La Repubblica
22 novembre 2014
MATTEO RENZI
Caro direttore,
Repubblica mi chiama in causa
personalmente. Mi chiede quale sia la nostra idea di sinistra che
rivendico, ad esempio, quando parlo della riforma del lavoro. Come
lei sa, non da ora, sono tra quelli che hanno favorito e accelerato
la fine dell’era del trattino. Quando non si poteva pronunciare la
parola sinistra senza premettere qualche prefisso per attenuarla,
quasi a prendere le distanze.
Ho sempre rivendicato, con fierezza ed
orgoglio, l’appartenenza del Partito democratico alla sinistra,
alla sua storia, la sua identità plurale, le sue culture, le sue
radici. Per questo ho spinto al massimo perché il Pd, dopo anni e
anni di dibattito, fosse collocato in Europa dove è adesso, dentro
la famiglia socialista della quale oggi, grazie al risultato delle
ultime elezioni, è il primo partito con oltre 11 milioni di voti.
Questo per dire che nei comportamenti concreti, nelle scelte
strategiche, il Pd sa da che parte stare.
DALLA parte dei più deboli, dalla
parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito
insieme. Non credo sia il caso qui e ora di discutere di pantheon e
di storie, ognuno ha i suoi riferimenti, le persone che ci hanno
ispirato nella azione politica. Dico solo che nel Partito democratico
hanno tutti cittadinanza alla pari, così come le tradizioni, le
esperienze, le parole che ognuno di noi porta dentro questo progetto
che è collettivo e anche personale perché riguarda nel profondo
ognuno di noi, e non perché come vorrebbe chi ci vuole male c’è
un uomo solo al comando. Quella del Pd è una sfida plurale, un
progetto condiviso da milioni di persone, non la tigna di un
individuo. Ed è per questo, però, che non possiamo permetterci di
restare fermi a un passato glorioso, ma rivitalizzarlo ogni giorno
cambiando, trovando soluzioni concrete ed efficaci a problemi che si
trasformano e che riguardano da vicino la vita delle persone.
So che Repubblica non vuole farci un
esame del sangue, come invece pretenderebbe qualcuno anche dalle
parti del sindacato. Lo dico per rispondere alla premessa del vostro
editoriale, di una mancanza di rispetto nei confronti di una storia e
di una rappresentanza. Non è la mia intenzione, ho un profondo
rispetto per il lavoro e per i lavoratori che il sindacato
rappresenta. E non sono parole formali. Penso, tuttavia, che
altrettanto rispetto sia da chiedere anche nei confronti di un
governo che sta cambiando il mondo del lavoro per evitare che alibi e
tabù tengano fuori dal mercato milioni di lavoratori solo perché
non hanno contratto o sono precari.
Penso che il modo più utile per
difendere i diritti dei lavoratori sia quello di estenderli a chi
ancora non ce li ha, di aprire le porte di uno spazio rimasto troppo
chiuso per troppi anni. Altrimenti qualcuno ci deve spiegare perché
con tutto l’articolo 18 abbiamo una disoccupazione a doppia cifra
che cresce in questo paese. Sono pronto sempre al confronto, da mesi
giro l’Italia in lungo e largo, visitando aziende, stringendo le
mani di chi lavora, parlando del futuro del paese in una competizione
sempre più dura nel mondo. Non siamo noi, non è il governo, non è
il Partito democratico a cercare lo scontro. Siamo noi, però, a
porre il tema di un mondo che cambia, nel quale non possiamo più
permetterci di non dare tutele alle donne che non hanno garanzie se
aspettano un figlio. Un mondo nel quale la selva di contratti precari
e precarizzanti deve essere disboscata, semplificata. Un mondo nel
quale esista una rete di strumenti di welfare che sostenga chi perde
il lavoro e lo metta in condizione di trovarne un altro. Se entriamo
nel merito del Jobs Act vediamo che non c’è riforma più di
sinistra.
L’altra sera, al PalaDozza di
Bologna, nel cuore di quella Emilia rossa fatta di tradizione e
pragmatismo, di storia e senso pratico, il passaggio più sentito di
un intervento che ho fatto per sostenere Stefano Bonaccini come
presidente di Regione è stato quello sul sindacato che non ha
manifestato contro la Legge Fornero e oggi manifesta contro il Jobs
Act. E avevo davanti una platea di militanti e dirigenti, molti dei
quali vengono proprio dalla storia profonda della sinistra italiana.
Allora, io mi faccio molte domande, mi interrogo e sento la
responsabilità del cambiamenti che stiamo portando, che è autentica
e non di facciata. Ma vorrei che anche il sindacato e più in
generale il mondo della sinistra si chiedesse se non ci sia una
grande opportunità da cogliere.
Per questo penso che la battuta su
Berlusconi e Verdini che fa l’editoriale di Repubblica sbagli
indirizzo e destinatario. Il Pd ha chiara la differenza tra
maggioranza e opposizione così come ha chiaro che le regole del
gioco si prova a cambiarle assieme per poi tornare a dividersi su
tutto il resto. L’alternativa all’Italicum è lo status quo
proporzionalistico. Che convince chi ha in mente un disegno
neocentrista che fino a qualche mese fa era sul tavolo e che noi
abbiamo sparecchiato.
Mi viene rimproverato anche di
scherzare coi gufi e coi soloni. Penso che un po’ di ironia,
Direttore, possa aiutare tutti a mettere a fuoco meglio le nostre
posizioni, non per banalizzarle, ma per metterle in prospettiva. Per
noi la sinistra è storia e valori, certo, è Berlinguer e Mandela,
Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi. Ma è
soprattutto un futuro su cui lavorare insieme per risolvere i
problemi delle persone, per dare orizzonte e dignità, per sentirsi
parte e avere orgoglio di essere non solo di sinistra, ma italiani.
Il mondo in questi mesi è cambiato,
l’Italia in questi mesi è cambiata; l’Italia delle Istituzioni,
del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia. Una
libertà ingiusta, una libertà per pochi, è la ragione sociale
della destra. Ma una giustizia illiberale, una giustizia cioè che
pretenda di essere per tutti ma senza rispetto per la libertà dei
singoli, è la prigione ideologica di una sinistra che ha una visione
odiosa delle cose.
Tocca a noi recuperare questo ritardo,
rivoluzionando come democratici questo meraviglioso paese. Ci sono
due modi per cambiare l’Italia. Farlo noi da sinistra. O farlo fare
ai mercati, da fuori. Sostenere che le ricette siano le stesse cozza
contro la realtà.
In ciò sta tutta la nostra idea di
sinistra. Parole che producono fatti. Perché il tempo delle parole,
giuste o sbagliate, slegate dai fatti, è un tempo che abbiamo deciso
di lasciarci alle spalle per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento