giovedì 31 marzo 2016

Scomodare la Resistenza contro la riforma Boschi fa torto alla Resistenza


Fabrizio Rondolino
L'Unità 31 marzo 2016
Al fatto Carlo Smuraglia bolla la riforma del Senato come contraria ai valori della Costituzione.
Fischia il vento, urla la bufera: “Oggi come ieri, bisogna sempre restare vigili sulla nostra democrazia”. Parola del presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia in una intervista al Fatto. Giusto, giustissimo. Perché si possa vigilare con efficacia, tuttavia, occorre avere un’idea anche vaga dell’argomento, del tema in discussione, del pericolo alle porte: altrimenti si rischia di fare il gioco dell’avversario.
Scomodare la Resistenza, l’antifascismo, i partigiani per criticare la riforma del Senato è prima di tutto, un insulto alla Resistenza, all’antifascismo, ai partigiani: e colpisce che un tale insulto venga proprio da chi, pro tempore, dovrebbe rappresentarne e tutelarne l’eredità culturale e politica.
Smuraglia si sente addirittura “in trincea”, come “nel ’53 contro la legge truffa” e “nel ’60 quando decisero di fare un governo con i fascisti”. Ma la trincea dev’essere talmente profonda da impedirgli di vedere che cosa c’è fuori.
Con la riforma Boschi, sostiene Smuraglia, “si consolida un sistema di potere che non tiene conto che noi abbiamo una Costituzione repubblicana, democratica e antifascista”. Dunque, se le parole hanno un senso, la riforma Boschi modifica la Costituzione in senso monarchico, antidemocratico e fascista.
Ma le parole di Smuraglia un senso non riescono a darselo, e con l’avanzare dell’intervista cresce anche la confusione. “Prendendo alcuni modelli che in Europa già esistono – spiega – si poteva superare il bicameralismo perfetto in una settimana”. Bum! Però, aggiunge nella riga successiva, “non si può andare di corsa”. Dunque non si può fare una riforma in meno di una settimana? O il percorso previsto dall’articolo 138 (della Costituzione, non dello statuto del Pnf) è per Smuraglia troppo veloce? Insomma, due anni sono troppo pochi ma una settimana è sufficiente?
Smuraglia conclude con due clamorosi svarioni: prima incolpando l’Italicum di avere, come ogni altra legge elettorale al mondo, un premio di maggioranza (ma l’Italicum, caro Smuraglia, non fa parte della riforma Boschi sottoposta a referendum), e poi sostenendo l’illegittimità dell’attuale Parlamento e la “mancanza di rispetto” per la Consulta (proprio la Consulta, bocciando il Porcellum, ha ribadito esplicitamente la piena legittimità delle Camere elette nel 2013).
Insomma, ad un esame non vogliamo dire di diritto costituzionale, ma di educazione civica alla scuola media, Smuraglia sarebbe sonoramente bocciato. Ma questo è un problema suo. Gli chiediamo però, sommessamente, di non trascinare con sé la memoria e i valori della Resistenza.

mercoledì 30 marzo 2016

Serve una guida politica al nuovo individualismo fragile ma creativo


di Aldo Schiavone 
Corriere della Sera 30 marzo 2016

L’Italia è il Paese dell’Occidente sul quale la rivoluzione del lavoro ha avuto l’impatto più travolgente. Dietro la maschera del populismo ci sono cambiamenti che vanno capiti per affrontare al meglio le sfide del futuro
 
Si fa presto a dire «populismo». Nella tradizione culturale italiana, fino a qualche tempo fa, questa era una parola marginale, usata assai poco. Sembrava venire da altri mondi, ed evocava immagini vaghe e sfocate: lontani movimenti rivoluzionari russi, masse sudamericane magnetizzate dal peronismo.
Oggi, soprattutto da noi (ma non solo, per la verità: basta dare uno sguardo al libro curato da Daniele Albertazzi e Duncan McDonnel Tewenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy) quell’etichetta la si adopera ormai per spiegare tutto, o quasi, quel che avviene nella nostra politica: prima per Berlusconi, e poi per Salvini, e Grillo, e Renzi stesso infine; e non solo per dar conto di singole vicende e personalità, ma per descrivere il nostro costume politico nel suo insieme, compreso quell’immedicabile tratto di perenne nervosismo, insieme frivolo e febbrile, che sempre lo accompagna.

In realtà, questo ricorrere così inflazionato — come una specie di chiave universale per entrare ovunque — nasconde, credo, una mancanza grave. Un vero e proprio vuoto di conoscenza e di interpretazione di cosa sia diventata, almeno dagli anni Novanta in poi, la società italiana: le dinamiche della sua composizione; i mutamenti che la hanno attraversata come un turbine; i punti in cui ha maggiormente ceduto la sua vecchia ossatura (quella «di classe», per intenderci); i contesti in cui mordono di più le nuove diseguaglianze; quali siano i suoi caratteri finora imprevedibili — abitudini, comportamenti, pratiche di convivenza — che stanno cominciando a prendere corpo e forma; dove e come si producano i suoi vissuti emotivi, e si condensino le sue convinzioni. Non sappiamo più quasi niente. Abbiamo messo i sondaggi — un diluvio di sondaggi — al posto delle analisi: ma non sono la stessa cosa. E la vecchia cultura politica (quella della sinistra, ma anche in buona parte quella democratico-liberale) dove non sa, o non capisce, dice: «populismo», e si mette tranquilla — come se avesse finito, quando non ha nemmeno iniziato.
L’Italia è il Paese dell’Occidente sul quale la rivoluzione del lavoro — che è l’autentico mutamento del nostro tempo; tutto il resto viene dopo — ha avuto l’impatto maggiore e più travolgente. Abbiamo intrecciato le fragilità storiche — anche culturali — di una industrializzazione tardiva (e talvolta incompiuta), con le altre, appena acquisite, frutto di una deindustrializzazione precoce e non regolata, indotta solo dall’esterno, e da incontrollabili compatibilità di mercato.
Un intero mondo è finito in pochi anni: quello della borghesia delle imprese radicate sul territorio, e delle professioni intellettuali dominate dalla cultura umanistica; con di fronte una classe operaia matura e consapevole, uscita dal sistema di fabbrica classico. Il cambiamento ha avuto conseguenze incalcolabili (e invece gravemente sottovalutate) sulla percezione di sé e del proprio personale destino per milioni di italiani, di ogni generazione: dai pensionati cui veniva d’improvviso cancellato il proprio passato, agli studenti, senza più il futuro cui li avevano preparati i loro genitori.
Come immaginare che tutto ciò non avrebbe avuto effetti enormi sul piano dei comportamenti politici? Che si trattava di ben altro che della sola fine del Pci e della Dc? Era un modo complessivo di pensare la politica, e prima ancora la vita stessa — un sistema totale di pensieri e di riferimenti — che era saltato, perché erano irrimediabilmente compromesse le sue basi materiali e sociali. Non è stato solo un problema di «fine delle ideologie» (come è stato tante volte ripetuto): a scomparire era un’intera architettura sociale, e con essa una maniera di costruire e di rappresentare il rapporto di ciascuno con la propria esistenza. Il lavoro del terzo millennio — ad alta intensità tecnologica e con una richiesta continua di innovazione — non generava più legami collettivi (né di classe, né d’altro tipo), e non era più un veicolo di socializzazione di massa: e questo modificava in radice tratti e contenuti della democrazia e della rappresentanza, e la qualità stessa delle assemblee elettive. Frantumava e atomizzava rispetto al passato, e dove prima c’erano interessi generali e visioni del mondo, c’era ora un pulviscolo di singolarità che chiedevano, ognuna, riconoscimento e visibilità, e un rapporto diretto (almeno mediatico) con i leader. Per dirla con un lessico che ha avuto molta fortuna, una società «liquida» non poteva che avere una rappresentanza politica altrettanto «liquida». È una regola cui non si sfugge.
Ed è proprio la novità dirompente di questo fenomeno, che si nasconde dietro il dilagare di quel che chiamiamo populismo: una politica che, non trovando altri punti su cui far presa, insegue il moltiplicarsi di soggetti desocializzati (mi si passi l’espressione), prigionieri del loro particolare (da cui non sanno come uscire), che non si riconoscono più in nessuna delle mediazioni tradizionali — partiti, sindacati e quant’altro — senza autentica esperienza di vita collettiva, con un rapporto comunque problematico e inesplorato con le proprie competenze e la propria occupazione (quando l’hanno), alla ricerca di una nuova misura fra tempo di vita e tempo di lavoro, ma carichi (inevitabilmente) di desideri, di bisogni, di aspettative.
Siamo passati, insomma, dall’individualismo strutturato e progettuale — e però rigido e tendenzialmente ripetitivo — della nostra prima modernità, all’individualismo sradicato e fragile — ma flessibile e creativo — che riempie il nostro tempo. Dargli una forma politica non regressiva — in grado di esprimere il suo potenziale di innovazione e di vitalità — è la grande sfida che ci aspetta. Ed è una sfida di idee, di saperi, di progetti. Per guidare il cambiamento, bisogna prima pensarlo.

martedì 29 marzo 2016

“Scoperto” incontro fra il premier, Nardella, Lotti e Carrai


Fabrizio Rondolino
L'Unità 29 marzo 2016
Lo scoop del Fatto stile Watergate: il 5 marzo Renzi è stato a Firenze.
Ci sono notizie che non ti aspetteresti mai di leggere, segreti che non penseresti mai di poter conoscere, misteri che mai e poi mai crederesti di vedere un giorno svelati. E invece, grazie al Fatto, a volte l’impossibile diventa reale, l’impensabile si manifesta ai nostri occhi increduli: per esempio, Matteo Renzi è stato a Firenze.
Sì, proprio lui, il presidente del Consiglio: il 5 marzo scorso, anziché a Dubai o a Salsomaggiore Terme, è andato proprio nel capoluogo toscano. Pazzesco. Avete mai visto Renzi a Firenze? Noi neanche una volta.
E mica c’è andato da solo: no, scrive il Fatto in un crescendo di rivelazioni che al Watergate fanno un baffo, a Firenze “c’era anche Luca Lotti”.
Lotti, quello che lavora con Renzi a palazzo Chigi? Proprio lui. Volete davvero dire quel Lotti che a Firenze ha la moglie e il figlio? Sì, quel Lotti lì. Non ci posso credere. Ma come gli sarà venuto in mente al Lotti di andare a Firenze, e per di più con il Renzi? Qui gatta ci cova.
Ma le emozioni non sono ancora finite. Questi due figuri – il Renzi e il Lotti – non soltanto sono andati a Firenze, ma hanno addirittura incontrato il sindaco. Cosa? State scherzando. No, il Fatto non scherza mai: Renzi e Lotti sono veramente andati a Firenze a hanno davvero incontrato il sindaco. Non quello di Napoli, no no, hanno incontrato proprio Nardella. Chissà come hanno fatto a riconoscerlo: forse Nardella si sarà messo la fascia tricolore.
Attenzione, però, mica finisce qui: a Firenze c’era anche un quarto uomo. Marco Carrai, presidente degli Aeroporti di Firenze, nato a Firenze e residente a Firenze, quel maledetto 5 marzo era anche lui a Firenze. Con Renzi, Lotti e Nardella. E i servizi segreti non se ne sono accorti. Roba da interrogazione parlamentare.
“Sistema Renzi, vertice occulto per gli affari di Carrai, Lotti & C.” spara il Fatto in prima pagina, orgoglioso dello scoop (che in realtà è scopiazzato dalle pagine fiorentine del Corriere) e felice come un bimbo all’entrata di una pasticceria.
E di che hanno discusso i quattro criminali nel “vertice occulto”? Leggiamo: “il dossier più rilevante riguarda l’allungamento della pista dell’aeroporto”. Quello di Fiumicino? No, proprio l’aeroporto di Firenze. Sono proprio senza vergogna.
Eh sì, è accaduto quel che mai ci si sarebbe aspettati: il sindaco di Firenze e il presidente degli Aeroporti di Firenze hanno discusso con il presidente del Consiglio e il segretario del Cipe l’allungamento della pista dell’aeroporto di Firenze. E l’hanno fatto, pensate un po’, a Firenze.
Inaudito. Nessuno finora aveva osato tanto. E nessun giornale finora aveva sfondato con tanta irruenza la barriera del ridicolo.

