente garantiti, non possono essere intaccati. Tutti dovrebbero fare il tifo perché il Tar ci dia ragione."
Mario Capanna

Il manifesto di Delrio sul renzismo al governo


GOFFREDO DE MARCHIS
La Repubblica 25 febbraio 2015
Si sarebbe potuto intitolare “Io e Matteo” il libro che Graziano Delrio ha scritto in coincidenza con il primo anno di governo Renzi. Si chiama invece “Cambiando l’Italia. Rinnovare la politica, ritrovare la fiducia” (Marsilio). Ma in queste pagine davvero ci sono solo due personaggi, lo stesso sottosegretario e il premier, tagliando fuori cerchi magici, fedelissimi, dissidenti del Pd e correnti, compresa quella di cui farà parte Delrio appena costituita. Perché l’obiettivo è fissare le priorità del renzismo, offrire la visione politica e strategica dell’azione dell’ex sindaco di Firenze. Dare anche, alla sua avventura, le basi culturali con tante citazioni che vanno da Hannah Arendt a Giorgio La Pira, da David Foster Wallace a Michel Foucault. Alla fine però il termine che definisce meglio questa stagione è sempre quello: cambiamento. «Al nostro Paese — scrive Delrio — manca il coraggio, la voglia di provarci, di fare qualcosa di nuovo e non stare chiusi nelle certezze, che poi sono quelle che determinano privilegi e sono determinate da privilegi».
Delrio è stato il primo compagno di viaggio di Renzi appartenente alla vecchia guardia. Per nove anni sindaco di Reggio Emilia, a lungo presidente dell’Anci, è stato la prova che le parole d’ordine del premier potevano attecchire anche nella rossa Emilia, dominata dall’eredità comunista e fedele alla “ditta” di bersaniana memoria. Parla poco della sua vita privata, il sottosegretario. Giusto qualche accenno. Era un «modesto alpinista», suo padre «faceva il muratore». Poi confessa solo un momento di perdita di controllo. «Ho sempre detto ai miei figli di non avere paura di sbagliare e detesto gli insegnanti che non si applicano per incoraggiare i ragazzi a provare e a sbagliare».
Ma questo libro vuole essere un manifesto, mettere in fila i punti di riferimento del renzismo e dell’azione di governo. Il partito viene dipinto come «un’assemblea permanente disorganizzata», che è il modo per dire aperto, leggero, libero e senza confini precisi come può essere con «una ditta organizzata». Il lavoro è il tema dell’attualità dopo l’approvazione del Jobs Act. Delrio ricorda il volume di La Pira “L’attesa della povera gente” quel sogno della piena occupazione che è in fondo il traguardo utopistico della riforma di oggi. Sembra di capire che gli stia particolarmente a cuore la vicenda dell’Ilva, seguita in prima persona. Della via d’uscita della nazionalizzazione per salvare i posti di lavoro. «Il tempo è scaduto per migliaia di persone e famiglie — disse Renzi in consiglio dei ministri — La fabbrica si salva e basta». Delrio ripensò a La Pira: «Non so, mi sono commosso», confida. E qui si torna a Io e Matteo, quel Matteo che Delrio sul cellulare ha memorizzato in rubrica alla voce Mosè.
Gli altri orizzonti sono la pubblica amministrazione, la scuola e le riforme istituzionali in cui il sottosegretario spiega che ha inciso molto la comune provenienza dall’esperienza municipale. Puntare sulle città nella riforma del titolo V «rimane una scelta di fondo, innanzitutto culturale. Le nostre città, infatti, continuano a essere il luogo dove la cittadinanza non è un documento, ma una realtà vissuta».
Un capitolo è dedicato al Sud, che resta molto lontano sia da Firenze sia da Reggio Emilia. Delrio accompagna Renzi a Scampia, nel maggio 2014. Dice che quel giorno nacque la necessità del decreto Sblocca Italia. Ma c’è un divario enorme da recuperare se sono veri i dati che indicano una capacità di produrre nel Mezzogiorno inferiore di 51 miliardi tra il 2007 e il 2014. Ciò che il governo si propone è seguire il modello della Germania riunificata, l’Est che lentamente si avvicina ai parametri dell’Ovest. Sono più obiettivi che visione, ma c’è il tentativo di «trovare il filo rosso, il senso delle cose». È un punto di partenza.

