martedì 25 novembre 2014

Elezioni: Una vittoria con molte spine per Renzi.


Intervista a Giorgio Tonini
di Pierluigi Mele
Ieri ci sono svolte, in Calabria ed Emilia-Romagna, le elezioni per eleggere i Presidenti di queste due regioni. Il risultato più forte , atteso ma non in quelle dimensioni, è stato l’altissima percentuale di astensione (clamorosa quella dell’Emilia Romagna). A questo si deve aggiungere il boom leghista in terra emiliana. Il Premier Renzi si è detto soddisfatto del risultato, 2-0 per il PD. In realtà questo voto ci consegna una Italia piena di sfiducia nei confronti della politica e della sua capacità di risoluzione dei problemi. Un dato, questo, che non può non preoccupare il Premier. Una vittoria, quindi, con molte spine. Di tutto questo parliamo con il Senatore Giorgio Tonini, vicepresidente del gruppo PD a Palazzo Madama e membro della Segreteria Nazionale del partito.
Senatore Tonini, partiamo dalle elezioni: ha vinto il PD 2-0.  Ma è una vittoria segnata da un dato pesantissimo: l’astensione record in Emilia-Romagna, dove il PD ha perso ben 700 mila voti rispetto alle Europee. Certamente hanno influito, in Emilia-Romagna, le inchieste della Magistratura. Le chiedo: non le sembra che l’astensionismo sia dovuto anche alla politica del governo Renzi sul fronte del lavoro?
Sarà meglio aspettare analisi più approfondite per dirlo, ma è  assai probabile che il voto emiliano abbia registrato una difficoltà nel rapporto tra il governo Renzi e il Pd da una parte, e una parte del mondo del lavoro, in particolare la componente operaia, dall’altra. Credo anche che sia del tutto evidente come non abbia giovato alla partecipazione al voto, di una parte significativa dell’elettorato di centrosinistra, l’asprezza dello scontro tra Pd e Cgil, che ha indubbiamente disorientato molti elettori. E tuttavia, il voto dell’Emilia, con il Pd sopra il 40 per cento e la sinistra alternativa ai minimi storici, ci dice che siamo lontani anni luce da un esito di tipo greco, con la sinistra radicale che, spinta dalla crisi, soppianta, nel consenso popolare, quella riformista. È probabile semmai che del clima di scontro sociale abbia finito per avvantaggiarsi la Lega di Salvini. Più in generale, il dato essenziale è che una vasta area di elettorato di centrosinistra si è messa in stand-by, rifugiandosi nel non voto e non votando altre formazioni politiche: né a sinistra, come ho già detto, ma neppure a destra e neanche più verso Cinque Stelle, che pare aver perso gran parte della sua capacità di attrazione. Per quanto riguarda il governo Renzi e il Pd nazionale, il dato complessivo non è dunque negativo: nel momento di massima difficoltà, quando delle riforme si paga tutto il prezzo dell’impopolarità, mentre il dividendo in termini di miglioramento percepibile è ancora lontano, la crisi di consenso si traduce in non voto, ma senza che sia premiato alcun competitore. Questa situazione rende del tutto aperta la possibilità, per il Pd, di recuperare queste fasce di elettorato, una volta che le riforme avranno dispiegato i loro effetti positivi. Detto tutto questo, resto della opinione che le motivazioni principali del non voto alle elezioni “regionali” dell’Emilia, abbiano a che fare con questioni di carattere, per l’appunto, “regionale”, peraltro tutt’altro che nuove: la crisi del modello emiliano e in particolare la crisi di credibilità delle classi dirigenti di quella come di altre regioni “rosse”. Ma questo è tutto un altro discorso, che richiederebbe ben altro approfondimento.
Veniamo a Matteo Renzi. Insomma Senatore Tonini, sul Jobs Act il Presidente del Consiglio non ha fatto una “politica comunicativa” positiva anzi tutta centrata sulla polemica antisindacale, o meglio anti Cgil. Lei mi dirà: “ma dall’altra parte si continua a guardare a Renzi come un usurpatore”. Lei che viene, per storia personale, dalla Cisl cosa consiglia al Presidente del Consiglio? Non trova giusto il richiamo di Marc Lazar, politologo francese, che ieri su “Repubblica” scriveva “che una operazione di rottura con i sostenitori tradizionali della sinistra è una operazione alto rischio, che presenta vantaggi indiscutibili, ma ha anche i suoi costi. Per la sinistra, e per tutta la politica e quindi per la  democrazia”?