domenica 27 marzo 2016

Le verità nascoste


Walter Veltroni
L'Unità 27 marzo 2016
La crisi della normalità è l’anticamera della crisi di sistema. Convivere con la paura è molto difficile
Forse gli egiziani non conoscono la nostra storia. Nel nostro passato recente ci sono il “cedimento strutturale” dell’aereo caduto nel cielo di Ustica, c’è il ballerino Pietro Valpreda trasformato in uno stragista, c’è il volantino scritto dai criminali della banda della Magliana che, durante il rapimento Moro, depistò le indagini il giorno in cui fu ritrovato il covo in via Gradoli.
Dunque , ammaestrati dalla dura esperienza vissuta, non possiamo credere neanche un momento ad una storia come quella che , sul cadavere di cinque persone e oltraggiando persino la memoria di Giulio Regeni è stata confezionata per mettere una pietra sopra a una vicenda tenebrosa e inquietante. Proprio per l’attenzione con la quale la comunità internazionale guarda all’Egitto di oggi non possiamo tollerare di non sapere la verità sulla morte di un nostro cittadino e , ancor meno, possiamo accettare di essere beffati da storie incredibili, presumibilmente inventate a tavolino. Il governo italiano difenda, come sta facendo, la memoria di Giulio Regeni e accompagni lo sforzo competente ed esperto degli investigatori italiani e della Procura di Roma per venire a capo di un episodio grave e orrendo di tortura e morte. Sono sincero: fanno fatica a venire in superficie le parole che possano spiegare ciò che è successo, ciò che sta succedendo.
In queste ore, dopo la tragedia di Bruxelles, le televisioni, i social, i giornali, le radio sono state inondate di parole. Le solite, quelle che abbiamo udito dopo l’undici settembre, quindici anni orsono. E dopo la serie infinita di attentati e di morti che ha attraversato questo tempo lungo del nostro vivere. Non ne faccio colpa a nessuno. Anche se il silenzio, la meditazione, la ricerca spesso sono preferibili al rumore di parole che sembrano bolle d’aria. Tutti si improvvisano esperti di terrorismo o di politica estera. Anche chi confonde Daesh con il Dash e chi non saprebbe indicare dove è Avezzano, non Raqqa.
Certe volte il dolore e lo stupore hanno la meglio sulla ragione e spingono la nostra mente e la nostra coscienza a cercare risposte facili, emotive. Ho visto, in questi giorni anche le persone più miti che, sentendo il pianto dei bambini o le storie delle persone straziate da delinquenti senza umanità, tendono a reagire usando parole, concetti, propositi di soluzione che assomigliano più a un desiderio di vendetta che alla ricerca di una razionale soluzione. I terroristi stanno portando all’ esasperazione l’opinione pubblica. Lo fanno con crudele determinazione, sparando sulla folla, come si dice che Salah avrebbe fatto se non fosse stato arrestato. Lo fanno mettendo bombe che uccidono mamme e bambini che vogliono prendere un aereo o spostarsi con la metropolitana, giovani che sono accorsi entusiasti per ascoltare un concerto o gruppi di amici che sono in un ristorante. I terroristi vogliono dirci , molto semplicemente, che nessuno è al riparo.
Ci siamo passati, noi italiani, con lo stragismo dei gruppi terroristi che per venti anni e più ha colpito treni, banche, piazze, stazioni. La normalità, per questi barbari, è il nemico. La crisi della normalità è l’anticamera delle crisi di sistema. Convivere con la paura. È molto difficile. Perché bisogna sottrarsi al rischio principale che la paura porta con sé. Le risposte emotive. Dei governi e delle opinioni pubbliche. Bisogna essere , in queste circostanze, statisti e cittadini, nel senso pieno del termine. Capire che sarà una lotta lunga e che avremo bisogno delle persone, delle nazioni, dei governi che troppo sbrigativamente oggi potremmo ignorare . Che da soli non ce la faremo, né all’interno né all’esterno. Dobbiamo mostrare la forza? Certo, se essa è guidata da un disegno strategico, da un sistema di alleanze, come accadde quando fummo liberati dai regimi che avevano prodotto la guerra, quella guerra allora invocata e a festeggiata da masse plaudenti, non dimentichiamolo mai. La forza, talvolta necessaria, può anche essere stupida e controproducente. Se non è guidata dalla politica ma dalla emotività.
Il mondo che trema per l’attacco terroristico è lo stesso che sta conoscendo due grandi novità, epocali : l ’accordo con l’Iran e il disgelo tra Usa e Cuba. Due pagine di storia di assoluto rilievo. Più che l’ uso delle armi, più volte invocato in tutti e due i casi, è stata l’intelligenza di un’altra forza, quella della politica, a evitare il peggio. Perché la politica può avere una forza che schiaccia le armi e le cinture esplosive. Le tante cose da fare sono davanti ai nostri occhi : la regolazione del flusso dei migranti secondo principi di sicurezza e civiltà, l’integrazione per evitare che disagio sociale e marginalità forniscano corpi pronti a immolarsi , l’umanizzazione delle periferie, la responsabilizzazione civile di tutto il corpo sociale, il contrasto senza esitazioni di tutti i focolai di radicalizzazione estrema. Cose grandi ma terribilmente urgenti. Che vanno progettate e realizzate in un quadro di chiarezza anche culturale. Tutte le equiparazioni dell’Occidente , comunque territorio di libertà e democrazia, agli assassini del Bataclan o delle metropolitane è gravissimo e pericoloso.
E poi ci sono cose che non si capisce perché non siano state fatte ancora. Come la creazione di un sistema unico di intelligence europea. Sia deciso , subito. Perché alla prossima occasione non si dica , per l ‘ennesima volta, che andrebbe fatto. Ho detto che non si capisce perché ancora qualcosa di tanto evidente e necessario non sia ancora realtà. In effetti si comprende benissimo. E torniamo alla politica. Sono gli stati nazionali che non accettano una dimensione continentale nelle politica di sicurezza interna ed esterna, in quelle di difesa. Il neo nazionalismo , o i retaggi del vecchio, ci rende , come europei, incapaci di fronteggiare non solo le opportunità della globalizzazione ma persino i rischi più terribili. Per non fare Europa siamo tutti esposti ai rischi di un terrorismo capace, esso sì, di essere sovranazionale.
Penso, personalmente, che a un certo punto bisognerà tirare una linea e verificare chi, tra i paesi membri, crede davvero nella magnifica e realistica utopia di una Europa unita e vuole fare sul serio. Meglio un’ Europa vera, capace di politiche incisive e comuni, piuttosto che un gigante fermo che , essendo immobile, si espone al rischio costante dello sgretolamento. Gli Stati Uniti d’Europa, altrimenti sarà il caos. Per questo ci sono due temi di grande politica. Nel video dell’Isis compare , indicato come nemico , il volto di Donald Trump. Non bisogna essere dei geni per capire il messaggio che è nascosto in questa scelta. L’Isis sa benissimo che se il mondo occidentale sceglierà la guerra frontale non contro il terrorismo ma contro l’Islam allora per l’estremismo diventerà facile accrescere seguito e consenso. Per quanto sia difficile non bisogna smettere di operare perché la maggior parte del mondo islamico si schieri , senza ambiguità, contro la violenza. Il secondo tema è, di nuovo, l’ Europa. Se accentuerà la sua divisione e frammentazione , se smarrirà , come potrebbe accadere con le assurde posizioni che proliferano ad Est o con il referendum inglese, persino la sua stessa ragione di esistere, allora gli assassini del Bataclan e di Zaventem brinderanno. Vogliono un occidente chiuso e diviso lacerato da nazionalismi , integralismi e popululismi che schieri contro di sé le centinaia di milioni di islamici e vogliono una Europa ridotta ad una vecchia e arruginita insegna. Dobbiamo fare il contrario, se vogliamo sopravvivere. Di questo si tratta.

venerdì 25 marzo 2016

Buona Pasqua



Io vorrei donare una cosa al Signore
ma non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell'usignolo,
quell'usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all'alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all'alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: «pace!»
e poi cospargerò la terra
d'acqua benedetta in direzione
dei quattro punti dell'universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell'altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco.
(Per il mattino di Pasqua)

David Maria Turoldo



martedì 22 marzo 2016

colpiti al cuore...


ventiduemarzoduemilasedici


David Sassoli
23 morti, per ora. Bombe all'aeroporto, l'aeroporto che frequento tutte le settimane. Ordigni alle fermate degli autobus. Eccola, questa oggi è Bruxelles, la città dove in gran parte vivo. Un commosso, fraterno pensiero alle vittime di questa barbarie. Non lo dico da vicepresidente del Parlamento europeo. Lo dico da essere umano: noi tireremo dritto. Nulla può intimidire libertà e democrazia. Nulla ci fermerà: stroncheremo il terrore di questi pazzi fanatici che infangano e bestemmiano il nome di Dio.

venerdì 18 marzo 2016

l'Europa e il cortile


Pierluigi Castagnetti
18 marzo 2016
Anche il CE di oggi provoca una gran pena. Se solo riflettessimo sul fatto che un ex capo del governo e commissario europeo solo ieri ha dichiarato che non si sente di giurare sul fatto che fra tre anni ci sarà ancora l'Unione Europea; se solo pensassimo che fra meno di tre mesi forse la GB sarà uscita dall'Unione; se solo valutassimo l'opposta posizione odierna fra presidente della Commissione e presidente del Consiglio europeo a proposito della possibilità di ingresso della Turchia nell'Unione, se solo...La verità è che l'Europa è in panne e sono venuti al pettine nodi enormi che non abbiamo mai voluto guardare in faccia: una moneta comune senza governo comune; un mercato interno unico senza armonizzazione fiscale; una libertà di circolazione delle persone senza protezione delle frontiere comuni (cioè quelle dell'Unione); una ambizione diplomatica nel mondo senza un esercito comune. L'Italia mi pare che tra mille difficoltà stia ponendo questi problemi. Meriterebbe di poterlo fare contando su una coesione nazionale degna di una grande missione storica. Altro che palle e chiacchiere da cortile!

giovedì 17 marzo 2016

vaiiiiiii....


Roma....la fissione dell'atomo

Marino, nuovo sgarbo a Fassina e salta la riunione di stasera. Verso due liste di sinistra?
E' l’ipotesi più probabile.

europa oggi...

