mercoledì 30 gennaio 2019

Effetà Paolo VI - una mostra a sostegno dei bambini audiolesi di Betlemme

La nostra mostra ha per protagonista l’Istituto Effetà Paolo VI di Betlemme.

L’uso della parola NOSTRA non è casuale. Infatti, anche se sono io l’autore delle immagini, la mostra è frutto di un lavoro molto più ampio, che parte da un paese non lontano da qui, da Concesio, luogo di nascita di San Paolo VI, fa tappa a Betlemme, dove suore operose hanno dedicato la loro vita ai bambini sordi, e torna nuovamente qui sotto forma di immagini e soprattutto di storie.

Perciò questa mostra parla prima di tutto di storie, quelle che ho scoperto durante due viaggi presso l’istituto EFFETA’ di Betlemme, voluti dalla Fondazione Giovanni Paolo II per documentare le attività che la scuola, così all’avanguardia nonostante le avversità del territorio palestinese, riesce a portare avanti.

Fin da subito però mi sono accorto che tutto passava in secondo piano rispetto al grande trasporto emotivo che questo luogo generava in me. Il grande valore del sistema didattico, della logopedia, dell’accoglienza per i bambini più poveri sono nulla, se così si può dire, rispetto alle emozioni trasmesse dagli sguardi, dagli abbracci, dai sorrisi delle decine di bambini incontrati, sfortunati nella sordità ma pieni di vita e soprattutto di speranza.

E’ di speranza quindi che le fotografie di questa mostra vogliono parlare, con un approccio documentativo che non dimentichi però il valore così profondamente umano delle storie personali.
Vi auguro una buona visione, ma soprattutto che gli occhi di questi bimbi possano catturarvi come hanno catturato me.

Federico Ghelli

la nuova età dei comuni


venerdì 25 gennaio 2019

bella notizia


CHE COSA HO DETTO A OMNIBUS?

Marco Bentivogli
25 gennaio 2019
Non abbiamo nessuna pregiudiziale sul Governo, che governi sereno per 5 anni, sui filoni e sugli obiettivi degli interventi dell’azione di Governo però bisogna essere molto onesti, raccontare esattamente ciò che si fa e discutere anche con il Sindacato.
Il reddito di cittadinanza e quota 100 sono misure a chiamata, fino a che ci sarà capienza verranno erogate, dopo non ci sarà questo spazio.
Per cui, non sarà riservato a chi ne ha diritto ma, come per la pubblicità delle pentole, è un’offerta per le prime 100 telefonate.

Non solo, la Guardia di Finanza ci ha spiegato la scorsa settimana che il 60% della dichiarazione ISEE è falsa e il reddito di cittadinanza si basa proprio su questa dichiarazione. Per cui significa togliere soldi a lavoratori onesti che pagano le tasse, per versarle in sussidi a persone disoneste che non sono povere.
Io penso che in questo Paese che è campione di lavoro nero e campione di evasione fiscale sia un problema molto serio.

Pierantonio Tremolada Vescovo di Brescia «Nessun migrante finirà per strada»


Manuel Venturi 
Bresciaoggi 25 gennaio 2019
Tremolada: «Impossibile accogliere tutti, ma non lasceremo solo chi si trova già qui ed è in difficoltà C'è bisogno di una legislazione sana e intelligente»
«Rispetteremo le indicazioni del Decreto sicurezza, ma non possiamo perdere la nostra umanità e non aiutare chi ha bisogno». Quelle del vescovo di Brescia, monsignor Pierantonio Tremolada, sono quasi parole di resistenza civile, che si legano alla volontà delle Caritas lombarde di continuare ad assistere i migranti nonostante i paletti del Decreto Salvini: il rispetto delle leggi non è in discussione, ma prima viene la difesa della vita e della dignità delle persone. «L'unica prospettiva non può essere il controllo, ma un'accoglienza che da subito ha una forma umanitaria: se le persone che hanno fatto richiesta per rimanere nel nostro Paese dovessero avere una risposta negativa, dove andrebbero?», si è chiesto il vescovo, sostenendo che «se la risposta è "Si arrangino", non possiamo accettarla: non possiamo pensare di lasciare per strada uomini, donne e bambini, perché sarebbero destinati a diventare invisibili». SECONDO monsignor Tremolada, la possibilità è una sola: «Cristianamente, non possiamo non aiutarli. Questa è l'umanità: non vuol dire che prenderemo tutti gli irregolari, ma non abbandoneremo chi è in difficoltà. Se questo ci esporrà a dei rischi, li affronteremo». Il vescovo di Brescia è intervenuto parlando di immigrazione nel corso dell'incontro con i giornalisti che ogni anno si tiene in occasione della ricorrenza di San Francesco di Sales, patrono della stampa. Lo ha fatto partendo da una considerazione sulla società di oggi - «Non siamo diventati cattivi, siamo impauriti e questa paura è trasversale» - e riflettendo sull'equazione «migrante-minaccia»: «L'85 per cento degli stranieri in provincia di Brescia si è integrato, è un dato su cui riflettere». Così come fa pensare «il fenomeno devastante della denatalità. Dobbiamo tenere insieme questi due aspetti: dire che tutti coloro che arrivano da noi sono una minaccia vuol dire pensare solo a uno spicchio, queste persone non sono tutte un pericolo, possono essere una risorsa». Secondo monsignor Tremolada, c'è però bisogno anche di un ragionamento più ampio: «Noi affrontiamo l'ultimo anello della catena, vale a dire le emergenze in mare: non possono essere lasciati lì, ma accogliendoli si conferma il processo di illegalità che li porta in Europa». E riflettendo sul fatto che è soprattutto la classe media a spostarsi, cioè «chi si può permettere il viaggio», il vescovo di Brescia ha tracciato un parallelismo con i giovani laureati italiani che cercano fortuna all'estero: «Abbiamo a che fare con qualcuno che vuole un futuro migliore e questo vale anche per i nostri ragazzi. Dobbiamo fare in modo che venga garantito il diritto di non partire, significa impegnarsi in un'operazione di politica internazionale che travalica le nostre competenze ma su cui dobbiamo riflettere». LA CHIOSA è arrivata sulla situazione odierna: «Ci vuole una legislazione sana e intelligente, che tiene conto di chi arriva e di chi già è qui: semplificare la realtà significa mettere le basi per renderla complicata - ha sostenuto il vescovo -. Noi osserveremo le indicazioni del Decreto, ma non potranno costringerci a non essere più umani». Nel corso della mattinata, a cui hanno partecipato anche il giornalista del Corriere della Sera Giangiacomo Schiavi e il presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, Alessandro Galimberti, monsignor Tremolada ha anche affrontato il tema della comunicazione giornalistica: «Il giornalismo ha una funzione primaria nella costruzione del futuro e c'è bisogno di dare segnali di speranza», ha riflettuto il vescovo, notando che «il giornalismo dovrebbe contribuire a dare una forma alla realtà, secondo un pensiero, una sensibilità e un sistema di valori che faccia leva sul confronto e non sullo scontro». Il fine ultimo è il «cogliere la bellezza dell'umanità: in un periodo in cui i giornalisti sono più temuti che amati e in cui la gente ha voglia di respirare e di avere anche notizie positive, c'è bisogno di qualcuno che ci aiuti ad orientarci».

