PAOLO GARIMBERTI
Vladimir Putin sta usando i vertici
internazionali per esibizioni di politica muscolare, ricorrendo a
forme di bullismo diplomatico che non hanno precedenti neppure nei
più sfrontati o arroganti leader dell’era sovietica. L’obiettivo
è di far riguadagnare alla Russia quel rispettoso timore che
incuteva l’Urss.
MA è una tattica-boomerang, che si sta
ritorcendo contro il neo-zar, accentuandone l’isolamento. Anche se
in patria ne aumenterà il già straripante consenso. «Perché
perdere tempo a parlare a questo Occidente decadente?», ha chiosato
uno dei suoi cantori, l’analista Konstantin Kalachev, dopo la
stizzita partenza anticipata dal vertice G20 di Brisbane.
La linea celodurista del presidente
russo si era già palesata al vertice Asem (Asia-Europa) di Milano,
dove era arrivato con un insopportabile ritardo, senza alcuna
giustificazione tecnica né scusa diplomatica, a tutti gli
appuntamenti del giorno d’apertura, compresa la cena offerta da
Giorgio Napolitano a Palazzo Reale per finire con una serie di
incontri bilaterali programmati e saltati uno dopo l’altro. Tanto
da beccarsi una reprimenda in russo da Angela Merkel (la cancelliera
è cresciuta nella Germania Est, dove il russo era la seconda lingua
obbligatoria nelle scuole), che alla prima occasione, durante
l’incontro a otto sull’Ucraina, aveva sfogato le sua irritazione
imputandogli nella lingua-madre la violazione degli accordi di Minsk.
A Brisbane le provocazioni di Putin
hanno anticipato il suo arrivo. Quattro navi da guerra russe hanno
cominciato esercitazioni davanti alle coste del Queensland, facendo
saltare i nervi al poco accomodante premier australiano Tony Abbott,
che ha accusato il presidente russo di «voler ricreare la gloria
perduta dello zarismo e dell’Unione Sovietica». David Cameron, che
anche a Milano aveva manifestato forte insofferenza, ha ironizzato
che lui «non aveva sentito il bisogno di portarsi navi da guerra per
essere sicuro al G20». Le minacce di disertare gli incontri e di
partire in anticipo hanno completato l’operazione antipatia di
colui che un popolare tabloid australiano, il Courier Mail , ha
definito «la pecora nera della famiglia del G20».
La “pecora nera” si muove sempre
più scompostamente (la flotta davanti alle coste australiane è il
seguito navale dei raid aerei nei cieli d’Europa che hanno fatto
imbestialire la Nato) non perché si sente forte, ma perché è
debole, circondato dall’ostilità crescente perfino dei suoi
alleati o simpatizzanti. Bielorussia e Kazakistan, potenziali partner
di un’unione economica che doveva fare concorrenza all’Unione
europea, si sono defilati per non patire l’effetto recessivo delle
sanzioni. Slovacchia e Ungheria, che per i loro legami economici con
la Russia erano stati i più decisi critici dell’embargo tra i
membri Ue, ora hanno cambiato sponda e ne chiedono addirittura un
inasprimento.
Putin ha cercato di creare un rapporto
speciale con la Cina soprattutto attraverso un accordo per la
fornitura di gas siberiano, che in realtà nei piani del Cremlino era
un cavallo di Troia per ottenere dalle banche cinesi quei
finanziamenti per le banche e le imprese russe che le sanzioni
occidentali stanno strangolando. Ma il progetto si è impantanato per
il mancato accordo sul prezzo del gas e il rifiuto da parte cinese di
prefinanziare il gasdotto. E le banche cinesi hanno condizionato
l’apertura di linee di credito all’acquisto di beni prodotti in
Cina. Così, qualche giorno fa, Vladimir Yakunin, il boss delle
ferrovie di Stato russe e fidatissimo uomo di Putin, ha fatto una
dichiarazione che appare una resa: «È stato molto esagerato dire
che le istituzioni finanziarie orientali potevano sostituire quelle
occidentali. Obiettivamente i finanziamenti che possiamo trovare sui
mercati occidentali sono nettamente meglio di quelli dei mercati
asiatici». Intanto il rublo ha perso il 23 per cento rispetto al
dollaro negli ultimi tre mesi e la Banca centrale russa ha fatto
previsioni di crescita zero per il 2015.
Dopo la delusione finanziaria è
arrivata anche quella politica. La lunga cena a quattr’occhi,
seguita da passeggiata opportunamente fotografata dall’agenzia di
stampa ufficiale, tra il presidente cinese Xi Jinping e Barack Obama,
in occasione del summit asiatico di Pechino, deve essere stata per
Putin un pugno nello stomaco. Gli ha fatto sentire ciò che lui più
detesta sentirsi dire: che la Russia è «una potenza regionale in
declino » a fronte della Cina, che sempre più legittimamente, per
il suo peso economico e anche militare, costruisce «un nuovo tipo di
rapporto tra superpotenze» (parole di Xi) con gli Stati Uniti. Il
Financial Times ha perfettamente sintetizzato il contrasto, nei
metodi e nei risultati, tra l’uomo forte di Pechino e quello di
Mosca nel titolo di un suo editoriale: “Lezione della Cina a Putin
su come si fa diplomazia: l’approccio costruttivo di Pechino
contrasta con le provocazioni russe”.
Ma sarebbe un grave errore
sopravalutare l’isolamento di Putin o, peggio ancora, rispondere
con la forza o le minacce alle sue provocazioni. L’Ucraina resta
una bomba a orologeria. L’intelligence della Nato continua a
registrare un rafforzamento del dispositivo militare russo, anche con
armamenti molto sofisticati, nella regione controllata dai
separatisti. Oltre che un viavai di camion pieni di bare, i “Cargo
200” nel codice linguistico militare russo. La tregua non tiene, i
morti sono oltre quattromila. L’obiettivo di Mosca non è chiaro.
Sarà la creazione di un corridoio di terra per rifornire la Crimea,
isolata dall’inverno che gela i mari? Sarà il consolidamento delle
conquiste dei ribelli della Novorossiya? Sarà quello di tenere sulla
corda il governo di Kiev dissanguandolo con le spese per la difesa?
Difficile dirlo. Quello che è facile dire è che la “pecora nera”
del G20 non va sfidata con le sue armi. Ma con quelle della pazienza
e della determinazione, le armi con le quali l’Occidente ha vinto
la guerra fredda.
Nessun commento:
Posta un commento