IL LACCIO DELLA CORTE TEDESCA.


Corriere della Sera 25/02/15
Sabino Cassese
I governi nazionali negoziano in continuazione a Bruxelles. I parlamenti hanno proprie sedi di consultazione a livello europeo. Le burocrazie nazionali si incontrano periodicamente nei numerosi comitati dell’Unione. Le corti nazionali, specialmente quelle di vertice, sono, invece, organismi solitari. Sono guardiane delle costituzioni nazionali e non possono certamente concordare con altre corti le loro decisioni. Ma che cosa succede se si mettono a difendere il proprio backyard , il proprio orticello, come ha notato, criticando una recente ma isolata decisione della Corte costituzionale italiana, Antonio Baldassarre, che quella corte ha presieduto alcuni anni fa? E che cosa accade se una corte come quella costituzionale tedesca si distingue in questo ruolodi difensore dell’interesse nazionale (per esempio, di recente, nel caso dell’Omt, Outright Monetary Transactions, misure non convenzionali della Banca centrale europea)?

Rispondere a questa domanda è importante, perché le corti costituzionali hanno sempre l’ultima parola, perché esse possono tirare la corda e creare spaccature all’interno dei sistemi giuridici nazionali, e perché, se esse vanno in direzioni opposte, finiscono per dare all’Unione Europea un vestito d’Arlecchino.

Semplificando, il filo del discorso che da qualche anno la corte tedesca sta svolgendo è il seguente. Gli Stati nazionali sono i «signori dei trattati europei», come i condomini lo sono di un condominio. L’Unione ha solo i compiti a essa trasferiti dai suoi «padroni», gli Stati.


Nello Stato tedesco, solo il Parlamento può conferire funzioni statali al livello sopranazionale, perché solo esso garantisce il rispetto della volontà popolare e dell’identità nazionale. Ogni passo avanti dell’Unione, ogni suo impegno, deve essere autorizzato dal Parlamento.

Queste motivazioni, svolte con ricchezza di sottili ragionamenti giuridici, producono tre effetti. Annullano le forze endogene di sviluppo dell’Unione, negandone l’esistenza, oppure condizionano tale sviluppo. Mettono al guinzaglio tedesco (e degli altri Paesi che intendano seguire la stessa strada) tutti i passi avanti dell’Unione. Creano uno squilibrio tra Stati più filo-europei e Stati più guardinghi o addirittura restii a operare «cessioni di sovranità».

Altri Paesi sono più filo-europei, e tra questi è l’Italia. Se si esclude la decisione criticata dall’ex presidente della Corte, le corti supreme italiane hanno assunto un atteggiamento più aperto rispetto al diritto europeo e al diritto internazionale. Non si chiedono quali limiti discendono dalla Costituzione nazionale per il diritto europeo, ma, al contrario, quali vincoli europei il diritto e le corti nazionali debbono rispettare.

Neanche noi siamo immuni da difetti. Anche le corti italiane, più orientate ad aprire le porte del diritto nazionale a quello europeo, creano dei problemi. Infatti, il loro atteggiamento fa risaltare la debolezza degli adempimenti comunitari da parte dell’esecutivo. È noto che l’Italia è tanto pronta a dichiarare di volersi adeguare alle direttive e ai regolamenti comunitari, quanto lenta nell’applicarli. Ed è noto che il balletto dei governi rende la nostra presenza a Bruxelles sempre precaria (qualche giorno fa, uno dei più alti funzionari dello Stato italiano ha dichiarato che in cinque anni aveva accompagnato nella capitale europea cinque diversi ministri italiani, mentre quelli dei nostri partner sono rimasti gli stessi).