giovedì 24 gennaio 2019

La lezione sturziana a 100 anni dall'appello . Come servire il popolo senza servirsene


Pierluigi Castagnetti - Lettera al direttore di Avvenire
18 gennaio 2019
Caro direttore, il disorientamento dei tempi che viviamo, assieme alla consapevolezza che la politica debba riallacciare un rapporto nuovo con i cittadini, sta riportando nel dibattito culturale e politico il tema del popolarismo. Popolarismo versus populismo. Spesso lo si fa giocando sui nomi, a volte anche senza una precisa consapevolezza delle differenze. C’è l’occasione concreta della celebrazione, il 18 gennaio, del centenario dell’«Appello ai Liberi e Forti» che segnò la nascita del Partito Popolare Italiano, a opera di un gruppo di cattolici coraggiosi e intelligenti guidati da don Luigi Sturzo, che può aiutarci. Sia chiaro, non credo che oggi si possa riproporre sic et simpliciter la stessa operazione, essendo assai diverse le condizioni storiche, anche se vi sono alcuni insegnamenti preziosi che si possono trarre da un’iniziativa politica che non a caso alcuni osservatori, anche avversari politici, definirono sin da subito come «la più rilevante novità» della politica italiana all’inizio del Novecento: alludo ai giudizi di Gramsci, Salvemini, Turati, senza dire di quelli di importanti studiosi a partire da Federico Chabod sino a Emilio Gentile, ancora pochi giorni fa.
Perché fu un’iniziativa politica importante? Perché delineò una modalità strutturata di superare quel Non expedit che aveva impedito per decenni ai cattolici italiani di partecipare pienamente alla vita politica del Paese. Ma, nondimeno, perché nacque un partito a quel tempo sicuramente inedito, un partito che non c’era, né clericale né laicista, a ispirazione cristiana ma aconfessionale, 'verticale' non solo perché fatto di uomini liberi e risoluti, ma perché univa la profondità del pensiero all’altezza di un disegno di futuro, non ideologico, non rivoluzionario, non velleitario, ma modernamente riformatore, un partito del territorio ma anche dello Stato, non internazionalista ma con uno sguardo europeo, pacifista ma non neutralista, non liberista ma costruito attorno al principio-cardine della libertà, non centralista ma profondamente autonomista, un partito che non mitizzava l’idea di popolo sino a farne una categoria astratta e strumentale, ma profondamente radicato nel tessuto sociale e popolare. Un partito non improvvisato: Sturzo ne delineò infatti i contorni nel famoso discorso di Caltagirone del dicembre 1905 e lo condusse in porto quasi quattordici anni dopo, il 18 gennaio 1919, appunto.
Ma, cos’era per Sturzo il popolarismo? Era essenzialmente il protagonismo sociale del popolo e la capacità della politica di sentirsene espressione. Se il popolo era dunque il motore del processo politico, gli uomini politici dovevano dimostrare di sapere mettere 'le mani nella morchia' di quel motore. Se per Sturzo lo Stato era la struttura organizzativa della società, potremmo dire che il popolarismo rappresentava invece la dimensione politica del popolo-attore sociale. Il prete di Caltagirone era infatti solito elencare con numeri precisi le migliaia di cooperative agricole ed edilizie realizzate in tutto il territorio nazionale dai cattolici durante i faticosi anni del Non expedit, delle casse rurali, delle mutue assicurative, dell’associazionismo culturale e sociale, sicché quando comparve sulla scena politica il Partito Popolare nel 1919 poté limitarsi a raccogliere, cioè mettere insieme questa densissima rete sociale e darle rappresentanza e proiezione politica. Il popolarismo è, dunque, il popolo che si fa attore po-litico, mentre il populismo è l’utilizzazione- strumentalizzazione del popolo civicamente passivo a fini politici.
Per questo l’idea centrale che il popolarismo porta alla politica di quegli anni è stata la lotta al centralismo e la valorizzazione dell’autonomismo comunale e regionale. Che era un’idea di Stato democratico, 'vissuto', soprattutto nelle sue periferie, attraverso una politica partecipata e preparata a livello locale dove la politica è veramente democrazia. E, conseguenza logica, la richiesta di passare a un Senato elettivo che si aggiungesse alla Camera, con l’introduzione del suffragio universale vero, cioè con anche il voto alle donne, e un sistema elettorale proporzionale. Il popolarismo fu poi un tentativo intelligente di riconoscere e collocare in modo corretto le soggettività originarie: prima c’è la persona, poi i corpi intermedi, poi la comunità locale, poi quella provinciale, poi quella regionale, poi quella statale nazionale, poi quella sovrastatale europea. E in tal modo, diremmo oggi, viene delineata una corretta prospettiva federalista. Dal basso. Le istituzioni così non saranno mai 'non rappresentative della volontà popolare', perché ne sono naturalmente la sua espressione. Ma perché non vi sia separazione fra popolo e Stato occorre delineare un severo contesto di moralità pubblica, che è fatta sia di rispetto dei ruoli istituzionali (i partiti non possono mai interferire con le responsabilità autonome del Governo e del Parlamento), sia di continua educazione al valore della legalità, sia infine di selezione del personale politico con severi criteri di verifica del possesso delle virtù etiche soggettive necessarie a gestire la casa comune.
Sarebbe interessante, se oggi si vuole cominciare a discutere di una concezione 'popolare' della politica, cominciare proprio da queste idee sturziane. Per quanto riguarda il Ppi poi, lo sappiamo bene, le cose andarono in un certo modo: dopo cinque anni da quelle prime elezioni del 1919 in cui i popolari elessero un centinaio di deputati, Sturzo fu costretto all’esilio a causa di una gravissima complicità della Segreteria di Stato con Mussolini che individuò proprio in Sturzo il più insidioso avversario del suo disegno politico e due anni dopo, nel 1926, il Ppi come gli altri partiti d’opposizione, venne messo fuori legge e i cattolici italiani furono costretti a continuare il lavoro politico chi in esilio in diversi Paesi europei, chi restando in Italia ma operando in clandestinità per tutta la durata dell’attraversamento del deserto del regime fascista.
Sturzo tornò in Italia – dopo le esperienze di esilio a Londra e a New York e vari soggiorni di studio e di collegamento politico a Parigi, Bruxelles e Barcellona e con una produzione bibliografica di una sessantina di testi alcuni dei quali ancora oggi studiati in università americane – solo nel 1946, ad Assemblea costituente avviata. Non mancò però, sino alla sua morte avvenuta nel 1959 (quest’anno ne celebriamo il sessantesimo), di partecipare al dibattito politico con suggestioni originali e spesso severe. Ma è doveroso non dimenticare che, di fatto, Sturzo fu anche importante innovatore sul piano ecclesiale, se si pensa che anticipò di quasi sessant’anni le indicazioni di alcune costituzioni del Concilio Vaticano II ( Gaudium et spese Lumen gentium) nel teorizzare e praticare l’autonomia dei laici cristiani nell’impegno politico. Lezioni a cui attingere, dunque, ne ha lasciate non poche.