Madrid. Attorno, in piazza, tutti ridono. Sono tifosi, tifosi olandesi, lanciano monetine alle mendicanti, come fossero noccioline allo zoo. Tutti ridono. Poi a una donna mendicante dicono: donna, vuoi i soldi? allora fa' le flessioni. E tutti ridono, sempre di più. Succede in Europa, nel 2016. E io mi vergogno.

mercoledì 16 marzo 2016

Travaglio prova la scalata in edicola usando (male) il referendum


Fabrizio Rondolino
L'Unità 16 marzo 2016
Basterà la precoce campagna per il No alla riforma costituzionale a far risalire le vendite del Fatto?
Il Fatto s’è lanciato con lodevole anticipo – il testo dev’essere ancora approvato in via definitiva, il referendum confermativo non è ancora stato fissato – nell’eroica battaglia contro la riforma che snellisce e modernizza il nostro polveroso ordinamento istituzionale. E oggi ci informa che ben 100mila clic hanno omaggiato l’appello online che vanta fra i primi firmatari costituzionalisti del calibro di Monica Guerritore, Gustavo Zagrebelsky, Fiorella Mannoia, Stefano Rodotà e Daniela Poggi.
E’ possibile che dietro tanto anticipato attivismo si nascondi il desiderio di risalire la china delle vendite: se è così, non possiamo che fare a Marco Travaglio i nostri migliori auguri. E’ diventato direttore il 3 febbraio 2015, e i risultati non si possono negare: a gennaio dell’anno scorso, il mese prima che diventasse direttore, il Fatto vendeva ogni giorno 64.759 copie; quest’anno, sempre a gennaio, ne ha vendute 39.134: circa 25mila in meno, con un calo del 39,6% in dodici mesi.
Perché la gloriosa campagna per il No alle riforme abbia successo, se non nelle urne quantomeno nelle edicole, occorre però che l’ardito Travaglio ripassi un po’ di dottrina e magari si faccia spiegare, da Zagrebelsky o dalla Mannoia, che cos’è la Costituzione: altrimenti rischia, come gli è accaduto nell’editoriale di oggi, di inciampare in qualche castroneria.
Scrive infatti Travaglio che “la Parte Prima [della Costituzione] non solo viene toccata: viene stravolta”. Infatti, ragiona il brillante giurista, all’articolo 1 si dice che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: ma “tra queste forme e questi limiti” non c’è l’Italicum, ergo l’art. 1 è stato “stravolto”.
Lo so, ci vuole pazienza, ma proviamoci lo stesso: dunque, caro Travaglio, per prima cosa occorre sapere che la legge elettorale è una legge ordinaria, non fa parte della riforma Boschi e non sarà sottoposta a referendum confermativo. Bisogna poi sapere che il popolo esercita la sovranità di cui dispone attraverso il voto, che è disciplinato da una legge, che è approvata dal Parlamento: per capirci, non è la redazione del Fatto che stabilisce come si deve votare.
Infine, se proprio vogliamo parlare di Italicum, può anche essere utile sapere che per conquistare la maggioranza dei seggi alla Camera non basta, come scrive Travaglio, il 25% dei voti: bisogna superare almeno il 40% o, in caso di ballottaggio, il 50%. E questo, siamo pronti a scommettere, lo sa persino Zagrebelsky.

Il Futuro del PD. Intervista a Giorgio Tonini

Pierluigi Mele
16 marzo 2016 dal Blog Confini
Il Partito Democratico sta vivendo un periodo di forte turbolenza. Non passa giorno che non si assista a polemiche personali e politiche tra i diversi leader del partito. Polemiche che investono anche il livello periferico del PD (vedi, da ultimo, il caso della Spezia con la vicenda delle dimissioni di tre assessori della giunta Federici).  Lunedì prossimo, a Roma, si svolgerà una Direzione Nazionale molto delicata per gli equilibri interni del partito. Insomma un partito lacerato. Quale futuro per il PD? Ne parliamo, in questa intervista, con il Senatore Giorgio Tonini, Presidente della 5ª Commissione Bilancio del Senato.
Senatore Tonini, la scorsa settimana il suo partito ha vissuto momenti drammatici (le primarie a Roma e Napoli, l’immancabile discussione sulle regolarità, a Napoli poi con episodi gravi di mercanteggiamento). Senza contare l’intervista di D’Alema al Corriere, le risposte stizzite di Orfini e Serrachiani. Insomma un partito per niente pacificato. Il PD ha la capacità di continuare a farsi del male. Insomma Renzi non può continuare a dare la colpa alla minoranza, se poi non fa nulla per pacificare il partito. Un poco di autocritica non guasterebbe…Qual è la sua opinione Senatore?
La mia opinione è che in molti nei giorni scorsi si siano lasciati prendere dal gusto della polemica e  siano andati molto al di sopra delle righe, avvicinandosi pericolosamente ad una soglia oltre la quale, come ha opportunamente rilevato Walter Veltroni, si rischia di mettere in discussione l’unica alternativa credibile al populismo dilagante in Italia e in Europa. Al netto di questi eccessi, ci sono state le primarie con le quali il Pd, unico partito in Italia, ha selezionato i suoi candidati sindaci. Le primarie sono un metodo democratico per definire le candidature, come tale assolutamente imperfetto, ma comunque di gran lunga migliore del metodo monarchico tanto caro ai nostri avversari, si tratti di Berlusconi o della premiata ditta Grillo, Casaleggio e associati. Quanto a Renzi, come ogni leader ha pregi e difetti. Renzi, come è noto, non è un pacificatore, né un mediatore. È uno che gioca sempre all’attacco e forse proprio a questo deve la sua popolarità. Non si può avere tutto dalla vita…
Veniamo ai problemi politici. Nell’intervista al Corriere Massimo D’Alema aveva affermato che il Partito della Nazione c’è già. Frutto delle scelte di Renzi, arrivando a sostenere che Renzi assomiglia più a Berlusconi che all’Ulivo. Insomma cosa è rimasto dell’Ulivo nel PD renziano?
Quella del cosiddetto Partito della Nazione è una vicenda surreale. L’espressione, di chiara derivazione togliattiana, fu coniata da Alfredo Reichlin, non da Renzi. E stava a indicare la vocazione del Pd a porsi come asse centrale del governo del Paese, più ancora: della sua stessa tenuta democratica. Ora è divenuta un’espressione negativa, il sinonimo di partito pigliatutto, senza valori e senza principi, tutto intento a sostituire la diaspora di consensi di sinistra con il reclutamento di spezzoni di centrodestra. Una caricatura priva di qualunque significativo riscontro nella realtà. La verità è che noi siamo costretti, dai rapporti di forza in Senato, a governare sulla base di un’alleanza innaturale con il centrodestra. Con il centrodestra intero, con Berlusconi alla guida, all’inizio della legislatura, quando si dovette dare vita al governo Letta-Alfano, il governo dei due vice. E poi, dopo i rovesciamenti di tavoli da parte di Berlusconi, con aree resesi autonome di quello che era stato il PdL: il nuovo centrodestra di Alfano dopo la rottura segnata dal voto sulla decadenza di Berlusconi da senatore, a cui si è aggiunto il sostegno esterno del gruppo di Verdini dopo la rottura del patto del Nazareno, a seguito dell’elezione di Mattarella. Da questo punto di vista Renzi sta seguendo la stessa linea seguita da Bersani: una linea tracciata da Napolitano con l’obiettivo di salvare la legislatura e anzi di utilizzarla come occasione per fare finalmente quelle riforme istituzionali da troppo tempo rinviate. Proprio le riforme sono tuttavia la prova che Renzi non intende fare dell’accordo parlamentare col centrodestra l’orizzonte strategico del Pd: se collaboriamo oggi è per porre le condizioni istituzionali per non essere più costretti a farlo domani. Il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, previsto dall’Italicum, sta lì a dimostrare che l’alleanza col centrodestra è una necessità del presente e non una scelta per il futuro.
Come risponde alle critiche, da parte di Fassina e Civati, che parlano di “mutazione genetica” del PD?
Che il PD non sta subendo nessuna mutazione genetica, ma è in perfetta continuità con l’Ulivo, che nelle parole del suo fondatore, Romano Prodi, era la casa comune dei riformisti italiani. Semmai fu proprio l’Ulivo a chiedere una mutazione genetica alla sinistra italiana, che rendesse possibile il suo scioglimento in un progetto nuovo e più grande, prima la coalizione e poi il partito dell’Ulivo, il Partito democratico. Un partito che doveva e deve essere capace di ristrutturare i rapporti di forza nel Paese, conquistando al riformismo una parte significativa dei consensi che dopo la crisi dei partiti della Prima Repubblica erano andati a destra. A cominciare da quelli degli operai: alle elezioni politiche del 2013, il Pd di Bersani si piazzò terzo nelle preferenze delle tute blu, dopo Grillo e Berlusconi. Alle europee, con Renzi, è tornato al primo posto. Mi piacerebbe mantenerlo questo primato… Semmai, in contraddizione con l’Ulivo sono quelli che pensano e agiscono in nome di un progetto autonomo della sinistra.
La minoranza PD non vuole la scissione e questo è sicuramente un gesto di buona volontà, se vuole anche di realismo politico. Perché non farsi carico di alcune proposte ragionevoli che vengono da quella parte. Invece è un continuo “dialogare tra sordi”. Esempio concreto: per la minoranza PD occorre puntare sulla ricostruzione del Centrosinistra. Non c’è il rischio che alle amministrative corra un partito sempre più centrista. Come pensate di vincerle se “terremotate” l’area di riferimento? Non vede questo rischio?
Non è stato il Pd a “terremotare” il centrosinistra di governo in regioni e città. Abbiamo confermato il sostegno ai sindaci di sinistra con cui abbiamo governato in questi anni: basti pensare a Zedda a Cagliari, o alle pressioni di Renzi su Pisapia perché si ricandidasse a Milano. Non è avvenuto il contrario: basti pensare alla candidatura di Airaudo contro Fassino a Torino, o alla fuga solitaria di Fassina a Roma. Tutte mosse disperate, che possono solo far perdere il centrosinistra.
Tra le critiche che vengono mosse a Renzi c’è quella di aver  lasciato il PD in stato di abbandono. In effetti la vita interna al PD langue, il tesseramento ha avuto un forte calo, e tanto altro. Il doppio incarico si è rivelato un fallimento. Un segretario di partito dovrebbe avere a cuore il destino della sua comunità politica. Lei è ancora convinto del doppio incarico?
Si, il doppio incarico, ossia il principio secondo il quale il premier è il leader del primo partito del Paese è una regola base della moderna democrazia parlamentare. Del resto è così in tutta Europa. E in tutte le grandi democrazie europee, il leader che vince le elezioni concentra tutte le energie sue personali e del partito che guida nello sforzo di governare il Paese. E trascura un po’ il partito… Il Pd ha problemi, ma non è un partito in crisi. Il tesseramento è in declino da molti anni, perché è una modalità di partecipazione sempre meno avvertita come attuale dai cittadini. Non a caso il Pd ha importato ìn Italia le primarie, una modalità anch’essa non priva di rischi e problemi, ma che rappresenta un grande elemento di vitalità democratica del Pd. E poi il 2 per mille: mezzo milione di cittadini-contribuenti hanno firmato per dare una piccola quota delle loro tasse al nostro partito… Il principale problema del Pd è il ricambio generazionale, nei territori più ancora che a livello nazionale. La generazione che, tra luci e ombre, vittorie e sconfitte, ha guidato il centrosinistra nella lunga transizione italiana dal 1989 ad oggi, la generazione alla quale io stesso appartengo, ha in gran parte fatto il suo tempo, a Roma come in tutto il Paese. Ma non sempre è facile rimpiazzarla. Non tutti sono fuoriclasse come Matteo Renzi o Maria Elena Boschi. E formare una nuova classe dirigente non è un lavoro che si improvvisa. Ma il Pd lo sta facendo. Come dice Renzi, il Pd è la somma delle primarie e della formazione. Nessun altro partito in Italia può dire altrettanto.
Una parola, infine, sul governo. La battaglia contro le politiche di austerità a livello europeo è certamente un punto di vanto per Matteo Renzi. Quali saranno le prossime sfide per il governo?
Sono le sfide che ha dinanzi l’Italia. Diventare più moderna, più forte, più competitiva e più giusta: a cominciare dai suoi apparati pubblici, dal Parlamento al più piccolo dei comuni. E farlo nel pieno di tre grandi crisi internazionali: la guerra civile che sta dilaniando il mondo arabo-islamico, dal cuore dell’Asia fino a quello dell’Africa, passando per il Mediterraneo; la nuova crisi fredda tra Occidente e Russia; fino alla crisi dell’Europa, incapace di uscire dalla trappola delle 28 sovranità nazionali.

martedì 15 marzo 2016

Parisi: sto con Renzi, D'Alema ha soffocato l'Ulivo


L'Avvenire 15 marzo 2016
Sfidiamo Arturo Parisi con una domanda secca: ha ragione Matteo Renzi quando dice che D’Alema ha distrutto l’Ulivo? 
Per qualche secondo l’ex ministro ci guarda in silenzio. Poi ripete due parole: «Povero D’Alema». Una pausa leggera precede la spiegazione che già prende forma dietro quelle due prime parole venate di amara ironia: «Povero D’Alema costretto a tentare di rovesciare su Renzi quella che resta la sua principale indimenticabile responsabilità. Aver soffocato lo spirito dell’Ulivo». 
Parisi pesca nella memoria e l’atto accusa contro l’ex premier diessino prende forma parola dopo parola: «Diciotto anni non bastano a dimenticare che fu D’Alema a dire 'si sciolga l’Ulivo'...». Ancora una pausa leggera come se il professore volesse imprimere nuova forza alle sue parole: «... Era il 1998 e la morte dell’Ulivo era la precondizione che D’Alema condivise con Cossiga per poter varare il suo governo con la comune illusione di tornare prima dal centrosinistra al centro trattino sinistra e poi alla ricostruzione della tradizionale divisione tra la vecchia sinistra e il vecchio centro». 
Sfidiamo ancora l’ex ministro della Difesa che dell’Ulivo fu inventore e regista: allora non si meraviglia della dura reazione di Renzi? 
«No, nessuna meraviglia. D’Alema se l’è proprio cercata». 
Professore perché questo scontro sull’Ulivo?
Perché nell’immaginario collettivo l’Ulivo resta un’esperienza positiva da rivendicare e da contendersi. 
E anche da riproporre? Anche da attualizzare?
Renzi è figlio dell’Ulivo. La generazione che guida, quella dei nati dopo il 1975, è figlia dell’Ulivo. È la democrazia maggioritaria e bipolare la cultura politica nella quale sono nati. È il movimento per le riforme dei primi anni ’90 il clima nel quale sono cresciuti. Fu per l’Ulivo il primo voto che nel ’96 i più si trovarono ad esprimere. Ecco, questi sono i figli che abbiamo messo al mondo.
Renzi è anche figlio delle primarie...
Esatto, anche questo mi pare fuori discussione. Basta ripassarsi la storia di Renzi e considerare il ricambio della rappresentanza politica per avere un quadro chiaro: senza primarie la nuova generazione avrebbe segnato il passo davanti alla porta dei notabili e avrebbe subìto le decisioni dei capibastone.
Eppure dentro il Pd Renzi sembra circondato più da seguaci che da gente capace di contendergli la leadership...
È vero. Ma voglio fare una previsione: nel partito sono destinati a crescere quelli che, nonostante tutto, alzeranno la mano senza chiedere il permesso. Proprio facendo propria la 'lezione' di Renzi.
Torniamo a D’Alema... Lei lo racconta privato del suo progetto futuro e schiacciato sulle sue azioni passate
È così. Lo vedo costretto ad assistere alla realizzazione, grazie a mani a lui ostili e lontane, di quello che era stato il suo disegno politico: una sinistra che dilaga verso il centro rovesciando le sue politiche tradizionali e allargando le alleanze politiche con in pugno quella bandiera del socialismo europeo della quale credeva di essersi impadronito personalmente in esclusiva. Dall’altra inchiodato allo storico fallimento della sua pretesa di affidare la guida di questo processo non a quell’idea più grande e più nuova che fu chiamata Ulivo, ma ad un soggetto come il suo Pci-Pds-Ds, troppo vecchio per potersi intestare il futuro e troppo piccolo per poter contenere nelle sue mura non dico tutto il centrosinistra ma neanche la sola Sinistra.
Perché Bersani e la minoranza si sono schierati al fianco dell’ex premier?
Perché al suo fianco si sentono oggettivamente schierati. Ma come negare che mentre attorno a Renzi si è costituita una maggioranza nella quale diverse storie si sono mescolate in modo nuovo lo stesso non è accaduto per la minoranza a lui opposta? E come non riconoscere nella comune storia partitica dell’area guidata da Bersani e Speranza una delle cause principali che impediscono alla loro proposta di rivolgersi a tutto il partito, e quindi alla minoranza di aspirare a diventare maggioranza, e alla opposizione di farsi alternativa? È questo un ritardo del quale paga le conseguenze tutto il partito.
Ma che cosa può succedere ora nel Pd?
La frammentazione è sotto gli occhi di tutti. Frammentazione tra quelli che restano e quelli che escono. Frammentazione tra le diverse destinazioni di quelli già usciti. Ma dopo l’approvazione dell’Italicum che premia la lista vincente non vedo altra strada che aprire una competizione credibile dentro il partito. Fuori non c’è spazio che per la testimonianza e la nostalgia.
Ma a chi tocca la prima mossa?
Il cambiamento è più nelle mani della opposizione che di Renzi. Invece di chiedere a Renzi un congresso ridotto ad una semplice conta con l’esito scontato, credo che sia il momento di aprire un Congresso vero a partire da un confronto e da una sfida. Il 2017 è dietro l’angolo. Se qualcuno ha una proposta alternativa per l’Italia e non solo per il Pd, per tutto il Pd e non solo per una piccola area residuale, è il momento di alzare la mano e di cominciare a girare l’Italia per illustrarla. È la democrazia. A chi mi dice che la leadership di Renzi non è contendibile rispondo che chi dice così mi vuol solo dire che non intende contenderla. Guai se Renzi fosse lasciato da solo.
Era questo che voleva dire quando paventava il rischio di una disgregazione definitiva delle opposizioni?
Esattamente questo. Il rischio del rafforzamento della solitudine di Renzi in un partito diviso tra troppi che non hanno altra alternativa che dire sì e pochi ridotti a poter dire solo no.
Renzi vincerà il referendum e poi si andrà al voto anticipato? 
Prima c’è un lungo cammino da fare e dopo pure. Ho sentito Speranza rinviare la scelta sul referendum condizionando il sì della minoranza al tipo di legge elettorale che sarà approvata per quel che riguarda l’elezione del Senato. Forse ho capito male. Perché davvero non vorrei che la scelta sul referendum fosse presa dopo il varo definitivo della riforma affidato al Referendum.
Le immagini di Napoli quanto hanno danneggiato il Pd? E ora che cosa deve fare Bassolino?
Anche a stare solo alle immagini, alle dichiarazioni, e alle decisioni già prese, il danno al partito è stato enorme. 
Come se ne esce? 
Annullando i seggi infangati e soprattutto punendo severamente quelli che li hanno infangati. Quanto a Bassolino penso che da questo momento potrebbe solo perdere. Dentro il Pd la sua battaglia l’ha già vinta. Grazie al confronto in campo aperto da lui imposto con le primarie a Napoli è tornato protagonista.
Ma le primarie hanno un futuro?