L’atteggiamento tedesco, per la cura con cui è motivato, per la sua costanza, per il peso che quel Paese ha in Europa, pone, tuttavia, un interrogativo di fondo, che riguarda l’esistenza stessa dell’Unione e la sua essenza. Gli Stati nazionali non hanno conferito all’Unione soltanto compiti che questa deve ordinatamente svolgere come un mero esecutore. Hanno anche sottoscritto un patto con il quale, consentendo l’elezione diretta del Parlamento europeo, hanno permesso lo stabilirsi di un rapporto diretto tra questo e i cittadini di ciascuna nazione. Hanno creato, in altre parole, un motore, hanno stabilito una diversa legittimazione, un potere che può disporre regole eguali per tutti i Paesi. Se ognuno degli Stati europei interpreta in modi diversi i vincoli che derivano dai trattati, allunga o accorcia a suo piacimento il guinzaglio che lega l’Unione agli Stati, non si pongono in dubbio le premesse stesse su cui è fondato il «condominio» europeo?




Sanità per tutti, ma niente riassunzioni Cosa resta (e cosa no) delle promesse.


Corriere della Sera 25/02/15
Andrea Nicastro
La lista delle buone intenzioni greche è piena di idee che Nanni Moretti chiamerebbe di sinistra. Sulla carta il governo di Alexis Tsipras proclama che farà pagare più tasse ai ricchi e attaccherà sia la corruzione della politica sia i monopoli economici che garantiscono rendite ai soliti noti, ma non servizi efficienti o tariffe basse. Allo stesso tempo il quarantenne ca mpione della nuova sinistra-sinistra si ripropone di difendere i disoccupati morosi dagli sfratti, distribuire elettricità gratuita e buoni pasto agli indigenti, ripristinare il diritto alla Sanità pubblica per tutti i cittadini. 

È vero, verissimo, manca dalla letterina approvata dall’ex troika il famoso taglio del debito sovrano che era stato il simbolo della nuova era, come pure l’aumento del salario minimo o delle pensioni. Non c’è neppure la riassunzione di centinaia di migliaia di ex dipendenti statali, la retromarcia sulle privatizzazioni o l’avvio di opere pubbliche capaci di far ripartire, keynesianamente, l’economia. 

Ma, per ora, quel che conta è che sia arrivato il bollino verde per il documento presentato ieri mattina e, a scanso di sorprese nei passaggi parlamentari europei, Atene potrà pagare stipendi, pensioni e interessi ai creditori per altri 4 mesi. La Borsa dell’Acropoli ha festeggiato con un più 10 per cento eppure lo scetticismo dilaga. Christine Lagarde, la capa del Fondo monetario internazionale, è dubbiosa sulla reale volontà degli scravattati di Atene di portare fino in fondo le riforme che hanno promesso in cambio dell’ennesimo prestito miliardario. E Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, non è affatto certo che le misure proposte ieri mattina siano effettivamente migliori o più efficaci di quelle accettate dal governo precedente di centrodestra. Insomma le intenzioni greche possono essere state giudicate sufficienti ieri, ma sono circondate da una cortina di diffidenza che ne fa osservati speciali. Non è difficile capire perché. Tutti gli interventi umanitari su sanità, casa e malnutrizione devono essere a costo zero. Le «istituzioni» non hanno concesso alcuna flessibilità sul deficit per cui Tsipras e i suoi economisti rimpatriati da varie università del mondo oltre a dover riformare alcuni settori impermeabili al cambiamento da decenni, devono anche riuscire in quei miracoli che qualunque governo del mondo insegue da sempre. 

Cominciamo dalle cose semplicemente difficili. Tsipras sostiene che riuscirà ad interrompere la vendita in nero di benzina e sigarette su cui guadagnano da anni industriali e dettaglianti. Dice che riuscirà a fare una spending review nella pubblica amministrazione senza toccare salari e pensioni. I margini di miglioramento ci sono, ma come sappiamo bene noi italiani la zavorra dell’apparato burocratico è difficile da scaricare. Sarà anche complicato scovare i finti invalidi, imporre registratori di cassa contro il salto dell’Iva, vendere a prezzi ragionevoli le frequenze tv, pignorare i beni dei grandi evasori fiscali, punire chi apre un’attività già deciso ad andare in bancarotta e anche convincere le banche a non sfrattare i morosi.

 Ora i miracoli. Alexis Tsipras e il suo anticonformista ministro delle Finanze Yanis Varoufakis dicono che riusciranno a razionalizzare le spese sanitarie (già sforbiciate di quasi il 50% in 4 anni) per poter offrire l’assistenza universale che era stata soppressa. Ma anche varare una legislazione sul lavoro «flessibile e giusta», trovare i soldi per gli aiuti umanitari senza alzare il deficit e, infine, «creare una nuova cultura di correttezza fiscale», per cui ciascuno vorrà contribuire equamente al bene pubblico.