lunedì 21 gennaio 2019

MIGRANTI, CONTE E SALVINI LA SMETTANO DI ACCUSARE LE ONG

Graziano Delrio
IL GOVERNO È RESPONSABILE DELLA RIPRESA DEI TRAFFICI DI ESSERI UMANI
Quelle del presidente Conte sono lacrime di coccodrillo, il governo ha delle gravi responsabilità sulla ripresa dei traffici di esseri umani nel mediterraneo.
Il fallimento del vertice di Palermo sull'immigrazione sta generando una nuova stagione di fibrillazioni politiche in Libia la cui diretta conseguenza è proprio la ripresa delle partenze dei barconi delle organizzazioni criminali.
Per questo Conte dica al suo vice Salvini di smetterla con il ritornello per cui la ripresa dei traffici sarebbe causata dal ritorno delle navi delle Ong.
I dati parlano chiaro e dimostrano l’assenza di alcuna correlazione a riguardo. Le Ong andrebbero ringraziate per quello che stanno facendo, non certo insultate.
Il Governo si concentri piuttosto sul fallimento della politica estera portata avanti in questi mesi che sta creando nuove crisi e la ripresa dei traffici di esseri umani.

sabato 19 gennaio 2019

Siamo Europei



Siamo Europei Siamo Europei
MANIFESTO PER LA COSTITUZIONE DI UNA LISTA UNICA DELLE FORZE POLITICHE E CIVICHE EUROPEISTE ALLE ELEZIONI EUROPEE
L’Italia e l’Europa sono più forti di chi le vuole deboli!
Siamo europei. Il destino dell’Europa è il destino dell’Italia. Il nostro è un grande paese fondatore dell’Unione Europea, protagonista dell’evoluzione di questo progetto nell’arco di più di 60 anni. E protagonisti dobbiamo rimanere fino al conseguimento degli Stati Uniti d’Europa, per quanto distante questo traguardo possa oggi apparire. Il nostro ruolo nel mondo, la nostra sicurezza – economica e politica – dipendono dall’esito di questo processo.
L’Unione Europea è il risultato della consapevolezza storica e della volontà dei popoli europei. Un continente attraversato dalle guerre è oggi uno spazio pacifico e comune di scambi culturali, politici, economici, governato da regole ispirate a valori di libertà, tolleranza e rispetto dei diritti. L’Unione Europea è la seconda economia e il secondo esportatore del mondo. Un mercato unico di cinquecento milioni di persone, regolato dai più alti standard di sicurezza e qualità, che assorbe ogni anno duecentocinquanta miliardi di esportazioni italiane. Il nostro attivo manifatturiero è oggi doppio rispetto a quello che avevamo prima dell’euro e la nostra manifattura, seconda solo a quella tedesca, è legata da una inscindibile e strategica rete di investimenti, collaborazioni industriali, tecnologiche e commerciali con le altre economie europee. In Europa si concentra la metà della spesa sociale globale a fronte del 6,5% della popolazione mondiale.
L’Unione è dunque un grande conseguimento della storia, ma come ogni costruzione umana è reversibile se non si è pronti a combattere per difenderla e farla progredire. I cittadini europei sono oggi chiamati a questo compito.
L’Europa è infatti investita in pieno da una crisi profonda dell’intero Occidente. La velocità del cambiamento innescato dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica, e parallelamente gli scarsi investimenti in capitale umano e sociale – che avrebbero dovuto ricomporre le lacerazioni tra progresso e società, tra tecnica e uomo – hanno determinato l’aumento delle diseguaglianze e l’impoverimento relativo della classe media. Ciò ha scosso profondamente la fiducia dei cittadini nel futuro. L’incapacità di gestire i flussi migratori provenienti dalle aree di prossimità colpite da guerre e sottosviluppo ha messo in crisi l’idea di società aperta. La convergenza tra queste turbolente correnti della storia ha minato la fiducia di una parte dei cittadini nelle istituzioni e nei valori delle democrazie liberali.
Per la prima volta dal dopoguerra esiste il rischio concreto di un’involuzione democratica nel cuore dell’Occidente. La battaglia per la democrazia è iniziata, si giocherà in Europa, e gli esiti non sono affatto scontati.
L’obiettivo non è conservare l’Europa che c’è, ma rifondarla per riaffermare i valori dell’umanesimo democratico in un mondo profondamente diverso rispetto a quello che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni.
Un mondo che affronta tre sfide cruciali: il radicale cambiamento del lavoro, e dunque dei rapporti economici e sociali, a causa di un’ulteriore accelerazione dell’innovazione tecnologica; il rischio ambientale e la necessaria costruzione di un modello di sviluppo legato alla sostenibilità; uno scenario internazionale più pericoloso e conflittuale.
Le forze da mobilitare per la costruzione della nuova Europa sono quelle del progresso, delle competenze, della cultura, della scienza, del volontariato, del lavoro e della produzione.
****
Per il nostro Paese la permanenza in Europa è condizione essenziale per non distruggere le conquiste di tre generazioni di italiani. Fuori dall’Europa e dall’euro ci sono la povertà e l’irrilevanza internazionale. Per rimanere in Europa non bastano tuttavia dichiarazioni di intenti, servono politiche per la crescita e lo sviluppo sociale capaci di ridurre il divario, significativamente aumentato negli ultimi trent’anni, con gli altri grandi paesi dell’Unione. Se così non sarà, la nostra permanenza nell’euro e nell’UE diverrà insostenibile. Stiamo pagando le conseguenze di un lungo periodo in cui abbiamo investito meno e speso peggio degli altri paesi europei. La responsabilità di questi errori è interamente nostra.
Negli ultimi anni, grazie a normative e fiscalità più favorevoli, le imprese italiane hanno fatto uno sforzo importante per ammodernarsi, investire e internazionalizzarsi con effetti positivi, ancorché insufficienti, su crescita e occupazione. Il rapporto deficit/PIL si era ridotto e lo spread era tornato sotto controllo.
L’azione e le dichiarazioni del nuovo Esecutivo hanno avuto immediati effetti negativi per la finanza pubblica, i risparmi e l’economia. Investimenti, industria, infrastrutture, scuola, università, ricerca e lavoro sono scomparsi dall’agenda di Governo e dalla legge di bilancio. I giovani per primi pagheranno il conto degli errori commessi. Intanto lo spettro di una nuova recessione si sta affacciando in Italia, mentre le prospettive dell’intera economia mondiale sono più incerte. Il nostro Paese non è più in sicurezza.
I due partiti che formano il Governo hanno sganciato l’Italia dal gruppo dei grandi paesi fondatori dell’UE. L’Italia è il primo grande Stato occidentale a essere guidato da forze che dichiarano apertamente di considerare il ruolo del Parlamento, l’indipendenza e l’autorevolezza delle istituzioni dello Stato, il valore dei trattati internazionali e il rispetto dei diritti civili come intralcio per l’azione del Governo. L’involuzione non è solo politica, ma anche culturale: basti pensare alla scarsa considerazione per il ruolo delle donne nella società – che rimane uno dei grandi mali dell’Italia -, all’avversione per la scienza e per la competenza– dall’ambiguità sui vaccini alla schedatura politica degli scienziati – e all’ostilità verso le minoranze e gli immigrati.
In queste condizioni la permanenza dell’Italia nell’UE e nell’euro è a rischio. Le rassicurazioni di chi fino a ieri predicava l’uscita dalla moneta unica e ancora oggi si ispira apertamente a leadership non democratiche straniere, non hanno alcuna credibilità.
****
Le prossime elezioni europee saranno il momento decisivo per dimostrare che vogliamo rimanere saldamente in Europa e in Occidente.
L’importanza della sfida elettorale europea e la difficile situazione dei partiti di opposizione, impongono una risposta straordinaria, unitaria – ma coerentemente limitata a chi non cerca alleanze nazionali con i partiti di governo– che vada oltre le forze oggi in campo.
Per questo è necessario costruire alle prossime elezioni europee una lista unitaria delle forze civiche e politiche europeiste. La sfida sarà vinta solo se riusciremo a coinvolgere i cittadini, le associazioni, le liste civiche, il mondo del lavoro, della produzione, delle professioni, del volontariato, della cultura e della scienza, aprendo le liste elettorali a loro qualificati rappresentanti.
Non si chiede ai movimenti che vorranno partecipare di scomparire, ma di partecipare a uno sforzo più ampio. Non si chiede di nascondere identità o simboli che sono stati costruiti con fatica e impegno, ma di schierarli dietro una bandiera che possa rappresentare chi ha perso fiducia nei confronti delle singole sigle politiche ma non nel progetto europeo.
All’indomani delle elezioni, la scelta degli eletti di aderire, a seconda della provenienza politica e culturale, a gruppi parlamentari europei diversi, lungi dal costituire un problema, rappresenterà l’anticipazione di una rifondazione delle grandi famiglie politiche europee che dovrà necessariamente avvenire lungo una nuova linea di frattura: quella che separa i sovranisti illiberali dagli europeisti democratici.
Ma nessuna sfida si vince giocando solo in difesa. Per questo la convergenza tra le forze europeiste si deve fondare su priorità forti e condivise.
Le nostre priorità per una Europa nuova, che offriamo alla discussione e al dibattito, sono:
  1. Gestire le trasformazioni: investire e proteggere. Al centro dei piani per una nuova Europa va messo un “New Deal” per l’uomo nell’era digitale. Non esiste un’equa distribuzione della ricchezza senza un’equa distribuzione della conoscenza. Va quindi combattuto senza quartiere l’analfabetismo funzionale, che sta minando le democrazie persino più delle diseguaglianze economiche, destinando una quota più rilevante dei fondi strutturali all’istruzione, alla formazione e alla cultura. La gestione delle conseguenze dalla globalizzazione e dall’innovazione non può essere più lasciata interamente al mercato. Dovranno essere finanziati a livello europeo strumenti per la formazione permanente dei lavoratori. E’ urgente e indispensabile la fondazione di un nuovo sistema di welfare 4.0 che comprenda il sussidio di disoccupazione europeo proposto dall’Italia. Laddove esistono alti tassi di conoscenza diffusa e un welfare efficace il populismo non attecchisce. Andranno eliminate inoltre le distorsioni provocate dal dumping fiscale, sociale e ambientale interno ed esterno all’Unione, attraverso accordi commerciali più stringenti e una “corporate tax” armonizzata per i paesi dell’Unione. Deve essere finalmente varata una incisiva politica industriale comune che supporti gli investimenti produttivi tecnologici e scientifici.
  2. Insieme più forti nel mondo. Difesa, sicurezza, controllo delle frontiere e immigrazione devono diventare politiche comuni. Dobbiamo iniziare il percorso per costruire un esercito europeo e unificare i bilanci della difesa degli stati membri. Prioritario è implementare per intero il “Migration Compact”: il piano presentato dall’Italia per aiutare i paesi di origine e transito dei migranti nella gestione dei flussi, nell’assistenza umanitaria e nei rimpatri. Il controllo dei confini comuni, marittimi e terrestri, deve diventare un compito delle agenzie comunitarie. La gestione ordinata e condivisa dei flussi migratori è la premessa per superare il Trattato di Dublino e organizzare un sistema di accoglienza e integrazione comune.
  3. Meno deficit più bilancio europeo. La capacità di indebitamento non dipende dai limiti europei ma all’entità del debito dei singoli Stati membri. Possiamo ignorare le regole ma non per questo troveremo chi ci presta soldi per finanziare deficit insostenibili. Tuttavia nei prossimi anni il livello degli investimenti dovrà aumentare in modo significativo e lo strumento fondamentale non potrà che essere il bilancio europeo. Oggi quasi l’80% del budget UE proviene da contributi degli Stati membri. Deve invece essere costituito da risorse proprie per finanziare welfare, investimenti, ricerca e formazione.
  4. Dal capitale economico al capitale sociale. Una dura lezione che molti governi occidentali hanno imparato negli ultimi anni è che una robusta crescita economica non si accompagna necessariamente a un’equa distribuzione della ricchezza, delle opportunità e del progresso complessivo della società. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite devono essere inclusi, al pari di quelli relativi alla stabilità finanziaria, nella governance dell’Unione.
  5. Conseguire una leadership scientifica europea. La rivoluzione digitale, i cambiamenti climatici, la necessità di energia sostenibile, gli straordinari progressi della medicina, a costi però sempre più alti, rappresentano sfide che non possiamo perdere. Stati Uniti, Cina e Giappone stanno investendo in questa direzione importanti risorse economiche. Se l’Europa non si adegua in fretta perderà opportunità di sviluppo e occasioni di crescita per i suoi giovani talenti. Molto è stato fatto negli ultimi anni per incrementare la ricerca scientifica europea ma il divario con gli altri grandi paesi si va comunque allargando. Il rafforzamento della collaborazione tra università e centri di ricerca degli Stati membri e l’aumento del bilancio europeo destinato a progetti comuni è un obiettivo fondamentale per affrontare il XXI secolo.
  6. Un “gruppo di Roma” per rifondare l’Europa. Alcuni Governi del cosiddetto “gruppo di Visegrad” sfruttano ogni possibile beneficio economico derivante dalla partecipazione all’Unione e al mercato unico – dai fondi strutturali alle delocalizzazioni – rifiutando tuttavia di assumersi responsabilità comuni – ad esempio sui migranti – mentre si allontanano sempre più dai valori europei. A queste condizioni la loro presenza all’interno dell’Unione è una minaccia per l’Europa e per l’Italia. A questi Governi va contrapposto un “gruppo di Roma” composto dal nucleo dei paesi fondatori “allargato”, che definisca un’agenda precisa per l’avanzamento del progetto europeo. Si dovrà rapidamente decidere se andare avanti tutti insieme o se optare per un’Europa a differenti gradi di integrazione.
Nella consapevolezza dell’importanza del momento storico, i firmatari di questo appello sono pronti a mobilitarsi per sostenere uno schieramento unitario delle forze europeiste, ognuno secondo le proprie competenze e le proprie possibilità.
La Storia è tornata in Europa. Siamo chiamati a difendere diritti e conquiste che abbiamo ereditato, costruendo un’Europa nuova capace di vincere le sfide dei prossimi decenni.

giovedì 17 gennaio 2019

pagella e sacchetti di terra


"Una pagella piegata con cura, cucita nella povera tasca di un quattordicenne del Mali: la speranza del suo viaggio verso l’Europa."
Non riesco a smettere di piangere
Voleva far vedere al nuovo mondo alla nuova vita... che era bravo.


La Dottoressa Cattaneo nel suo libro “Naufraghi senza volto “ racconta dei giorni passati a lavorare sui corpi dei naufraghi della tragedia del 18 aprile 2015 dove 800 persone persero la vita nel Mar Mediterraneo.
Racconta dei tanti oggetti trovati sui poveri corpi.
Fra gli altri una pagella, con ottimi voti, cucita in un indumento di un ragazzino 14enne proveniente dal Mali.
Una storia straziante.
Ma la cosa che mi ha più colpito è il ritrovamento una grande quantità di sacchetti di terra, la terra di casa ...la loro terra.
Non è stata una sorpresa scoprirlo perché solo chi non è mai stato costretto ad andarsene dalla propria terra non potrà mai capire perché è così importante averne anche un pugno con se per un viaggio così pericoloso.
 

martedì 15 gennaio 2019


Questa mostra parla prima di tutto di storie, quelle che ho scoperto durante due viaggi presso l’istituto EFFETA’ di Betlemme, voluti dalla Fondazione Giovanni Paolo II per documentare le attività che la scuola, così all’avanguardia nonostante le avversità del territorio palestinese, riesce a portare avanti.
Fin da subito però mi sono accorto che tutto passava in secondo piano rispetto al grande trasporto emotivo che questo luogo generava in me. Il grande valore del sistema didattico, della logopedia, dell’accoglienza per i bambini più poveri sono nulla, se così si può dire, rispetto alle emozioni trasmesse dagli sguardi, dagli abbracci, dai sorrisi delle decine di bambini incontrati, sfortunati nella sordità ma pieni di vita e soprattutto di speranza.
E’ di speranza quindi che le fotografie di questa mostra vogliono parlare, con un approccio documentativo che non dimentichi però il valore così profondamente umano delle storie personali.
Vi auguro una buona visione, ma soprattutto che gli occhi di questi bimbi possano catturarvi come hanno catturato me.

Federico Ghelli
Autore

fanatismo europeo


giovedì 10 gennaio 2019

proprio così


"Anarchico , a Dio solo soggetto"