Mi dicano prima con che cosa nel caso pensano di riuscire a sostituirle. Sono proprio curioso. Questo è un cammino che una volta aperto può essere svuotato, ma difficilmente azzerato.

lunedì 14 marzo 2016

disconnesso....

D’Alema dice di essere stato in Iran dove Vodafone non prende e dunque non sa «nulla di quello che è successo in questi giorni». Ma, come ha scritto Cerasa «a voler essere maliziosi, il D’Alema che chiede al Pd di oggi di tornare alle sue origini è un D’Alema che appare disconnesso dalla realtà forse da più di due giorni, diciamo».

Il caos libico e le domande difficili


Guido Formigoni
Finalmente il ministro degli Esteri Gentiloni è intervenuto a chiarire quello che stava diventando un vero e proprio mistero politico: quello dell’intervento militare italiano in Libia. Le sue parole sono state apparentemente rassicuranti: sull’attesa di una «eventuale richiesta di sicurezza del governo libico», sulla necessità quindi di un interlocutore locale unitario e credibile, sulla volontà di coinvolgere il parlamento su ogni decisione e sul rispetto della costituzione italiana. Certo che una settimana di voci e indiscrezioni delle più autorevoli testate informative europee e internazionali difficilmente possono essere derubricate a gossip giornalistici di una stampa scorretta che abbia qualcosa contro il manovratore. L’ipotesi che nelle cancellerie internazionali i discorsi preparatori e la progettazione molto più specifica in tema militare siano comunque molto avanzati non è affatto da escludere, anche dopo questa precisazione, che allenta almeno la preoccupazione immediata e la nebbia informativa.
La vicenda libica è una delle più controverse e pasticciate degli ultimi anni. L’intervento militare internazionale del 2011 fortemente voluto dai francesi (e accettato da Obama, che ora mostra resipiscenza) ha scoperchiato un vaso di Pandora di violenze, divisioni, milizie, tribù, che il pugno di ferro e la visione politica di Gheddafi aveva tenuto insieme per quarant’anni. La disinvolta teoria neocon, per cui bastasse far cadere un dittatore e convocare elezioni per avviare i paesi mediorientali sulla via della pace e della democrazia si è rivelata del tutto infondata: non bisognava essere dei Machiavelli per poterlo capire già prima, ma in quel caso ne abbiamo avuto ulteriore prova provata. Il disastro umanitario della disseminazione di decine di migliaia di lavoratori stranieri in Libia, preda delle bande degli scafisti e riversatisi in Europa è sotto gli occhi di tutti. Il caso dei tecnici italiani rapiti con le vicende oscure e le conseguenze tragiche per due di loro è solo la conferma di una situazione totalmente fuori controllo.
Ora la preoccupazione occidentale si è impennata, perché qualche signore della guerra locale si è messo sotto le insegne di quel nuovo brand del terrorismo globale in franchising che risponde al nome di Islamic State (Is). Siccome mediaticamente questa vicenda fa molto effetto, perché la loro strategia comunicativa a base di video e di sgozzamenti colpisce molto l’immaginario occidentale, si è innalzata la soglia dell’attenzione e sembra si siano pianificati – da quello che appunto è trapelato – nuovi interventi militari. Indiscrezioni della stampa internazionale e relazioni di esperti dicono che sul campo ci sono già le forze speciali francesi nel sud del Fezzan, quelle britanniche e i corpi d’élite statunitensi. Che il governo italiano sia stato solo a guardare è improbabile, anche per una sorta di volontà di presenza che sul caso libico può forse anche essere giustificata, ma che – più in generale – fa parte di una politica molto attenta all’immagine e alla relativa risposta nei borsini dei sondaggi.
Il problema resta quello di identificare una strategia complessiva credibile, che come al solito non può essere vincolata esclusivamente all’emergenza e non può essere solo militare. Come se bastasse spazzar via qualche banda estremista (peraltro ben armata) per risolvere il problema. Occorrerebbe invece un attento monitoraggio della situazione interna dal punto di vista politico e sociale. Occorrerebbe conoscenza, capacità di dialogo, costruzione di interlocuzioni continue e prudenti con i veri punti di riferimento sul terreno che siano interessati a un dialogo e a una convergenza politica stabile. Sono le tribù di cui storicamente Gheddafi si è avvalso nel proprio gioco di federatore autoritario? Sono nuove autorità locali? Sono capi religiosi che siano anche autorità sociali (più difficile, nel mondo sunnita, ma non impossibile)? Questo tipo di impegno è ovviamente più complesso del mitragliamento compiuto da qualche drone o della pianificazione di interventi dei navy seals. Implica l’aiuto a processi di stabilizzazione politica molto lenti e complessi, soprattutto dopo che è subentrato il primato della guerra, con tutte le sue conseguenze. Comprende una dimensione economica cruciale, spesso invece banalizzata: come creare convenienze comuni, innescare processi di sviluppo sostenibile in cambio di garanzie sulle esportazioni energetiche, predisporre affari condivisi (e non solo tutelare gli interessi di alcuni grandi investitori europei e italiani)? Come avviare percorsi di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, tali da condurle a sostenere la nuova politica democratica? Queste sono le prime domande cui un governo serio dei problemi dovrebbe almeno tentare di rispondere. Prima di qualsiasi «armiamoci e partite».