Non so se la rottura con la sinistra conservatrice presenti dei vantaggi. Certamente ha dei costi, del tutto evidenti. Purtroppo, in certi passaggi storici, è inevitabile. Lo è stato in Italia, al tempo del referendum voluto dal Pci contro l’accordo sulla scala mobile (a proposito della mia estrazione cislina), firmato da Craxi con Carniti e Benvenuto. Lo è stato per Felipe Gonzalez, per Tony Blair, per Gerhard Schröder… Per una parte, per fortuna minoritaria, della sinistra, tutti questi nomi appartengono ad altrettanti traditori dei valori della sinistra e degli interessi dei lavoratori, nella più benevola delle versioni, a personalità ingenuamente subalterne al pensiero unico dominante. Per noi riformisti, sono leader che hanno fatto il loro dovere di far vivere in forme sempre nuove i valori antichi della sinistra, anche assumendosi il rischio di sbagliare, ma consentendo alla storia della sinistra di avere un futuro. Uno dei principali meriti di Renzi è quello di aver portato il Pd, superando ogni ambiguità, a far parte a pieno titolo della grande famiglia dei partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti e democratici europei, fino a farne, per certi versi, il partito guida, quello guardato oggi con più attenzione e più interesse. Allo stesso modo, la principale contraddizione della minoranza interna al Pd, quella oggi più sensibile alle posizioni della Cgil e della Fiom, è quella di non avere alcuna sponda possibile in Europa, se non nella sinistra radicale “alla Tzipras”, comunque fuori dall’area del Pse. Questa contraddizione ci dice quanto arretrata sia la cultura politica del sindacato italiano, in particolare dalle parti della Cgil: una cultura politica che, al contrario del Pd, fondato sulla unità politica dei riformisti, ancora si attarda nella coltivazione del mito dell’unità della sinistra, che finisce per assegnare un ruolo egemonico alle posizioni radicali alla Landini. E così, venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’Italia si ritrova ad avere ancora un sindacato diviso, modellato sulla base della geopolitica del 1947, quando la guerra fredda entrò a gamba tesa nella politica italiana. Insomma, si possono sempre moderare i toni, ma le ragioni della rottura tra Pd e Cgil non sono banali, caratteriali. Sono profonde. E tutte politiche.
Ritorniamo alle Elezioni: Il dato significativo è Lega che si mangia Forza Italia. Una Lega estremista  alleata dei neofascisti “Casa Pound” e “Forza Nuova”, antiimmigrati, anti euro. Insomma una  Lega dal colore “nero” che strumentalizza la  disperazione sociale. Non le sembra anche questo un monito per Renzi? Lui dice di essere di “Sinistra”, di avere a cuore la “povera gente”, eppure non si ha, nell’opinione pubblica, questa percezione. Per qualcuno è un “travestimento”. Qual è la sua opinione?
Non so se Salvini si sia mangiato Forza Italia, o se si sia limitato a tenere meglio i suoi voti. Aspettiamo per dirlo l’analisi dei flussi elettorali. Certo, lo scontro a sinistra tra il Pd e la Cgil sul Jobs Act ha tolto molto spazio ad un centrodestra moderato, favorendo l’emergere, come in molti altri paesi europei, di un’area trasversale destra-sinistra, accomunata da una medesima spinta antiriformista e antieuropea, ma di fatto egemonizzata dalla destra, che ovviamente ha molte meno remore della sinistra a cavalcare i sentimenti nazionalistici e xenofobi, prodotti dalla crisi economica e sociale. Sul piano strettamente elettorale, per il Pd questa situazione presenta l’indubbio vantaggio di consegnargli una posizione centrale e di farlo coincidere con l’area della governabilità. Da quella posizione il Pd può giocarsi le sue carte nella competizione con le forze antisistema: prima tra tutte quella di essere l’unica forza che non si limita a cavalcare la protesta, con esiti comunque effimeri, come insegna la parabola di Grillo, ma cerca risposte solide e durature, nell’alveo della sinistra riformista. Altro è il discorso di sistema: la mancanza di alternative moderate al Pd può riproporre in Italia, come del resto sta accadendo in molti altri paesi europei, una condizione di democrazia bloccata. Anche per questo abbiamo bisogno di regole elettorali e istituzionali che favoriscano la competizione e la contendibilità elettorale del governo.
Ultima domanda: Alcuni della minoranza del PD non voteranno il Jobs Act, scissione in arrivo?
Non me lo auguro, ma un po’ lo temo. Quando si accumulano ragioni profonde di dissenso, ragioni politiche e perfino ideologiche, prima o poi qualcosa succede. E una parte della nostra minoranza interna ormai vive nel Pd da “separato in casa” e vive ogni cambiamento come un tradimento. Una cosa comunque è certa: non sarà la maggioranza riformista a espellere nessuno. Nel nostro partito a vocazione maggioritaria c’è posto per tutti.


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