lunedì 17 novembre 2014

PUTIN, PROVE DI BULLISMO


PAOLO GARIMBERTI
Vladimir Putin sta usando i vertici internazionali per esibizioni di politica muscolare, ricorrendo a forme di bullismo diplomatico che non hanno precedenti neppure nei più sfrontati o arroganti leader dell’era sovietica. L’obiettivo è di far riguadagnare alla Russia quel rispettoso timore che incuteva l’Urss.
MA è una tattica-boomerang, che si sta ritorcendo contro il neo-zar, accentuandone l’isolamento. Anche se in patria ne aumenterà il già straripante consenso. «Perché perdere tempo a parlare a questo Occidente decadente?», ha chiosato uno dei suoi cantori, l’analista Konstantin Kalachev, dopo la stizzita partenza anticipata dal vertice G20 di Brisbane.
La linea celodurista del presidente russo si era già palesata al vertice Asem (Asia-Europa) di Milano, dove era arrivato con un insopportabile ritardo, senza alcuna giustificazione tecnica né scusa diplomatica, a tutti gli appuntamenti del giorno d’apertura, compresa la cena offerta da Giorgio Napolitano a Palazzo Reale per finire con una serie di incontri bilaterali programmati e saltati uno dopo l’altro. Tanto da beccarsi una reprimenda in russo da Angela Merkel (la cancelliera è cresciuta nella Germania Est, dove il russo era la seconda lingua obbligatoria nelle scuole), che alla prima occasione, durante l’incontro a otto sull’Ucraina, aveva sfogato le sua irritazione imputandogli nella lingua-madre la violazione degli accordi di Minsk.
A Brisbane le provocazioni di Putin hanno anticipato il suo arrivo. Quattro navi da guerra russe hanno cominciato esercitazioni davanti alle coste del Queensland, facendo saltare i nervi al poco accomodante premier australiano Tony Abbott, che ha accusato il presidente russo di «voler ricreare la gloria perduta dello zarismo e dell’Unione Sovietica». David Cameron, che anche a Milano aveva manifestato forte insofferenza, ha ironizzato che lui «non aveva sentito il bisogno di portarsi navi da guerra per essere sicuro al G20». Le minacce di disertare gli incontri e di partire in anticipo hanno completato l’operazione antipatia di colui che un popolare tabloid australiano, il Courier Mail , ha definito «la pecora nera della famiglia del G20».
La “pecora nera” si muove sempre più scompostamente (la flotta davanti alle coste australiane è il seguito navale dei raid aerei nei cieli d’Europa che hanno fatto imbestialire la Nato) non perché si sente forte, ma perché è debole, circondato dall’ostilità crescente perfino dei suoi alleati o simpatizzanti. Bielorussia e Kazakistan, potenziali partner di un’unione economica che doveva fare concorrenza all’Unione europea, si sono defilati per non patire l’effetto recessivo delle sanzioni. Slovacchia e Ungheria, che per i loro legami economici con la Russia erano stati i più decisi critici dell’embargo tra i membri Ue, ora hanno cambiato sponda e ne chiedono addirittura un inasprimento.
Putin ha cercato di creare un rapporto speciale con la Cina soprattutto attraverso un accordo per la fornitura di gas siberiano, che in realtà nei piani del Cremlino era un cavallo di Troia per ottenere dalle banche cinesi quei finanziamenti per le banche e le imprese russe che le sanzioni occidentali stanno strangolando. Ma il progetto si è impantanato per il mancato accordo sul prezzo del gas e il rifiuto da parte cinese di prefinanziare il gasdotto. E le banche cinesi hanno condizionato l’apertura di linee di credito all’acquisto di beni prodotti in Cina. Così, qualche giorno fa, Vladimir Yakunin, il boss delle ferrovie di Stato russe e fidatissimo uomo di Putin, ha fatto una dichiarazione che appare una resa: «È stato molto esagerato dire che le istituzioni finanziarie orientali potevano sostituire quelle occidentali. Obiettivamente i finanziamenti che possiamo trovare sui mercati occidentali sono nettamente meglio di quelli dei mercati asiatici». Intanto il rublo ha perso il 23 per cento rispetto al dollaro negli ultimi tre mesi e la Banca centrale russa ha fatto previsioni di crescita zero per il 2015.
Dopo la delusione finanziaria è arrivata anche quella politica. La lunga cena a quattr’occhi, seguita da passeggiata opportunamente fotografata dall’agenzia di stampa ufficiale, tra il presidente cinese Xi Jinping e Barack Obama, in occasione del summit asiatico di Pechino, deve essere stata per Putin un pugno nello stomaco. Gli ha fatto sentire ciò che lui più detesta sentirsi dire: che la Russia è «una potenza regionale in declino » a fronte della Cina, che sempre più legittimamente, per il suo peso economico e anche militare, costruisce «un nuovo tipo di rapporto tra superpotenze» (parole di Xi) con gli Stati Uniti. Il Financial Times ha perfettamente sintetizzato il contrasto, nei metodi e nei risultati, tra l’uomo forte di Pechino e quello di Mosca nel titolo di un suo editoriale: “Lezione della Cina a Putin su come si fa diplomazia: l’approccio costruttivo di Pechino contrasta con le provocazioni russe”.
Ma sarebbe un grave errore sopravalutare l’isolamento di Putin o, peggio ancora, rispondere con la forza o le minacce alle sue provocazioni. L’Ucraina resta una bomba a orologeria. L’intelligence della Nato continua a registrare un rafforzamento del dispositivo militare russo, anche con armamenti molto sofisticati, nella regione controllata dai separatisti. Oltre che un viavai di camion pieni di bare, i “Cargo 200” nel codice linguistico militare russo. La tregua non tiene, i morti sono oltre quattromila. L’obiettivo di Mosca non è chiaro. Sarà la creazione di un corridoio di terra per rifornire la Crimea, isolata dall’inverno che gela i mari? Sarà il consolidamento delle conquiste dei ribelli della Novorossiya? Sarà quello di tenere sulla corda il governo di Kiev dissanguandolo con le spese per la difesa? Difficile dirlo. Quello che è facile dire è che la “pecora nera” del G20 non va sfidata con le sue armi. Ma con quelle della pazienza e della determinazione, le armi con le quali l’Occidente ha vinto la guerra fredda.

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