Intervista a Giorgio Tonini
di Pierluigi Mele
Ieri ci sono svolte, in Calabria ed
Emilia-Romagna, le elezioni per eleggere i Presidenti di queste due
regioni. Il risultato più forte , atteso ma non in quelle
dimensioni, è stato l’altissima percentuale di astensione
(clamorosa quella dell’Emilia Romagna). A questo si deve
aggiungere il boom leghista in terra emiliana. Il Premier Renzi si è
detto soddisfatto del risultato, 2-0 per il PD. In realtà questo
voto ci consegna una Italia piena di sfiducia nei confronti della
politica e della sua capacità di risoluzione dei problemi. Un dato,
questo, che non può non preoccupare il Premier. Una vittoria,
quindi, con molte spine. Di tutto questo parliamo con il Senatore
Giorgio Tonini, vicepresidente del gruppo PD a Palazzo Madama e
membro della Segreteria Nazionale del partito.
Senatore Tonini, partiamo dalle
elezioni: ha vinto il PD 2-0. Ma è una vittoria segnata da un
dato pesantissimo: l’astensione record in Emilia-Romagna, dove il
PD ha perso ben 700 mila voti rispetto alle Europee. Certamente
hanno influito, in Emilia-Romagna, le inchieste della Magistratura.
Le chiedo: non le sembra che l’astensionismo sia dovuto anche alla
politica del governo Renzi sul fronte del lavoro?
Sarà meglio aspettare analisi più
approfondite per dirlo, ma è assai probabile che il voto
emiliano abbia registrato una difficoltà nel rapporto tra il
governo Renzi e il Pd da una parte, e una parte del mondo del
lavoro, in particolare la componente operaia, dall’altra. Credo
anche che sia del tutto evidente come non abbia giovato alla
partecipazione al voto, di una parte significativa dell’elettorato
di centrosinistra, l’asprezza dello scontro tra Pd e Cgil, che ha
indubbiamente disorientato molti elettori. E tuttavia, il voto
dell’Emilia, con il Pd sopra il 40 per cento e la sinistra
alternativa ai minimi storici, ci dice che siamo lontani anni luce
da un esito di tipo greco, con la sinistra radicale che, spinta
dalla crisi, soppianta, nel consenso popolare, quella riformista. È
probabile semmai che del clima di scontro sociale abbia finito per
avvantaggiarsi la Lega di Salvini. Più in generale, il dato
essenziale è che una vasta area di elettorato di centrosinistra si
è messa in stand-by, rifugiandosi nel non voto e non votando altre
formazioni politiche: né a sinistra, come ho già detto, ma neppure
a destra e neanche più verso Cinque Stelle, che pare aver perso
gran parte della sua capacità di attrazione. Per quanto riguarda il
governo Renzi e il Pd nazionale, il dato complessivo non è dunque
negativo: nel momento di massima difficoltà, quando delle riforme
si paga tutto il prezzo dell’impopolarità, mentre il dividendo in
termini di miglioramento percepibile è ancora lontano, la crisi di
consenso si traduce in non voto, ma senza che sia premiato alcun
competitore. Questa situazione rende del tutto aperta la
possibilità, per il Pd, di recuperare queste fasce di elettorato,
una volta che le riforme avranno dispiegato i loro effetti positivi.
Detto tutto questo, resto della opinione che le motivazioni
principali del non voto alle elezioni “regionali” dell’Emilia,
abbiano a che fare con questioni di carattere, per l’appunto,
“regionale”, peraltro tutt’altro che nuove: la crisi del
modello emiliano e in particolare la crisi di credibilità delle
classi dirigenti di quella come di altre regioni “rosse”. Ma
questo è tutto un altro discorso, che richiederebbe ben altro
approfondimento.
Veniamo a Matteo Renzi. Insomma
Senatore Tonini, sul Jobs Act il Presidente del Consiglio non ha
fatto una “politica comunicativa” positiva anzi tutta centrata
sulla polemica antisindacale, o meglio anti Cgil. Lei mi dirà: “ma
dall’altra parte si continua a guardare a Renzi come un
usurpatore”. Lei che viene, per storia personale, dalla Cisl cosa
consiglia al Presidente del Consiglio? Non trova giusto il richiamo
di Marc Lazar, politologo francese, che ieri su “Repubblica”
scriveva “che una operazione di rottura con i sostenitori
tradizionali della sinistra è una operazione alto rischio, che
presenta vantaggi indiscutibili, ma ha anche i suoi costi. Per la
sinistra, e per tutta la politica e quindi per la democrazia”?
