04 - 11 – 2014 dal blog le
formiche.net
Edoardo Petti
Intervista a Bruno Manghi
Il sociologo già nella Cisl spiega la
fragilità delle tesi del sindacato di Susanna Camusso come frutto
del tramonto della concertazione, promuove con riserva il Job Act e
dice: "La Cgil è la realtà sindacale più prigioniera della
retorica. Si sente l’erede della sinistra politica, e con un
riflesso condizionato sta commettendo gli stessi errori dell’epoca
del referendum sulla scala mobile. È difficile evitarli, poiché se
si alleva uno stuolo di militanti in una logica identitaria poi è
complicato uscirne"
Matteo Renzi ha scelto di portare fino
in fondo l’offensiva contro CGIL e minoranza interna del
Partito democratico. Responsabili a suo giudizio di “voler spaccare
in due l’Italia dividendola tra padroni e lavoratori”.
Per capire quali saranno i riflessi
dell’iniziativa del premier nel mondo sindacale e nei rapporti fra
politica e organizzazioni confederali, Formiche.net si è rivolta al
sociologo Bruno Manghi. Lo studioso, esperto di questioni
sindacali e di formazione cattolica progressista, è stato
protagonista delle lotte dei metalmeccanici nella CISL guidata da
Pierre Carniti.
Il premier sta forzando troppo la mano
con le organizzazioni sindacali?
Matteo Renzi ha compiuto un’operazione
abbastanza aggressiva affermando “Il re è nudo”. Ha detto ai
sindacati: “Non avete più la rappresentatività che venti, trenta
e quarant’anni fa vi consentiva di essere interlocutori
fondamentali per le scelte politico-economiche strategiche”. È
riuscito ad allineare l’Italia alle realtà occidentali, in cui la
legge di bilancio non viene certo discussa con le organizzazioni
confederali.
A questo punto cosa devono fare i
sindacati?
Misurare la loro effettiva capacità di
incidere non nei talk show bensì nelle aziende. Rappresentando i
lavoratori soprattutto a livello locale. Fatta eccezione per il
Belgio e i paesi scandinavi – ove i sindacati esercitano poteri
istituzionali nella gestione del welfare – nel resto dell’Occidente
si registra da molto tempo una perdita di rappresentatività.
Attualmente attestata al 15 per cento circa dei lavoratori. Pensi che
negli Usa le realtà sindacali più nutrite sono quelle degli addetti
delle case di cura. E in Italia delle imprese di pulizia. Il vero
nuovo proletariato.
È una crisi radicale?
Non bisogna esagerare. Perché
nonostante il calo di rappresentatività, il sindacato resta un
veicolo di partecipazione volontaria più vasto di partiti,
confederazioni economico-imprenditoriali, associazionismo religioso.
Coltivando l’aspirazione a divenire
anche il “partito degli imprenditori” il PD di Renzi compie un
salto culturale storico?
L’aggettivo “storico” mi sembra
esagerato. Si tratta di tentativi già perseguiti dalla sinistra
politica nel passato. A partire dal Partito socialista di Bettino
Craxi, che realizzò un investimento nell’ambiente imprenditoriale
con la conferenza programmatica dei “meriti e bisogni” a Rimini
nel 1982. Lo stesso Partito comunista aveva provato a proclamare
“l’alleanza dei produttori”. Per non parlare del socialismo di
Francois Mitterrand, del laburismo di Tony Blair, dei democratici
Usa.
Non vede differenze rispetto
all’offensiva sferrata dal Presidente del Consiglio?
Renzi ci mette più determinazione. Ma
ciò a cui sta lavorando è sempre stato il sogno dei progressisti
una volta abbandonato il radicalismo classista: allargare
l’interlocuzione con gli interessi imprenditoriali. Una realtà
pluralista e poliedrica rispetto alla Confindustria anni Cinquanta.
Lo rivelano le oscillazioni politico-elettorali a favore di Lega
Nord, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi.