 Pare il sogno di un nuovo homo graecus con una candida anima a sinistra-sinistra. Forse troppo anche per la dirompente coppia Tsipras-Varoufakis.




Camusso-Taddei, scintille a sinistra.


Corriere della Sera 25/02/15
Lorenzo Salvia
Pantaloni rossi lei, maglioncino blu simil-Marchionne lui. C’era una volta la Cgil cinghia di trasmissione del partito di sinistra più grande d’Europa. Stamattina, invece, anche il dress code dice che le trasmissioni sono finite da un pezzo e che piuttosto bisogna marcare la distanza.

Casa del jazz, villa confiscata alla banda della Magliana e trasformata in spazio eventi. Il confronto è fra Susanna Camusso, il segretario generale della Cgil, e Filippo Taddei, il responsabile economia del Pd tra i guru del Jobs act, la riforma del lavoro targata Renzi. Trattandosi di evento era difficile immaginare un lancio migliore: il segretario della Fiom Maurizio Landini ha detto che il sindacato deve pensare a una «coalizione sociale», Camusso ha già risposto che «noi dobbiamo fare il nostro mestiere di rappresentanza dei lavoratori»; Landini rilancia dicendo che la Fiom ha 350 mila iscritti, più del Pd, e dal Pd ribattono che i loro tesserati sono in realtà di più, 366 mila. Poi c’è pure l’ex segretario Pier Luigi Bersani: «Adesso puoi essere licenziato perché sei stato troppo al bagno», dice preparando il terreno per la convention della sinistra Pd di marzo. Mentre la presidente della Camera Laura Boldrini torna sull’uomo solo al comando di cui aveva parlato domenica: «Non credo Renzi se la sia presa» ma «da presidente era mio dovere difendere le commissioni parlamentari». Insomma, la sinistra è davvero una gioiosa macchina da guerra. E qui alla sala del jazz il dibattito è altrettanto frizzante. 

«Il governo non ha nessuna idea dell’orizzonte verso il quale vuole andare ma solo una disperata voglia di propaganda» attacca Camusso che gioca in casa, perché la tavola rotonda è stata organizzata dalla Cgil. «Non si può guardare solo alle riforme del lavoro senza considerare quanto era grave la situazione del Paese. Si può discutere dell’efficacia del nostro intervento, non delle sue intenzioni» replica Taddei nella tana del lupo, con un brusio di dissenso che lo accompagna ad ogni intervento. Due analisi diverse, due ricette opposte. E due mondi lontani anche quando si scende nel tecnico.

Prendete il contratto a tutele crescenti, il cuore del Jobs act , che tra pochi giorni sostituirà di fatto il reintegro da parte del giudice con l’indennizzo economico. Il segretario della Cgil (che lo chiama sempre «a monetizzazione crescente») fa la sua previsione: «Fra tre o quattro mesi il governo dirà che ha avuto un successo straordinario. Solo che gran parte di quel lavoro non sarà aggiuntivo ma sostitutivo, lavoratori anche a tempo indeterminato che saranno spostati su questo contratto accettando tutele più basse». Taddei ribatte: «Ma come si fa a dire questo? Oggi un precario viene mandato via in 30 giorni, senza indennizzo subito e senza ammortizzatori sociali dopo. Con questo contratto avrà indennizzo e ammortizzatori». Il brusio sale di tono. «Segretario» lo chiama lei, reggendogli il microfono. «Non sono segretario, faccio parte della segreteria del partito», risponde lui. E la Camusso lo incalza ancora: «Nel sindacato tutti quelli che sono in segreteria sono segretari. Siamo democratici, non gerarchici». In sala qualcuno dice che sembrano Sandra e Raimondo in Casa Vianello. E per fortuna siamo ai titoli di coda.

Mattarella chiede alle toghe di fare la loro parte: no a protagonisti e burocrati.