Ore una del 27 Novembre 1953 

Carissimo Amintore, 
è mezzanotte, non prendo sonno, e sento la necessità di rispondere subito a qualche punto essenziale della tua lettera odierna. 
Anzitutto: vedi caro Amintore; io non sono un "sindaco"; come non sono stato un "deputato" o un "sottosegretario": non ho mai voluto essere né sindaco, né deputato, né sottosegretario, né ministro (ricordi l'offerta di De Gasperi?). 
Quanto al "sindaco" mi pare che il mio telegramma di una quindicina di giorni fa parla chiaro. 
E la ragione di tutto questo è così chiara: la mia vocazione è una sola, strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell'Evangelo... mi sarete testimoni (eritis mihi testes) mia vocazione. la sola. è tutta qui! 
Sotto questa luce va considerata la mia "strana" attività politica: non bisogna dimenticare che durante i tempi più acuti e dolorosi del fascismo è stata questa mia vocazione di "testimonianza a Cristo" a mettermi in prima linea nella trincea del più aspro combattimento. 
E se poi, necessariamente, i cattolici italiani mi misero in prima linea nella vita politica -costringendomi!- quella vocazione di testimonianza fu, almeno come ideale, la sola stella della mia azione. Veniamo ora al "sindacato": figurati, se io posso rinunziare alla verità ed alla giustizia per servire alla lettera della legge: e poi: quale legge? 
Guardare senza operare alle iniquità che si nascondono sotto i velami della legge? Summum jus summa iniuria dicevano i romani; e S. Tommaso: non est lex sed corruptio legis: non è legge ma corruzione della legge! Osservare duemila sfrattati senza intervenire in qualsivoglia modo? Quali iniquità: leggi che hanno un solo destinatario: il disgraziato, il povero, il debole; per caricare su di lui altri pesi ed altre oppressioni (legge sfratti, fatta alla insegna D.C.)! 
Osservare novemila disoccupati senza intervenire in qualsivoglia modo? Senza stimolare, per vie diritte e per vie storte, un governo apatico, quasi ignaro del dramma quotidiano del pane di novemila disoccupati? Non c'è danari: quale formula ipocrita e falsa: non c'è danari per i poveri la formula completa e vera! Siamo un paese povero: altra formula ipocrita: siamo un paese povero pei poveri, è la formula vera! 
Osservare duemila licenziamenti in atto (e 2000 in potenza) consolandomi con le esigenze della "congiuntura economica" e del non dar "esca ai comunisti"? 
lo resto stordito quando penso queste cose! Ma come: duemila licenziamenti illegittimi. nulli giuridicamente: una azienda grandissima e famosa illegittimamente chiusa; un colossale arbitrio economico, giuridico, politico, sociale: si grida, si dà l'allarme, si dice che qui la nequizia ha raggiunto il limite dell'intollerabile; che Dio stesso prenderà vendetta di questa iniquità senza nome; ed ecco che un "sindaco" che si preoccupa di queste cose -e di che cosa deve preoccuparsi, solo delle fanfare!- deve vivere (come io vivo da qualche mese) ai margini della legge, denunciato per reati, preparato a varcare  (e non retoricamente) la soglia delle carceri. 
Ti parrà inverosimile: ma io proprio oggi dicevo alla mia segreteria -se dovesse capitarmi qualcosa (fermo, arresto, etc.) fate così e così! E non lo dicevo per ischerzo, ma con l'amarezza nel cuore. Solo mi dava consolazione quel Salmo che Gregorio VII fece scrivere sulla sua tomba a Salerno (in esilio): " dilexi justitiam, odivi iniquitatem, propterea morior in exilio"54. 
Quando ci ripenso resto davvero stordito: è possibile tutto questo? Sogno o realtà? Realtà; in questo nostro paese, dopo 10 anni di "regno" politico all'insegna D.C. siamo al punto di dovere temere (almeno per me) le stesse iniquità che si temevano al tempo del fascismo. Fra i potenti ed i deboli la scelta è pei potenti: fra i pochissimi industriali (una ventina) ed i milioni di lavoratori, la scelta è pei pochissimi industriali; venti uomini ricchi, forse corrotti, comunque corruttori (perché hanno in mano la stampa e se ne servono pei fini di più manifesta ingiustizia) comandano al governo, al Parlamento, al Paese; e riescono sino al punto di incrinare, in qualche modo, una amicizia da Dio stesso misteriosamente saldata! 
Potenza davvero demoniaca: solo la parola del Signore pei ricchi e per mammona dà luce a questo mistero di iniquità e di potenza. Pecuniae omnia deserviunt! 
Quindi caro Amintore: non dirmi: tu sei sindaco etc.: lo non sono "sindaco". Tu sai che ho messo nelle mani del governo il mandato; non voglio esserlo, se esserlo significa dire nero al bianco e bianco al nero. Non dire che bisogna essere prudenti etc.: c'è un momento nella vita in cui gridare è il solo dovere: come S. Giovanni nel deserto! 
Temere di che? Quando l'umiliazione e l'offesa dei deboli  perviene sino al grado al quale è qui pervenuta non resta che lo sdegno, ardito, generoso, fiero per tutelare la personalità umana : del debole così offesa e così sprezzata! Mihi fecistis. Il Vangelo ha pagine di incomparabile grandezza in proposito: perché alle beatitudini fanno riscontro le dolorose invettive: vae vobis (guai  a voi!) 
In queste condizioni, vedi, non conviene avere un "sindaco" ribelle come io sono: è per questo che io non ho voluto essere mai membro tesserato del partito: per questo non vorrei mai più essere impegnato in "responsabilità" ufficiali: la mia vocazione è una sola, strutturale, non rinunziabile, non modificabile, che non può essere tradita: essere testimone di Cristo, per povero e infedele che io sia! 
Queste cose tu le puoi dire a chi è necessario ed utile che le sappia: mi possono arrestare: ma non tradirò mai i poveri, gli indifesi, gli oppressi: non aggiungerò al disprezzo con cui sono trattati dai potenti l'oblio od il disinteresse dei cristiani. 
Ecco perché fraternamente ti dico: mandatemi via; è meglio per tutti. 
Ormai la mia situazione è ufficialmente "spezzata", senza recupero; mi sento libero, senza freni della "prudenza" politica: in queste condizioni è meglio per tutti che avvenga una chiarificazione ed una liberazione! 
Amintore caro, mi sono spiegato? Tu come ministro dell'Interno non mi incuti nessuna paura, e non mi susciti neanche (perdona) speciale rispetto: "l'autorità" appare ai miei occhi solo come tutrice dell'oppresso contro il potente. 
Se ti voglio bene, e molto, se ti sono fedele, e molto, ciò è per una sola ragione: perché so che Dio ha posto nel tuo animo una intelligenza e una volontà fatti per instaurare nel mondo un "colloquio coi poveri ".
Ogni tanto tu ti ricordi di essere anche ministro degli Interni: ma allora -proprio allora- io mi sento staccato: riprendo la mia libertà totale la mia "permanente franchigia" di uomo che non ha mai chiesto di essere dove è e mi sento libero, "anarchico", a Dio solo soggetto! 
Sindaco? Neanche per idea! Prefetti, ministri, etc? Non contano nulla se la loro posizione contrasta con gli ideali pei quali soltanto posso spendere la mia energia e la mia interiorità! 
Caro Amintore, se non c'eri tu in questo governo, la vertenza Pignone avrebbe avuto ampiezze ben più vaste di quelle che essa ha già assunte: lo dico a tutti: il mio punto di debolezza è Fanfani! 
Concludiamo: non temere: a Firenze non avverrà nulla di spiacevole per te e per me: è solo necessario che il Prefetto non si preoccupi della cosa: che non ci pensi. lo mantengo i contatti essenziali: la Magistratura ha senso di responsabilità; sa che il caso di Firenze è unico e va coi piedi di piombo; e il tempo è a nostro vantaggio. 
Tu devi fare questo, io credo: chiudere in una stanza scura, se necessario, Di Vittorio, Pastore e Costa affinché pervengano ad una decisione di questa iniqua e dolorosa vertenza: altra via non c'è: e intanto provvedere alla ripresa del lavoro che per colpa dell'azienda è stato allentato e quasi "sospeso" sin dallo scorso marzo! 
Perdonami per questo sfogo così vivo e così sincero: ma non avrei ripreso sonno se non ti avessi scritto: se non ti avessi detto che la mia vocazione non è quella di sindaco o di deputato o di altro: è una vocazione di testimonianza semplice e rude, dove è necessario, che, perciò, la legge scritta vale, ai miei occhi, solo se essa non è strumento di oppressione e di fame! 
E queste cose che ti scrivo sono anche un documento dell' affetto grande che a te mi unisce: tanto più grande quanto più libero: perché esso non ostacola -e lo hai provato in queste circostanze- quella mia totale libertà di "movimento" che è l'unica ricchezza che io possiedo, l'unica gioia che io godo, l'unica potenza di cui io dispongo! 
La libertà che Cristo mi ha donato. E su questa libertà si radica il dolce e confortevole canto di Maria: Magnificat anima mea Dominum! 