domenica 13 marzo 2016

Non sciupate il Pd


Walter Veltroni
L'Unità 13 marzo 2016
Questo partito deve essere se stesso, non mutare pelle e identità. E deve restare unito, perché se si divide si indebolisce un presidio della stabilità. La sinistra o è innovazione o non è. Sinistra e conservazione, un ossimoro
Non sciupate il Pd. Lo vorrei dire a tutti i protagonisti del dibattito in corso in questi giorni. I toni si sono fatti aspri e si affaccia il rischio di scissioni, separazioni dolorose, possibili contraccolpi per il centrosinistra alle elezioni comunali. Senza il Pd, per come lo abbiamo immaginato e costruito, l’Italia è esposta al rischio che stanno correndo le democrazie occidentali. Ci si rende conto di questo? Ci si rende conto di quello che sta accadendo negli Usa, la democrazia più forte del mondo, o nella Francia di Mitterrand e De Gaulle oggi dominata da un partito di estrema destra, o nella Inghilterra sospesa al filo di un voto dal quale può dipendere la fine di una certa idea di Europa?
Ci si rende conto di quello che sta accadendo negli Usa, la democrazia più forte del mondo, o nella Francia di Mitterrand e De Gaulle oggi dominata da un partito di estrema destra, o nella Inghilterra sospesa al filo di un voto dal quale può dipendere la fine di una certa idea di Europa? O la Spagna senza governo da mesi, avviata verso il rischio di nuove elezioni, nuova instabilità? Ci si accorge di quello che accade nei paesi dell’est europeo, molti dei quali sembrano essere caduti nelle mani di una nuova destra, come quella polacca o ungherese, determinata a mettere in discussione le stesse conquista realizzate dalla democrazia, dopo la notte della dittatura comunista? E il Nord Europa, culla della socialdemocrazia, oggi attraversata da pulsioni xenofobe un tempo inimmaginabili? Ci si guardi intorno prima di sfasciare lo strumento essenziale del riformismo italiano e, se posso dirlo, oggi una delle risorse fondamentali per il mantenimento della prospettiva europea.
Come si sa ho creduto tra i primi e sempre alla prospettiva del Partito Democratico e quando Achille Occhetto (a proposito, auguri per ottanta anni da vero combattente della democrazia) ebbe il coraggio di fare il salto decisivo nella storia della sinistra per farne un partito della sinistra europea fui tra coloro che, insieme a lui, si schierarono perché nel nome della nuova formazione comparisse la parola “democratico”. Era, per me, una tappa del processo che avrebbe dovuto portare alla costituzione di quella unità dei riformisti che era la condizione di un cambiamento profondo del paese.
Si poteva allora immaginare, tutto questo, per la peculiarità feconda della storia di formazioni politiche del Novecento in cui c’era stato il coraggio innovatore di Gramsci e di Berlinguer, la intelligenza strategica di De Gasperi e Moro, la lucida difesa del pensiero liberale e socialista dei fratelli Rosselli, di Gobetti, di Nenni, Pertini, Parri, Giolitti. Tutte queste storie, separate e imprigionate dalle ideologie e dai blocchi, una volta liberate dalla caduta dei muri, avrebbero dovuto rimuovere l’anomalia di aggregazioni spurie (nei partiti e nei governi) e ritrovarsi, finalmente insieme.
Ma per me, e fu oggetto di discussioni e di divisioni anche nella sinistra, la nuova formazione avrebbe dovuto avere l’ambizione di essere di più, una formazione del nuovo mondo, del nuovo millennio. Non solo la convergenza dei democratici separati del novecento ma una identità forte e propria. Al Lingotto, quasi dieci anni orsono, dissi “Per questo nasce il Partito Democratico. Che si chiamerà così. A indicare un’identità che si identifica con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno”
Insomma non un partito “post”, con lo sguardo rivolto al passato, ma un partito “ante”, capace di immaginare i valori della sinistra democratica e riformista nel nuovo millennio, nella società fluida e globalizzata, parcellizzata e precarizzata. Qualcosa di grande, non un cambio di insegne e cappello.
Per questo cercai allora di indicare nella vocazione maggioritaria la strategia politica e l’ambizione di un partito così. Una sinistra vecchia e senza ali poteva pensare che l’unico suo destino fosse quello di allearsi con chiunque pur di governare, perché dava per scontata il suo essere, per definizione, minoritaria e dunque costretta a mettere insieme tutto e il contrario di tutto, Mastella e Rifondazione comunista, per governare , o cercare di farlo.
L’Ulivo, nato dalla intuizione di Romano Prodi e dal dibattito della sinistra di quegli anni, si sarebbe dovuto trasformare , dopo l’inaspettato, da molti, successo alle elezioni del 1996, in un partito politico. Avrebbe dato basi solide e forti allo straordinario riformismo del più forte governo della storia repubblicana, con Ciampi all’economia e Napolitano agli interni, e consentito di superare la precarietà della condizione dell’appoggio esterno di Rifondazione. Si sono persi dieci anni. E quando poi, dopo le tragiche elezioni provinciali del 2007 e i sondaggi che davano le forze del centrosinistra sotto il venti per cento, si decise di dare finalmente vita al Pd, grazie anche alla intelligenza politica di Fassino e Rutelli , questo non poteva che avvenire in un contesto di innovazione, di radicale innovazione. Per questo al Lingotto dicemmo con Olaf Palme, che la sinistra “non è contro la ricchezza ma contro la povertà”, proponemmo di superare vecchie posizioni conservatrici sul piano istituzionale mettendo l’accento su un nuovo rapporto tra decisione e controllo nell’esercizio delle funzioni esecutive e parlamentari, di consolidare il bipolarismo con leggi elettorali che consentissero un riavvicinamento degli eletti ai cittadini, nel contesto di una politica più lieve che facesse della “questione morale” uno dei suoi termini distintivi. Un partito europeo, convinto della necessità degli Stato Uniti d’ Europa e impegnato, quante ironie sentimmo sul tema, a costruire una unica organizzazione internazionale “dei democratici e dei socialisti” che allargasse un campo che altrimenti, come la storia si è incaricata di dimostrare, restando fermo si sarebbe ridotto. L’Europa di oggi vede purtroppo una presenza assai minoritaria delle sinistre al governo.
Noi ci siamo e pezzi di una politica di governo “radicalmente innovativa” come postulava l’atto di nascita del Pd si sono realizzati. Faccio due esempi, legittimamente discussi: la legge sul jobs act e l’approvazione, finalmente, del riconoscimento delle unioni civili. Dare una prospettiva di stabilità ai giovani divorati, nella loro intera vita, dalla precarietà e consentire a persone che si amano, quali che siano i loro orientamenti sessuali, di condividere diritti civili sono o no due “cose di sinistra”?
Fermiamoci su questa parola. Ho già scritto, su questo giornale, che non può e deve essere considerata una parolaccia, o un oggetto da antiquariato. La sinistra o è innovazione o non è. Sinistra e conservazione sono un ossimoro. E il Pd è, non lo si dimentichi mai, un partito forte della sua identità democratica, cioè la sinistra riformista del duemila. Che proprio per questo può puntare ad essere maggioritario, in una democrazia dell’alternanza, una democrazia in cui il governo decide e il Parlamento esercita la sua funzione di controllo.
Dunque la vocazione maggioritaria, che declina politicamente e programmaticamente, l’identità del riformismo italiano. Ma dire come si fa spesso con scolastica ovvietà che la contraddizione del tempo non è tra destra e sinistra non può preludere a soluzioni pasticciate come le idee vagheggiate, per fortuna Renzi le ha definite inesistenti, di partiti senza identità. Perché la divisione, è vero, non è quella del Novecento (più tasse a sinistra , meno a destra ad esempio) ma la differenza tra destra e sinistra esiste ancora, eccome. In forme nuove, ma esiste. Come dimostrano drammaticamente temi come l’ emigrazione o i diritti civili. Come dimostra la campagna elettorale americana. A chi sostiene che non esiste più quella differenza suggerirei di ascoltare i discorsi di Trump, prima che sia troppo tardi. E attenzione che, se si continua a giocare, il nuovo bipolarismo sarà giocato sul confine establishment-antiestablishment.
La sinistra è cambiamento, apertura, giustizia sociale, diritti, libertà. Non può essere un polveroso armadio di ricordi. Non sarebbe sinistra. E non può essere annegamento nell’indistinto né cancellazione di una storia, fatta di persone e idee belle davvero. Siamo padroni del nostro destino. Se si sciupa il Pd, dopo vedo solo il baratro del dilagare di forme inimmaginabili di populismo. Se si divide, con scissioni o minacce di scissioni, si indebolisce un presidio fondamentale della stabilità, della possibilità di riforme e di cambiamento, di ancoraggio all’Europa.
Al tempo stesso il Pd deve essere se stesso, non mutare pelle e identità. Deve essere un partito aperto, democratico al suo interno, rispettoso di un pluralismo che sia fatto di idee più che di correnti e correntine senza anima. Deve recuperare, uno ad uno, elettori che possono essere delusi e tentati dall’astensionismo. Ci sono, sarebbe sbagliato non vederlo.
Un’ultima cosa, sulle primarie. So due cose: che se si partecipa ad esse bisogna poi accettarne l’esito. E che bisogna presto regolarne lo svolgimento, come proposi con un disegno di legge presentato nell’ultima legislatura alla quale ho partecipato. Scandali e trucchi fanno del male allo strumento delle primarie che sono state, fin dai tempi di Prodi, il modo attraverso il quale si proponeva, in coerenza con l’idea di un partito-società, di far scegliere ai cittadini, e non a ristretti gruppi dirigenti, i candidati ai vertici istituzionali. Ma ai cittadini, non agli organizzati delle correnti. Quelli che, se la platea si restringe, rischiano di determinare il risultato e le scelte.
Il Pd deve restare unito e credere in se stesso. Se sarà indebolito sarà compromessa, chissà per quanto, la stessa possibilità di un governo stabile, europeo e riformista dell’Italia. Chi ha contribuito a fondarlo e lo ha guidato finché ha potuto farlo in coerenza con l’impegno preso con milioni di italiani si sente oggi di rivolgere, a tutti, questo appello alla ragione.
Convinto, come dovremmo essere tutti, che si debba, lo diceva Leonardo Da Vinci, fuggire “quello studio la cui risultante opera more insieme coll’operante d’essa”. Ricordiamoci, tutti, che si tratta non di noi stessi, ma del futuro di una nazione.