Non so se la rottura con la sinistra
conservatrice presenti dei vantaggi. Certamente ha dei costi, del
tutto evidenti. Purtroppo, in certi passaggi storici, è
inevitabile. Lo è stato in Italia, al tempo del referendum voluto
dal Pci contro l’accordo sulla scala mobile (a proposito della mia
estrazione cislina), firmato da Craxi con Carniti e Benvenuto. Lo è
stato per Felipe Gonzalez, per Tony Blair, per Gerhard Schröder…
Per una parte, per fortuna minoritaria, della sinistra, tutti questi
nomi appartengono ad altrettanti traditori dei valori della sinistra
e degli interessi dei lavoratori, nella più benevola delle
versioni, a personalità ingenuamente subalterne al pensiero unico
dominante. Per noi riformisti, sono leader che hanno fatto il loro
dovere di far vivere in forme sempre nuove i valori antichi della
sinistra, anche assumendosi il rischio di sbagliare, ma consentendo
alla storia della sinistra di avere un futuro. Uno dei principali
meriti di Renzi è quello di aver portato il Pd, superando ogni
ambiguità, a far parte a pieno titolo della grande famiglia dei
partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti e democratici
europei, fino a farne, per certi versi, il partito guida, quello
guardato oggi con più attenzione e più interesse. Allo stesso
modo, la principale contraddizione della minoranza interna al Pd,
quella oggi più sensibile alle posizioni della Cgil e della Fiom, è
quella di non avere alcuna sponda possibile in Europa, se non nella
sinistra radicale “alla Tzipras”, comunque fuori dall’area del
Pse. Questa contraddizione ci dice quanto arretrata sia la cultura
politica del sindacato italiano, in particolare dalle parti della
Cgil: una cultura politica che, al contrario del Pd, fondato sulla
unità politica dei riformisti, ancora si attarda nella coltivazione
del mito dell’unità della sinistra, che finisce per assegnare un
ruolo egemonico alle posizioni radicali alla Landini. E così,
venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’Italia si
ritrova ad avere ancora un sindacato diviso, modellato sulla base
della geopolitica del 1947, quando la guerra fredda entrò a gamba
tesa nella politica italiana. Insomma, si possono sempre moderare i
toni, ma le ragioni della rottura tra Pd e Cgil non sono banali,
caratteriali. Sono profonde. E tutte politiche.
Ritorniamo alle Elezioni: Il dato
significativo è Lega che si mangia Forza Italia. Una Lega
estremista alleata dei neofascisti “Casa Pound” e “Forza
Nuova”, antiimmigrati, anti euro. Insomma una Lega dal
colore “nero” che strumentalizza la disperazione sociale.
Non le sembra anche questo un monito per Renzi? Lui dice di essere
di “Sinistra”, di avere a cuore la “povera gente”, eppure
non si ha, nell’opinione pubblica, questa percezione. Per qualcuno
è un “travestimento”. Qual è la sua opinione?
Non so se Salvini si sia mangiato
Forza Italia, o se si sia limitato a tenere meglio i suoi voti.
Aspettiamo per dirlo l’analisi dei flussi elettorali. Certo, lo
scontro a sinistra tra il Pd e la Cgil sul Jobs Act ha tolto molto
spazio ad un centrodestra moderato, favorendo l’emergere, come in
molti altri paesi europei, di un’area trasversale destra-sinistra,
accomunata da una medesima spinta antiriformista e antieuropea, ma
di fatto egemonizzata dalla destra, che ovviamente ha molte meno
remore della sinistra a cavalcare i sentimenti nazionalistici e
xenofobi, prodotti dalla crisi economica e sociale. Sul piano
strettamente elettorale, per il Pd questa situazione presenta
l’indubbio vantaggio di consegnargli una posizione centrale e di
farlo coincidere con l’area della governabilità. Da quella
posizione il Pd può giocarsi le sue carte nella competizione con le
forze antisistema: prima tra tutte quella di essere l’unica forza
che non si limita a cavalcare la protesta, con esiti comunque
effimeri, come insegna la parabola di Grillo, ma cerca risposte
solide e durature, nell’alveo della sinistra riformista. Altro è
il discorso di sistema: la mancanza di alternative moderate al Pd
può riproporre in Italia, come del resto sta accadendo in molti
altri paesi europei, una condizione di democrazia bloccata. Anche
per questo abbiamo bisogno di regole elettorali e istituzionali che
favoriscano la competizione e la contendibilità elettorale del
governo.
Ultima domanda: Alcuni della minoranza
del PD non voteranno il Jobs Act, scissione in arrivo?
Non me lo auguro, ma un po’ lo temo.
Quando si accumulano ragioni profonde di dissenso, ragioni politiche
e perfino ideologiche, prima o poi qualcosa succede. E una parte
della nostra minoranza interna ormai vive nel Pd da “separato in
casa” e vive ogni cambiamento come un tradimento. Una cosa
comunque è certa: non sarà la maggioranza riformista a espellere
nessuno. Nel nostro partito a vocazione maggioritaria c’è posto
per tutti.
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