Con fraterno affetto 
La Pira

martedì 8 gennaio 2019

SE FOSSE TUO FIGLIO...

Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.

Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.

Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
te la prenderesti con il pescatore che non presta la barca,
urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
anche a rischio di odiare il mondo,
i porti pieni di navi attraccate.
e chi le tiene ferme e lontane
e  chi, nel frattempo
sostituisce le urla
con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
perché una rabbia incontrollata potrebbe portarti
a farli annegare tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Puoi dormire tranquillo
E sopratutto sicuro.
Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell’umanitá perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.

Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo.

domenica 6 gennaio 2019

Lo Stato dà e toglie



Mehdi, il sogno spezzato per decreto

Mehdi ha il permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale perché proveniente da uno Stato in guerra, ma anche a lui è arrivato il rifiuto a concedere la residenza in base al cosiddetto Decreto Sicurezza


Mehdi, il  sogno spezzato per decreto
don Gino Rigoldi
È arrivato anche ad uno dei miei ragazzi il rifiuto del Comune di Milano a concedere la residenza sulla base del cosiddetto Decreto Sicurezza. Mehdi ha il permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale perché proveniente da uno Stato in guerra e spera in un futuro possibile anche se lontano dalla sua famiglia e dalla sua patria. È bello vedere un adolescente che sogna cose concrete e semplici: un lavoro, poi una casa e infine una famiglia «tranquilla», lontana dalle violenze e da una vita al limite della sopravvivenza. È un ragazzo molto intelligente, capace di relazioni positive, di accettare dei compiti faticosi, rispettoso degli altri e riconoscente verso chi lo ha accolto e lo ospita. Per me è come avere un altro figlio. Ha avuto il permesso di soggiorno, lo Stato lo ha dichiarato accolto ma poi dopo il «Dpr 113/2018» gli impedisce di avere la residenza anagrafica e quindi gli proibisce il lavoro, la cura della salute, la casa e sembrerebbe gli proibisca pure di esistere. Il ministro dell’Interno dice che è contro i clandestini ma Mehdi ha un permesso di soggiorno rilasciato regolarmente dalla questura, non è clandestino. Ha certamente un grave difetto: è povero. E perciò dice il ministro: «Prima gli italiani». Come se l’umanità avesse colore o nazionalità, come se la guerra o la fame fossero un male che tocca a chi tocca. Noi possiamo solo guardare. Magari guadagnare un poco in petrolio e in armi, ma accogliere i fuggitivi poveri no.


È di moda dire che è finita «la pacchia» per gli stranieri clandestini ma questa legge «sicurezza» vuole fuori anche quelli regolari. Quelli poveri si capisce, mica per esempio quelli del Quatar. Questi miei ragazzi come tutti i richiedenti asilo sono come i bambini che si possono prendere a botte, possono solo piangere. Io credo che debbano essere difesi. Bene, io vivo veramente «una pacchia» che è quella di accogliere ragazzi in fuga senza chiedere rette a nessuno. Sono molto fortunato, è veramente «una pacchia» quella di essere un uomo capace di compassione creativa, appassionato per la giustizia con il piacere e il privilegio della solidarietà. E poi, essendo un cristiano, la mia pacchia è poter ubbidire al comando di Gesù che ha dichiarato benedetti quelli che lo hanno accolto nei poveri. Nella fede cristiana uno ci può stare oppure no, mica è obbligatorio, ma la fede non si può inventare, o si è dentro o si è fuori. Tutte cose già scritte duemila anni fa. Consiglierei al ministro dell’Interno e a tanti preti e laici di andare a leggere il capitolo 25 di San Matteo, la descrizione del Grande Giudizio. Potrebbe essere salutare.

sabato 5 gennaio 2019

per non dimenticare

Trentacinque anni fa l'omicidio di Giuseppe Fava: il cronista e scrittore, fondatore del mensile "I Siciliani", fu assassinato dalla mafia la sera del 5 gennaio 1984, davanti all'ingresso del teatro Stabile di Catania. Con le sue inchieste, Fava riuscì a disvelare oscuri intrecci politico-mafiosi, denunciando con coraggio il malaffare, e pagando con la vita il suo impegno al servizio del diritto dei cittadini di essere informati. Per il delitto sono stati condannati in via definitiva all'ergastolo il capomafia catanese Benedetto Santapaola e l'esponente dello stesso clan Aldo Ercolano.

Salvini ti scrivo

Dario Nardella
5 gennaio 2019
Nel diluvio di dichiarazioni del ministro dell’Interno Salvini me ne sono persa una di ieri alla radio: "Ridurre sprechi e privilegi è una priorità. Ci sono alcuni sindaci di grandi città che prendono 4-5mila euro al mese - dice Salvini - Bisogna premiare sindaci bravi e governatori bravi e magari punire quelli che non lo sono".
Confesso che prima di questo ennesimo attacco ai sindaci ero pronto a non meravigliarmi più di nulla di Salvini. Non è così. Il ministro è andato oltre ogni mia immaginazione, nel suo linguaggio sprezzante intriso di odio e sarcasmo.
Decide lui chi sono i sindaci bravi e non bravi, in un delirio di onnipotenza, sputando su quell’idea di democrazia che ha portato milioni di italiani a scegliere il proprio sindaco.
Poi pretende di stabilire le punizioni per chi a suo giudizio non lavora bene. Caro Salvini, mi sarebbe fin troppo facile ricordare il suo lauto stipendio da europarlamentare - 4 volte più di uno di quei sindaci che sbeffeggia - o quello attuale da ministro, di 110.000 euro.
E potrei chiedermi se il Salvini che parla di sprechi sia lo stesso che tace meschinamente sui 49 milioni di euro illecitamente sottratti dalla Lega. Un fatto che se fosse capitato a qualunque dei suoi avversari l’avrebbe indotta a gridare allo scandalo.
Ma non voglio abbassare ulteriormente il già misero livello di polemica al quale sta sottoponendo il nostro Paese, stanco di questo vostro bullismo istituzionale e di questo circo degli insulti.
Piuttosto mi chiedo: con quale faccia lei - che due anni fa istigava i sindaci a non applicare le leggi - ora li chiama “traditori” e “incapaci”? Con che coraggio intima loro punizioni e ispezioni? Lei che non sa cosa significhi fare il sindaco perché non lo ha mai fatto e forse non ha il coraggio di farlo. Lei che non sa cosa significhi rischiare ogni giorno civilmente e penalmente per un qualunque atto, commesso magari per aiutare un cittadino in difficoltà, visto che ha sempre beneficiato a Bruxelles e a Roma delle immunità. Lei che non sa cosa voglia dire essere il primo a entrare nel proprio municipio e l’ultimo a uscirne, spesso dopo 14 ore di lavoro o passare le giornate in strada a vivere ansie, paure e speranze dei propri cittadini. Lei che non ha mai provato cosa significhi indossare la fascia tricolore.
Si “abbassi”, caro ministro, al livello dei sindaci italiani, che sono la parte sana della democrazia, l’antidoto credibile di una politica misera che ha perso ogni credibilità. Lo faccia. E poi trovi un barlume di dignità personale nel profondo della sua coscienza per chiedere scusa a 8000 sindaci italiani e a chi li ha votati. Se non lo vuole fare per noi, almeno lo faccia per la dignità della Repubblica che lei dovrebbe rappresentare. Già che ci siamo, si tagli lo stipendio fino a quello di un sindaco di una grande città italiana risparmiandoci troppi proclami.

giovedì 3 gennaio 2019

riscossa urgente




Centopiazze. Uno spettro si aggira per l’Europa.