La FIOM di Maurizio Landini può
trasformarsi in forza politica?
È normale – e frequente nella storia
del sindacato e della CGIL – che un leader si monti un po’ la
testa quando si sente forte e blandito. Ma sarebbe un errore
gravissimo, poiché il sindacato da decenni non è più determinante
per il consenso politico. Resta incisivo esclusivamente nel terreno
sociale.
Eppure i precedenti non mancano,
neanche fra le “Tute blu”.
Si tratta di figure che non hanno avuto
grande fortuna politica. Pensiamo alla sfida fallita di Luciano Lama
verso il berlinguerismo, o all’isolamento in cui finì relegato
Bruno Trentin nella sinistra politica. Allargando lo sguardo
oltre i confini della CGIL, gli stessi Pierre Carniti e Giorgio
Benvenuto non sono riusciti a trasferire nel mondo politico la
potenza della propria leadership sindacale. Se non è avvenuto con
loro, non accadrà certo con Landini.
Come valuta lo stato dei rapporti tra
governo e sindacati tra articolo 18 e Jobs Act?
L’articolo 18 costituisce un problema
inesistente per gran parte dei cittadini. Compresi i lavoratori
dipendenti, visto che si parla di poche decine di casi per regione e
che tutto ruota attorno all’entità dell’indennizzo da
riconoscere alla persona licenziata. Tutto si complica quando le
cose diventano simboliche. Come avvenne con la vicenda delle 35 ore
nel 1997, che evaporò nell’arco di tre mesi ma sembrava dovesse
far crollare l’Italia.
Sarà un punto simbolico, ma le
tensioni tra Renzi e Susanna Camusso hanno raggiunto l’apice.
La CGIL è la realtà sindacale
più prigioniera della retorica. Si sente l’erede della sinistra
politica, e con un riflesso condizionato sta commettendo gli stessi
errori dell’epoca del referendum sulla scala mobile. È difficile
evitarli, poiché se si alleva uno stuolo di militanti in una logica
identitaria poi è complicato uscirne.
Ma la riforma del lavoro merita il
via libera?
È un provvedimento che contiene
elementi sensati e innovativi. Non so se faciliterà gli investimenti
produttivi. Valutiamo con pragmatismo, misuriamoci con i risultati.
Proviamo. E, se necessario, correggiamo.
La concertazione è tramontata per
sempre?
La grande concertazione ha preso corpo
in Italia nei primi anni Novanta. A causa del collasso dell’assetto
politico, la cui paralisi decisionale fu sostituita con gli accordi
su vasta scala relativi a salari, costo del lavoro, produttività. Ma
poi terminò. A riprova che si tratta di un’emergenza episodica.
Peraltro quel metodo è cosa rarissima nella storia moderna.
Rarissima?
Sì. Venne sperimentata nel corso delle
guerre mondiali, soprattutto in Italia e Usa. Grazie a un’intesa
tripartita in cui tutti – governo, imprenditori e organizzazioni
sindacali – rinunciavano a pretese specifiche per mettersi a
servizio di un progetto collettivo. Poi si riaffacciò in Europa fasi
ben precise del Novecento.
Quali?
L’unificazione tedesca, in cui i
rappresentanti dei lavoratori dovettero affrontare con le istituzioni
federali e regionali il tema della sperequazione salariale tra Ovest
e Est. L’accordo stipulato in Olanda nel 1994 per opera del primo
ministro Wim Kok, che consentì il raggiungimento dell’obiettivo di
uno stipendio per famiglia e l’apertura del part-time a tutti i
cittadini. Il ritorno alla democrazia in Spagna all’indomani della
caduta del franchismo. Tutte stagioni eccezionali. L’alternativa
normale è il confronto e, quando serve, il conflitto sulle strategie
economico-sociali.
Nell’ostilità verso la concertazione
emergono convergenze tra Renzi e Landini?
Forse. Ma non stiamo inventando nulla.
Il sindacalismo nordamericano funziona così da sempre.
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