mercoledì 25 novembre 2020

25 novembre 2020


È la cultura che deve cambiare: le credenza, la storia e il comportamento che stanno alla base della cultura.
Mettere fine alla violenza contro le donne non è una forma di altruismo o qualcosa che si fa come atto caritatevole. Non è neppure qualcosa che si possa stabilire per legge, anche se le leggi contribuiscono a proteggere le donne.
Eve Ensler


martedì 24 novembre 2020

Conte extralarge

 Ho visto Giuseppe Conte ieri sera a Ottoemezzo tv. Se un PdC non ha niente da dire o non vuole dire è comprensibile, ma allora sta a casa. Anche perché andandoci può scapparci qualche sciocchezza, anche grave.

Pierluigi Castagnetti

lunedì 23 novembre 2020

Papa Francesco ai giovani

Cari giovani, buon pomeriggio! 
Grazie per essere lì, per tutto il lavoro che avete fatto, per l’impegno di questi mesi, malgrado i cambi di programma. Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare. L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di San Damiano e da tanti altri volti – come quello del lebbroso – il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del “si è sempre fatto così” – questa è una debolezza! – o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto. La vocazione di Assisi “Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Queste furono le parole che smossero il giovane Francesco e che diventano un appello speciale per ognuno di noi. Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della “normalità” da costruire, voi sapete dire “sì”, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità. Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista»[1] e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati. Attenzione però a non lasciarsi convincere che questo sia solo un ricorrente luogo comune. Voi siete molto più di un “rumore” superficiale e passeggero che si può addormentare e narcotizzare con il tempo. Se non vogliamo che questo succeda, siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.[2] Tutto ciò mi ha spinto a invitarvi a realizzare questo patto. La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra. Una nuova cultura Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento.[3] Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione. In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante.[4] Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze… Ogni sforzo per amministrare, curare e migliorare la nostra casa comune, se vuole essere significativo, richiede di cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».[5] Senza fare questo, non farete nulla. Abbiamo bisogno di gruppi dirigenti comunitari e istituzionali che possano farsi carico dei problemi senza restare prigionieri di essi e delle proprie insoddisfazioni, e così sfidare la sottomissione – spesso inconsapevole – a certe logiche (ideologiche) che finiscono per giustificare e paralizzare ogni azione di fronte alle ingiustizie. Ricordiamo, ad esempio, come bene osservò Benedetto XVI, che la fame «non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale».[6] Se voi sarete capaci di risolvere questo, avrete la via aperta per il futuro. Ripeto il pensiero di Papa Benedetto: la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. La crisi sociale ed economica, che molti patiscono nella propria carne e che sta ipotecando il presente e il futuro nell’abbandono e nell’esclusione di tanti bambini e adolescenti e di intere famiglie, non tollera che privilegiamo gli interessi settoriali a scapito del bene comune. Dobbiamo ritornare un po’ alla mistica [allo spirito] del bene comune. In questo senso, permettetemi di rilevare un esercizio che avete sperimentato come metodologia per una sana e rivoluzionaria risoluzione dei conflitti. Durante questi mesi avete condiviso varie riflessioni e importanti quadri teorici. Siete stati capaci di incontrarvi su 12 tematiche (i “villaggi”, voi li avete chiamati): 12 tematiche per dibattere, discutere e individuare vie praticabili. Avete vissuto la tanto necessaria cultura dell’incontro, che è l’opposto della cultura dello scarto, che è alla moda. E questa cultura dell’incontro permette a molte voci di stare intorno a uno stesso tavolo per dialogare, pensare, discutere e creare, secondo una prospettiva poliedrica, le diverse dimensioni e risposte ai problemi globali che riguardano i nostri popoli e le nostre democrazie.[7] Com’è difficile progredire verso soluzioni reali quando si è screditato, calunniato e decontestualizzato l’interlocutore che non la pensa come noi! Questo screditare, calunniare o decontestualizzare l’interlocutore che non la pensa come noi è un modo di difendersi codardamente dalle decisioni che io dovrei assumere per risolvere tanti problemi. Non dimentichiamo mai che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma»[8], e che «la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità».[9] Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria.[10] Così il futuro sarà un tempo speciale, in cui ci sentiamo chiamati a riconoscere l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta. Un tempo che ci ricorda che non siamo condannati a modelli economici che concentrino il loro interesse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di politiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale.[11] Come se potessimo contare su una disponibilità assoluta, illimitata o neutra delle risorse. No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti «che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti»[12] o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.[13] Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli. Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale. In pieno secolo XXI, «non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori».[14] State attenti a questo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. È la cultura dello scarto, che non solamente scarta, bensì obbliga a vivere nel proprio scarto, resi invisibili al di là del muro dell’indifferenza e del confort. Io ricordo la prima volta che ho visto un quartiere chiuso: non sapevo che esistessero. È stato nel 1970. Sono dovuto andare a visitare dei noviziati della Compagnia, e sono arrivato in un Paese, e poi, andando per la città, mi hanno detto: “No, da quella parte non si può andare, perché quello è un quartiere chiuso”. Dentro c’erano dei muri, e dentro c’erano le case, le strade, ma chiuso: cioè un quartiere che viveva nell’indifferenza. A me colpì tanto vedere questo. Ma poi questo è cresciuto, cresciuto, cresciuto…, ed era dappertutto. Ma io ti domando: il tuo cuore è come un quartiere chiuso? Il patto di Assisi Non possiamo permetterci di continuare a rimandare alcune questioni. Questo enorme e improrogabile compito richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche – che sono isole –, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente.[15] È tempo, cari giovani economisti, imprenditori, lavoratori e dirigenti d’azienda, è tempo di osare il rischio di favorire e stimolare modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità in cui le persone, e specialmente gli esclusi (e tra questi anche sorella terra), cessino di essere – nel migliore dei casi – una presenza meramente nominale, tecnica o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale. Questo non sia una cosa nominale: esistono i poveri, gli esclusi… No, no, che quella presenza non sia nominale, non sia tecnica, non funzionale. È tempo che diventino protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. Ricordatevi l’eredità dell’illuminismo, delle élites illuminate. Tutto per il popolo, niente con il popolo. E questo non va. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. E da loro impariamo a far avanzare modelli economici che andranno a vantaggio di tutti, perché l’impostazione strutturale e decisionale sarà determinata dallo sviluppo umano integrale, così ben elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa. La politica e l’economia non devono «sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana».[16] Senza questa centralità e questo orientamento rimarremo prigionieri di una circolarità alienante che perpetuerà soltanto dinamiche di degrado, esclusione, violenza e polarizzazione: «Ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragion d’essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù. […] Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita – no, non basta questo –, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare»[17]. Neppure questo basta. La prospettiva dello sviluppo umano integrale è una buona notizia da profetizzare e da attuare – e questi non sono sogni: questa è la strada – , una buona notizia da profetizzare e da attuare, perché ci propone di ritrovarci come umanità sulla base del meglio di noi stessi: il sogno di Dio che impariamo a farci carico del fratello, e del fratello più vulnerabile (cfr Gen 4,9). «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente – la misura dell’umanità –. Questo vale per il singolo come per la società»;[18] misura che deve incarnarsi anche nelle nostre decisioni e nei modelli economici. Come fa bene lasciar risuonare le parole di San Paolo VI, quando, nel desiderio che il messaggio evangelico permeasse e guidasse tutte le realtà umane, scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. […] – ogni uomo e tutto l’uomo! –. Noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera».[19] In questo senso, molti di voi avranno la possibilità di agire e di incidere su decisioni macroeconomiche, dove si gioca il destino di molte nazioni. Anche questi scenari hanno bisogno di persone preparate, «prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16), capaci di «vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza».[20] I sistemi creditizi da soli sono una strada per la povertà e la dipendenza. Questa legittima protesta chiede di suscitare e accompagnare un modello di solidarietà internazionale che riconosca e rispetti l’interdipendenza tra le nazioni e favorisca i meccanismi di controllo capaci di evitare ogni tipo di sottomissione, come pure vigilare sulla promozione dei Paesi più svantaggiati e in via di sviluppo; ogni popolo è chiamato a rendersi artefice del proprio destino e di quello del mondo intero.[21] Cari giovani, «oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti».[22] Un futuro imprevedibile è già in gestazione; ciascuno di voi, a partire dal posto in cui opera e decide, può fare molto; non scegliete le scorciatoie, che seducono e vi impediscono di mescolarvi per essere lievito lì dove vi trovate (cfr Lc 13,20-21). Niente scorciatoie, lievito, sporcarsi le mani. Passata la crisi sanitaria che stiamo attraversando, la peggiore reazione sarebbe di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di autoprotezione egoistica. Non dimenticatevi, da una crisi mai si esce uguali: usciamo meglio o peggio. Facciamo crescere ciò che è buono, cogliamo l’opportunità e mettiamoci tutti al servizio del bene comune. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma che impariamo a maturare uno stile di vita in cui sappiamo dire “noi”.[23] Ma un “noi” grande, non un “noi” piccolino e poi “gli altri”, no, questo non va. La storia ci insegna che non ci sono sistemi né crisi in grado di annullare completamente la capacità, l’ingegno e la creatività che Dio non cessa di suscitare nei cuori. Con dedizione e fedeltà ai vostri popoli, al vostro presente e al vostro futuro, voi potete unirvi ad altri per tessere un nuovo modo di fare la storia. Non temete di coinvolgervi e di toccare l’anima delle città con lo sguardo di Gesù; non temete di abitare coraggiosamente i conflitti e i crocevia della storia per ungerli con l’aroma delle Beatitudini. Non temete, perché nessuno si salva da solo. Nessuno si salva da solo. A voi giovani, provenienti da 115 Paesi, rivolgo l’invito a riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri per dar vita a questa cultura economica, capace di «far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo».[24] Grazie!

mercoledì 23 settembre 2020

Papa Francesco: "Si ascoltano più i potenti dei deboli, questo non è il cammino"

All’udienza generale il Pontefice offre una riflessione sul concetto di sussidiarietà sottolineando che oggi si ascoltano più le multinazionali o le grandi compagnie farmaceutiche che i movimenti sociali o gli operatori sanitari. E richiama l'attenzione su "gli scartati" Papa: apriamoci al perdono per combattere l'odio, non tutto si risolve con la giustizia Papa Francesco: si rispettino pianeta e poveri, ridurre emissioni e cancellare debito Papa Francesco: "Globalizzare cure, vaccino Covid sia per tutti" 23 settembre 2020 Nell'udienza generale di oggi Papa Francesco concentra ancora una volta le sue parole sulla lotta alla pandemia che sta mettendo in crisi il mondo. Per trovare rimedi alla pandemia - suggerisce Bergoglio - non possono essere ascoltati solo i colossi farmaceutici. Sul "modo di curare il virus si ascoltano più le grandi compagnie farmaceutiche che gli operatori sanitari, impegnati in prima linea negli ospedali o nei campi-profughi. Questa non è la strada buona. Tutti vanno ascoltati". Il rispetto del principio di sussidiarietà Il Pontefice richiama il principio di sussidiarietà caro all'Europa e dice che "Per uscire migliori da una crisi, il principio di sussidiarietà dev'essere attuato, rispettando l'autonomia e la capacità di iniziativa di tutti, specialmente degli ultimi", ha aggiunto. Dall'attuale crisi si esce "insieme o non funziona: o lavoriamo insieme per uscire dalla crisi o non ne usciremo mai" perché "uscire dalla crisi non significa dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo fanno tutti, e tutti insieme". Ma, rileva Francesco, nella società e nell'economia sta venendo meno il principio di sussidiarietà e così la gente è sempre meno ascoltata. "Oggi, questa mancanza di rispetto del principio di sussidiarietà si è diffusa come un virus. Pensiamo alle grandi misure di aiuti finanziari attuate dagli stati. Si ascoltano di più le grandi compagnie finanziarie - ha sottolineato - anzichè la gente o coloro che muovono l'economia reale. Si ascoltano di più le compagnie multinazionali che i movimenti sociali. Parlando in "dialetto" quotidiano, si ascoltano più i potenti che i deboli e questo non è il cammino umano, non è il cammino che ci ha insegnato Gesù". ..e il rispetto del Pianeta Francesco ha aggiunto che per alcuni politici o lavoratori sociali il motto è: "tutto per il popolo, niente con il popolo" e non si ascolta così "la saggezza del popolo nel risolvere i problemi, in questo caso nell'uscire della crisi". Il papa punta l'indice contro chi sfrutta il pianeta, ad esempio l'industria mineraria, senza sentire la voce delle popolazioni indigene. "Ciascuno deve avere la possibilità di assumere la propria responsabilità nei processi di guarigione della società di cui fa parte. Quando si attiva qualche progetto che riguarda direttamente o indirettamente determinati gruppi sociali, questi non possono essere lasciati fuori dalla partecipazione; la loro saggezza non può essere messa da parte". "Purtroppo, questa ingiustizia si verifica spesso là dove si concentrano grandi interessi economici o geopolitici, come ad esempio certe attività estrattive in alcune zone del pianeta. Le voci dei popoli indigeni, le loro culture e visioni del mondo non vengono prese in