Corriere della Sera del 25/02/15
Marzio Breda
Chissà, forse pensa alla questione morale, riesplosa con gli scandali degli ultimi mesi. E di sicuro riflette anche sulla continua sovraesposizione mediatica di certe toghe, che rivendicano un improprio spirito missionario, o sugli alibi di altri colleghi che magari giustificano decisioni incomprensibili con il richiamo a una cavillosa e ottusa applicazione della legge (come se la legge non incidesse sull’esistenza concreta delle persone). Fatto sta che Sergio Mattarella, in risposta alle emergenze nel campo della giustizia, segnala alcune cose precise. Spiegando che, nonostante il coltivato cinismo e la pretesa assuefazione al peggio degli italiani, «il bisogno di legalità è fortemente avvertito nel Paese». E aggiungendo che, per rispondere con efficacia a quest’attesa, serve un impegno su tanti fronti, a partire da «un recupero di efficienza» della macchina giudiziaria.

Spetta soprattutto ai magistrati assicurarla, per il presidente della Repubblica. Con sforzi nuovi su almeno un paio di versanti. «Da un lato, competenza, mediante l’approfondimento e il confronto sugli orientamenti normativi e giurisprudenziali; dall’altro, profonda coscienza del ruolo e dell’etica della professione». Questi i «pilastri» su cui, «attraverso la formazione permanente, si regge la capacità del magistrato di svolgere il compito affidatogli dalla Costituzione…». Un compito che, puntualizza, non dev’essere «né di protagonista assoluto nel processo né di burocratico amministratore di giustizia». Poi, per farsi capire meglio, aggiunge che proprio quei «due atteggiamenti snaturano la fisionomia della funzione esercitata».

Un rischio che fu anticipato pure da Piero Calamandrei, di cui cita un avvertimento: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima».

È la prima uscita pubblica fuori Roma del capo dello Stato, altre ne farà lunedì e martedì tra Berlino e Bruxelles. Stavolta entra nel campo più delicato e infido della nostra vita pubblica e, dovendo inaugurare l’anno accademico della Scuola superiore della magistratura di Scandicci, si rivolge alle toghe. E, mentre il Parlamento è al rush finale per la legge sulla responsabilità dei giudici, non è poco quel che intanto raccomanda loro. Dunque, dopo aver ricordato l’importanza del progetto di formazione che ha sede qui e che è guidato da Valerio Onida, indica nella sfera di una «comune cultura giuridica europea» l’orizzonte al quale puntare. Ora, se si vuole stare decentemente in Europa anche per come amministriamo la giustizia, oltre che sulle «riforme legislative» in corso e sulle «strategie organizzative», è sulla «preparazione professionale» che bisogna lavorare.

Dice Mattarella: «Al magistrato si richiede una costante tensione culturale, che trova sì fondamento in studi e aggiornamenti continui, ma si nutre anche di una profonda consapevolezza morale della terzietà della funzione giurisdizionale, basata sui principi dell’autonomia e dell’imparzialità». Una sfida impegnativa, lo sa bene. Tanto più impegnativa «in un contesto di crescenti attese da parte dei cittadini, sempre più esigenti verso un servizio essenziale come la giustizia, chiamata a definire l’equilibrio tra diritti e doveri applicando le regole dettate dalla legge». Così, secondo lui «il controllo di legalità, per essere giusto ed efficace, impone percorsi formativi idonei a sviluppare nei magistrati la capacità di comprendere le dinamiche in corso nel mondo in cui operano, ponendo massima attenzione agli attori in gioco». Ed è proprio «l’alto livello di preparazione a rappresentare la struttura portante su cui si regge l’indipendenza della magistratura».

Non basta. «L’ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione». La tempestività, ecco l’eterno problema di ogni italiano che entri in un’aula giudiziaria. Tocca alle toghe assicurarla, quando esercitano i loro poteri «in nome del popolo».




martedì 24 febbraio 2015

SE I PARTITI SONO FUORILEGGE


PIERO IGNAZI
La Repubblica 24 febbraio 2015
I partiti sono fuorilegge? Si sono adeguati alle norme sulla loro organizzazione e sulle loro attività che sono state introdotte proprio un anno fa? In questi giorni sarà possibile verificarlo. Infatti, il 21 febbraio scadevano i termini per la presentazione degli statuti delle formazioni politiche alla “Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici”, l’organismo istituito con la legge del febbraio 2014 sull’abolizione del finanziamento pubblico diretto e sulla trasparenza e democraticità dei partiti. Ai cinque alti magistrati della Commissione la legge affida il compito di vagliare, oltre i conti, le regole interne e i comportamenti dei partiti, al fine di consentire loro di accedere ai benefici previsti dalle nuove regole sul finanziamento. L’aspetto curioso è che la revisione della normativa sui contributi statali ai partiti, richiesta a gran voce dal clima antipolitico ed anti-casta degli ultimi anni, è stata utilizzata per introdurre anche alcune misure sulle modalità organizzative dei partiti: invece di varare una vera e propria legge organica sui partiti politici, come hanno ormai tutti i Paesi europei sulla scia del battistrada tedesco, che la adottò nel 1967, si è presa la scorciatoia della revisione del finanziamento pubblico.
Comunque, buoni ultimi siamo arrivati anche noi a definire qualche linea guida. Ma quanto sono incisive — e quanta probabilità hanno di essere rispettate — le prescrizioni di questa legge? Se guardiamo alle questioni legate al finanziamento, ancora una volta, come di regola in terra italica, troviamo controlli e sanzioni molto carenti. Quelli che vengono indicati hanno tutta l’aria di essere dei pannicelli caldi: sono infatti previste solo lievi ammende, attraverso la decurtazione dei contributi volontari. Nulla di paragonabile alla possibilità di comminare una super multa come quella affibbiata a Nicolas Sarkozy dalla analoga commissione francese (la CNCCFP), che lo ha giudicato colpevole di avere inserito nelle spese presidenziali, durante la campagna elettorale del 2012, un’iniziativa di carattere politico. L’ex presidente francese ha così pagato 363.615 euro, una somma che oggi farebbe traballare i conti delle formazioni politiche italiane. Per ricordare lo stato delle finanze dei nostri partiti, Forza Italia sta decimando i suoi funzionari dopo che già aveva messo in cassa integrazione 43 dipendenti del Pdl. E può procedere tranquillamente al licenziamento perché gode del paracadute garantito dalla nuova normativa sul finanziamento pubblico, che mette a disposizione per questa eventualità 15 milioni per il 2014, 8,5 per il 2015 e 11,25 per il 2016. Poi vedremo quanto la sostituzione del finanziamento pubblico con la contribuzione volontaria, sia nella forma della donazione (detassata al 26 per cento) che della detrazione Irpef del 2 per mille, darà i frutti previsti. Pensando all’esito fallimentare di un meccanismo simile, introdotto e rapidamente abbandonato alla fine degli anni Novanta, c’è da temere il peggio. In sintesi: questa legge con una mano toglie (progressivo azzeramento dei contributi diretti), ma con l’altra dà (cassa integrazione per i dipendenti, e generose agevolazioni fiscali per i contributi volontari). Dunque, seppure in forma più mascherata, e limitata, i cittadini continueranno a sostenere le attività dei partiti. Cosa, a parere di chi scrive, sacrosanta, benché la ventata iconoclasta dell’antipolitica abbia costretto il legislatore a questi contorcimenti.
Se le norme del finanziamento lasciano perplessi sia in merito al meccanismo delle entrate che all’efficacia dei controlli, lo scetticismo aumenta analizzando le norme che dovrebbero garantire trasparenza e democraticità. La legge, pur nella sua schematicità, indica alcune regole che i partiti devono rispettare se vogliono essere inseriti nel nuovo Registro ufficiale ed accedere ai benefici finanziari connessi. Il problema è che, finora, i partiti non si sono curati molto di quanto precisato dalla normativa da loro stessi approvata. Ad esempio, le indicazioni che obbligano ad indicare nei loro statuti “la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali” (art. 3b), “i criteri con i quali è promossa la presenza delle minoranze, ove presenti, negli organismi collegiali non esecutivi” (art. 3e), e le modalità di selezione delle candidature per tutte le assemblee rappresentative e le cariche monocratiche (art. 3l) sembrano essere rimaste lettera morta. Uno sguardo agli statuti disponibili mostra infatti grande vaghezza e imprecisione su questi aspetti. Vedremo se i partiti correranno presto ai ripari e adotteranno regole precise e cogenti. Altrimenti saranno da considerarsi “fuorilegge”