sabato 12 marzo 2016

Caro D’Alema, forse è davvero giunto il momento di salutarsi


Fabrizio Rondolino
L'Unità 12 marzo 2016
Quando entrai per la prima volta nell’ufficio del tuo capostaff, nella primavera del 1996, in vista del mio prossimo impiego come tuo addetto stampa, alla parete c’era un ritratto di Tony Blair con una sua frase che diceva più o meno così: “Chi prova a cambiare è sempre accusato di tradimento”
Caro D’Alema, forse è davvero giunto il momento di salutarsi e prendere congedo; forse la storia politica del Pci e la sua ventennale eredità si sono infine consumate. Non sono fra quelli che ti considerano «bollito», anzi: non esistono oggi a sinistra personalità forti come la tua. A parte naturalmente Matteo Renzi, di cui però parleremo più avanti. Non partecipo al gioco ingeneroso di chi vede nelle tue parole soltanto il rancore dello sconfitto, né mi convince l’argomento vagamente stalinista secondo cui chi dissente lavora per il nemico (sebbene ciò possa accadere indipendentemente dalle intenzioni). Sei un uomo di forti passioni, nonostante un’agiografia dominante che ti dipinge algido e calcolatore, e la passione più forte di tutte è la politica.
Le parole che hai detto al Corriere della Sera, e che hai poi ripetuto davanti alle telecamere, sono molto impegnative perché segnano, dopo mesi di progressive prese di distanza, un punto di non ritorno: un congedo, appunto. «A destra – hai detto – viene riconosciuto a Renzi il merito di aver distrutto quel che restava della cultura comunista e del cattolicesimo democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale delle radici del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo», al punto che Renzi è «oggettivamente» più vicino a Berlusconi che a Prodi: «La cultura di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella originaria».
Il partito, hai proseguito, «è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», «un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra» per «sbarazzarsi del centrosinistra» («il partito della Nazione è già fatto»). E, come se non bastasse, «tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori».
Quando entrai per la prima volta nell’ufficio del tuo capostaff al secondo piano di Botteghe Oscure, nella primavera del 1996, in vista del mio prossimo impiego come tuo addetto stampa, alla parete c’era un ritratto di Tony Blair con una sua frase che diceva più o meno così: «Chi prova a cambiare è sempre accusato di tradimento». La sinistra si apprestava a vincere per la prima volta le elezioni e tu avevi appena pubblicato un libro intitolato, programmaticamente, “Un paese normale”. Un paio d’anni dopo ne avresti scritto un altro, con l’aiuto di Gianni Cuperlo: “La grande occasione: L’Italia verso le riforme”.
La mission, come si direbbe oggi, era complessa ma, anche, incredibilmente semplice: modernizzare la sinistra era la premessa per modernizzare l’Italia e battere – sul terreno dell’innovazione – l’offerta berlusconiana. Bisognava dunque essere (come Blair) «più liberali» di Forza Italia: aprirsi alle professioni, al merito, alla creatività, all’individualismo, e insomma ad un’idea moderna e dinamica di libertà civile, politica ed economica. Qui hai giocato la partita politica della tua vita: contro tutti i conservatori. Contro i conservatori del sindacato, contro la magistratura militante, contro le burocrazie e le caste, contro chi a sinistra ti accusava di tradimento per aver fatto con Berlusconi un accordo che finalmente riformasse la Costituzione, contro i custodi della tradizione, e naturalmente anche contro il conservatorismo dell’Ulivo.
Sei stato fatto a pezzi per quella tua giusta, sacrosanta battaglia di modernità. La «rottura sentimentale» che in un’altra intervista (sempre all’ottimo Aldo Cazzullo) rimproveravi a Renzi è davvero la chiave per comprendere ciò che sta accadendo a sinistra: salvo che si è già consumata da tempo, e precisamente da quando tu, con lucidità politica e coraggio personale, hai tentato invano di modernizzare la sinistra italiana (post)comunista. Anche tu sei stato accusato – più o meno dagli stessi che oggi combattono Renzi – di tradimento e resa all’avversario. E quando hai provato a rimediare – perché ti sentivi non il liquidatore, ma il garante della sinistra – ti hanno eliminato senza troppi complimenti nel generale sollievo di tutti i conservatori.
È questo il dramma – sentimentale, cioè politico – della sinistra: è su questa ferita non rimarginabile, che tu da allora e ancor oggi tenti invano di rimarginare, che si è consumata l’implosione definitiva della tradizione (post)comunista. L’amara verità è che da quella tradizione non poteva più venire pressoché nulla di politicamente fertile: e lo dimostra proprio la tua ritirata strategica, il ripiegamento obbligato dell’unico che avrebbe potuto salvarla. Renzi nasce in questo vuoto, e vince con sorprendente rapidità perché intorno a lui non c’è più niente di vivo. E’ vero: non gli manca, come dici, una certa arroganza (anche qui, tutto sommato, niente di nuovo), ma quel tono c’entra molto con la politica e molto poco, invece, con il carattere. La nuova sinistra di Renzi – e di D’Alema negli anni Novanta, e di Craxi negli anni Ottanta – è impaziente perché la vecchia sinistra è già tramontata ma non riesce ad ammetterlo. L’errore di questi vent’anni – l’unico errore politico che mi sento di rimproverarti – è aver cercato di farle convivere.