considerazione", ha detto il pontefice richiamando uno dei grandi temi che fu al centro del sinodo sull'Amazzonia ma anche dell'Enciclica Laudato Sì. Gli "scartati" Bergoglio ha poi rivolto uno sguardo agli 'scartati' "Per uscire migliori da una crisi come quella attuale, che è una crisi sanitaria e al tempo stesso una crisi sociale, politica ed economica, ognuno di noi è chiamato ad assumersi la sua parte di responsabilità". "Dobbiamo rispondere non solo come persone singole, ha proseguito il Pontefice, "ma anche a partire dal nostro gruppo di appartenenza, dal ruolo che abbiamo nella società, dai nostri principi e, se siamo credenti, dalla fede in Dio. Spesso, però, molte persone non possono partecipare alla ricostruzione del bene comune perché sono emarginate, sono escluse, sono ignorate; certi gruppi sociali non riescono a contribuirvi perché soffocati economicamente o politicamente. In alcune società, tante persone non sono libere di esprimere la propria fede e i propri valori". "Altrove, specialmente nel mondo occidentale, molti auto-reprimono le proprie convinzioni etiche o religiose. Ma così - ha spiegato il Papa - non si può uscire dalla crisi, o comunque non si può uscirne migliori, ne usciremo peggio. Affinchè tutti possiamo partecipare alla cura e alla rigenerazione dei nostri popoli, è giusto che ognuno abbia le risorse adeguate per farlo". Papa Francesco invita, per uscire dalla pandemia, a "sognare in grande" e a non limitarsi a "ricostruire il passato, soprattutto quello che era iniquo e già malato. Costruiamo un futuro dove la dimensione locale e quella globale si arricchiscano mutualmente". "Durante il lockdown è nato spontaneo il gesto dell'applauso per i medici e gli infermieri e le infermiere come segno di incoraggiamento e di speranza. Tanti hanno rischiato la vita e tanti hanno dato la vita. Estendiamo questo applauso ad ogni membro del corpo sociale, a tutti, per il suo prezioso contributo, per quanto piccolo. Applaudiamo gli scartati", "gli anziani, i bambini, le persone con disabilità, i lavoratori, tutti quelli che si mettono al servizio. Tutti collaborano per uscire dalla crisi". "La voce dei non nati" Infine il Pontefice torna a sottolineare il valore della vita umana. "Tra poco - ha detto nell'udienza generale, nei saluti ai fedeli di lingua polacca - benedirò una campana che si chiama 'la voce dei non nati, commissionata dalla fondazione "si" alla vita. Essa accompagnerà gli eventi volti a ricordare il valore della vita umana dal concepimento alla morte naturale. La sua voce risvegli le coscienze dei legislatori e di tutti gli uomini di buona volontà in Polonia e nel mondo".

martedì 15 settembre 2020

il prezzo di chi fa il bene dei fratelli

Don Malgesini nella città di Como era il Prete degli ultimi.
Non aveva una parrocchia specifica perché la sua pastorale era quella dell'assistenza ai bisognosi.
Un Sacerdote che nel silenzio ha cercato di sanare i grandi errori ed i grandi vuoti di questa incapace politica.


 

15 settembre ... non dimenticare


 

domenica 7 giugno 2020

7 giugno 1974

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Aggiungi dNoi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità. La prova per questo obbiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita

Il coraggio morale è merce più rara del coraggio in battaglia o dell’intelligenza.