Novembre 2018
Nasce a Brescia  Centopiazze
Uno spettro si aggira per l’Europa. È un sentimento – ostile al progetto europeo – che si nutre di insoddisfazione, rabbia sociale, impossibilità di vedere, nell’attuale assetto, una reale comunità di valore che si fa garante del benessere, della sicurezza e del futuro dei cittadini. Un sentimento che in maniera sempre più estesa nel nostro continente si traduce, alle urne, in voti a favore di compagini sovraniste e populiste che possono minacciare concretamente l’idea stessa di Unione Europea e mettere in discussione quella di democrazia.

CENTOPIAZZE è un progetto che intende creare uno spazio di confronto aperto reso fecondo dall’incontro di persone alla ricerca di una nuova idea di futuro, meno esposta ai rischi di chiusura, di paura e di rassegnazione.

La politica è l’arte dell’immaginare il futuro e i mezzi per realizzarlo, pratiche che richiedono studio e speranza.

CENTOPIAZZE si propone di dare evidenza alle migliori esperienze sociali e culturali proprio per favorire la conoscenza e alimentare la speranza, ispirandosi alle tradizioni del cattolicesimo democratico e alle forze riformiste che hanno contribuito alla crescita civile del nostro Paese e del nostro territorio.

Come una piazza (luogo della politica per eccellenza) sarà sede di relazione e incontro, ma anche luogo di lavoro (che è, insieme, una priorità e un metodo) e di memoria.

Abbiamo però scelto di declinarla al plurale per amplificare l’idea di apertura e fluidità a cui ci sta abituando il nostro tempo. Lo facciamo per trarne gli aspetti positivi: varietà, dinamismo e allargamento degli orizzonti, anche geografici, verso quelli europei.

La discussione, l’approfondimento e l’organizzazione di eventi pubblici saranno gli strumenti per la creazione di relazioni e la riscoperta della dimensione autenticamente popolare dell’impegno politico.

CENTOPIAZZE è una scommessa che nasce in un momento difficile per l’Italia e per i nostri territori. Anche in un’epoca che pare aver accelerato il passo, esistono processi lunghi, che richiedono tempo, come quelli della tessitura di una cultura politica. Essere in grado di guardare oltre al presente, non cedendo alla rassegnazione, è ciò che ci ha spinto a metterci in piazza.

Una nuova Primavera a Palermo?



 “Nessuno è obbligato a obbedire a una legge immorale. E’ tempo di recuperare la nostra coscienza e di obbedire alla coscienza, prima che all’ordine del peccato” (san Romero).

mercoledì 2 gennaio 2019

CI SONO DISCORSI COME QUELLI DI FINE ANNO DI MATTARELLA E MERKEL E QUELLO DI CAPODANNO DI PAPA FRANCESCO CHE LASCIANO IL SEGNO, PER TANTE RAGIONI.

Pierluigi Castagnetti
2 gennaio 2019
Per l'autorevolezza di chi li pronuncia. Per il tempo in cui vengono fatti. Per il merito delle cose dette. Per il sentimento che raccolgono nel profondo dell'anima del paese. Per la sensazione che determinano in chi li ascolta.
Prendiamo il discorso del nostro Presidente della Repubblica: sui social abbiamo letto, tra le migliaia e migliaia, addirittura milioni, di reazioni tanti cittadini che hanno dichiarato di essersi commossi. Perchè?
Io penso soprattutto perché la gente da molto tempo non si sente interpretata e rappresentata dalle istituzioni, le sente distanti e parlanti un linguaggio stereotipato o non sufficientemente "umano". O non credibilmente responsabile. Al massimo sente politici che parlano la lingua della rabbia dei cittadini, ma non quella della responsabilità, cioè della soluzione o almeno della via da seguire. Il discorso di Mattarella ha colmato queste lacune, ha creato la sensazione "vitale" di fare sentire i cittadini veramente capiti in ciò che chiedono.
L'odio, infatti, dà si corpo e proiezione alla rabbia, ma non appaga, anzi ti lascia in bocca l'amaro dello sfogo e se la politica si limita a questo l'amaro aumenta. Le parole facili e false di chi ti spiega che tutto è risolto ti creano invece indignazione perché ti fanno sentire preso in giro.
Quando invece sentì un politico, ancor di più un rappresentante delle istituzioni, il massimo rappresentante, che parla pacatamente il linguaggio della verità e della responsabilità, frutto di ascolto (quando sono stato a Torino..., quando sono stato a Verona...) e di intelligenza degli eventi (ho firmato la legge di stabilità solo poche ore dopo la sua approvazione per evitare l'avvio della procedura di infrazione...) allora capisci che il paese non è abbandonato nè in balia degli improvvisatori, e ti senti tranquillizzato. È possibile infatti non riconoscersi in nessuna storia politica del passato e detestare anche tutti i politici di passate stagioni, ma a un certo punto del presente capisci che occorre una solidità di pensiero e di esperienza per guardare avanti, guardare cioè a quel luogo che sarà abitato dai tuoi figli e nipoti, che chiamiamo futuro. E, allora, l'apprezzamento per le cose ascoltate, diventa sensazione di benessere, psicologico e spirituale e, dunque, fisico.
Per ciò io penso che quel discorso andrebbe riascoltato: serve a capire meglio le ragioni del consenso che ha registrato. E serve, in particolare, ai politici. Quella battuta sorprendente e felice sulla "tassa sulla bontà" segnala ad esempio un limite che si è varcato e che non si sarebbe dovuto, così come altri limiti disinvoltamente varcati anche in passato e da altri. Varcare i limiti che definiscono il comune sentire della nostra civiltà non è infatti mai segno di modernità, ma semmai solo di inconsapevolezza di un minimo senso storico. E morale.
Per fortuna la maggioranza degli italiani lo capisce.