Corriere della Sera 16/11/14
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Va molto di moda in questo periodo
parlare e scriver male del mondo della rappresentanza (sindacale,
imprenditoriale, territoriale, politica) come se esso fosse il buco
nero in cui sprofonda ogni meritevole istanza di responsabilità
collettiva e decisionalità pubblica. Ed è comprensibile che siano
proprio i soggetti della rappresentanza a somatizzare la propria
cattiva immagine.
I sindacati dei lavoratori cambiano le
leadership di vertice e al tempo stesso sono tentati di attivare
spallate conflittuali; i partiti vagano nella nebbia, relegandosi
all’accettazione di decisioni verticistiche; le classi dirigenti
locali, sia provinciali sia comunali, si dichiarano disperate,
costrette come sono a difendere risorse necessarie per i servizi
comunitari; le rappresentanze delle professioni medio-alte (dirigenza
pubblica, magistrati, albi professionali, ecc.) vivono alternando
lamento e rabbia per la marginalizzazione ad esse imposte; Rete
Imprese Italia si arrocca sul suo brand e sulla ricchezza vitale
delle piccole e medie imprese (forse con la silenziosa sicurezza che
comunque, ripresa o no, «di qui dovranno ripassare»); e stranamente
solo Confindustria vive con compiacimento il suo inabituale
collateralismo alle politiche governative.
Un crinale di
disfatta, si potrebbe dire, rispetto a una autorità di governo e a
una comunicazione di massa che hanno rilanciato con forza il primato
della politica e dello Stato (e dello Stato centrale) su tutti i
livelli e tutti i soggetti intermedi. Il vento è cambiato rispetto
ai decenni precedenti, quando tutti scommettevano sulla maggiore
vitalità della cosiddetta società civile rispetto alla dinamica dei
partiti.
Questo ritorno, quasi la rivincita, del primato della
politica è per molti liberatorio e inebriante: liberatorio, perché
riduce i vincoli dei tanti particolarismi presenti nella realtà;
inebriante, perché rievoca e promette un’altra fase di quel
perseguimento del nuovo che è tentazione costante delle temporanee
élite della nostra società (dai sessantottini alle prime schiere
berlusconiane). Forse sarebbe però prudente non entusiasmarsi
troppo, tenendo conto che i periodi di nuovo inizio si trovano sempre
e comunque a doversi ri-radicare nella realtà degli interessi, dei
bisogni, delle aspettative della gente; andando necessariamente oltre
quella trasversale empatia consensuale che sfrutta l’attesa
collettiva di eventi innovativi. E tutti, in un tempo non lontano,
dovranno applicarsi a ricostituire le cinghie di trasmissione fra le
domande collettive e la volontà politica, cioè, con parole antiche,
i meccanismi della rappresentanza.
C’è in proposito una
moderna tendenza a pensare che ciò sia possibile non per la strada
dei citati vecchi meccanismi, ma facendo ricorso ad accattivanti e
impressivi testimonial , protagonisti di successo del mondo delle
imprese. Ma se alcuni di essi sono di buona qualità ed immagine, la
maggior parte di loro ha congenite contraddizioni con il ruolo (di
tacita rappresentanza) che viene loro ritagliato: la cosa può andar
bene con un buon imprenditore magari con istinti di leadership ; meno
bene vanno i tentativi di radunare spicciafaccende e lobbisti; e va
ancora meno bene quando si scade a gruppi di indistinti e improbabili
personaggi a grande circolazione mediatica (qualcuno ricorda la
cerchia di «nani e ballerine» che slabbrò l’ appeal politico di
Craxi).
Non è allora del tutto imprevedibile che, superata
l’attuale cattiva forma della rappresentanza, si arrivi a
riconoscere la funzione e i meriti del sindacalista di reparto o del
dirigente delle rappresentanze datoriali che si spendono per la
fidelizzazione degli iscritti, del quadro di partito che si sbatte
sul territorio, e così via; lavori noiosi, per carità, ma le
giunture che tengono insieme il mondo delle imprese e del lavoro
hanno bisogno anche di chi stia ogni giorno «sul pezzo»
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