Università di Capetown, Sudafrica – 6 giugno 1966
Gentile Rettore, Gentile Vice Rettore, Professor Robertson, Signor Diamond, Signor Daniel, Signore e Signori,
Sono venuto qui, questa sera, spinto dal profondo interesse e affetto per un paese colonizzato prima dagli Olandesi nella metà del Settecento, poi occupato dagli inglesi, ed alla fine indipendente; un paese dove gli abitanti nativi furono inizialmente repressi, e dove con gli stessi le relazioni rimangono ancora un problema; un paese che definisce se stesso come una frontiera ostile; un paese che ha reso utilizzabili ricche risorse naturali attraverso l’applicazione di moderne tecnologie; un paese che era importatore di schiavi, e che ora deve lottare per cancellare le ultime tracce del periodo schiavista. Mi riferisco, naturalmente agli Stati Uniti d’America. Ma sono lieto di essere qui, mia moglie ed io e tutto il nostro gruppo, siamo lieti di essere qui in SudAfrica, e siamo lieti di essere venuti a Città del Capo. Mi sto già godendo la visita. Cerco di incontrare e scambiare vedute con persone di ogni tipo, a tutti i livelli della cultura sudafricana, inclusi coloro che rappresentano il punto di vista del governo.
Oggi sono lieto di poter incontrare l’Unione degli studenti sudafricani. Per un decennio, la Nusas si è mossa e ha lavorato per i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, principi che personificano le speranze collettive degli uomini di buona volontà di tutto il globo. Il vostro lavoro, nel vostro paese così come nelle organizzazioni studentesche internazionali, ha portato grande credito a voi ed al vostro paese. So che l’Associazione nazionale degli studenti in Usa sente come particolarmente vicina la relazione con la vostra associazione. E vorrei ringraziare innanzitutto il signor Ian Robertson, che per primo ha posto questo invito per conto della vostra associazione. Vorrei ringraziarlo per la sua gentilezza nell’avermi voluto qui. Sono molto dispiaciuto che non possa essere qui con noi questa sera. Sono molto felice di avere avuto la possibilità di incontrarlo e parlarci qualche ora fa. E gli ho regalato una copia di “Biografia del Coraggio”, un libro scritto dal Presidente John Kennedy autografato per lui dalla vedova, la Signora Jacqueline Kennedy.
Questo è il Giorno dell’Affermazione, una celebrazione della libertà. Noi siamo qui in nome della libertà. Alla base della libertà e della democrazia occidentali c’è la convinzione che ogni individuo, ogni singolo figlio di Dio, sia la pietra di paragone, e tutta la società, tutti i gruppi, tutte le nazioni, esistano a vantaggio della persona. Di conseguenza l’allargamento delle libertà degli essere umani deve essere l’obiettivo supremo e la pratica duratura di ogni società occidentale. Il primo elemento della libertà individuale è la libertà di espressione: il diritto di esprimere e comunicare idee, per distinguersi dalle bestie dei campi e delle foreste; il diritto di richiamare i governi ai loro doveri e obblighi; soprattutto il diritto di affermare la propria adesione e lealtà ad una parte politica, alla società, alle persone con le quali condividiamo la nostra terra, la nostra eredità ed il futuro dei nostri figli.
Alla pari della libertà d’espressione c’è il potere di essere ascoltati, il potere di prendere parte alle decisioni del governo, decisioni che modellano le nostre vite. Tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta – famiglia, lavoro, istruzione, un luogo dove allevare i propri figli e dove trovare riposo – tutto dipende dalle decisioni del governo; tutto può essere spazzato via da un governo che non presta ascolto alle richieste della popolazione, e intendo di tutta la popolazione. Quindi l’essenza stessa dell’umanità può essere tutelata e protetta solamente laddove c’è un governo che deve rispondere non solo ai ricchi, non solo ai fedeli di una particolare religione o agli appartenenti ad una particolare razza ma a tutto il popolo. Ed anche un governo con il pieno consenso dei governati, come nella nostra Costituzione, deve essere limitato nel suo potere di agire contro il popolo così che che non ci dovrebbe essere interferenza con il diritto a professare la propria fede, ma anche nessuna interferenza con la sicurezza personale; nessuna imposizione arbitraria di pene o punizioni contro ordinari cittadini da parte di ufficiali di qualsivoglia rango; nessuna restrizione alla libertà delle persone di ottenere l’istruzione, o cercare un lavoro o qualsiasi opportunità, così che ognuno possa diventare qualunque cosa sia in grado di diventare.
Questi sono i diritti sacri della società occidentale. Proprio questi diritti hanno rappresentato le grandi differenze fra noi e la Germania nazista, così come lo furono fra Atene e la Persia. Questi sono oggi l’essenza delle nostre differenze con il comunismo. Sono fermamente contrario al comunismo perché esalta lo Stato sopra l’individuo e sopra la famiglia, e perché il suo sistema prevede l’assenza delle libertà di espressione, protesta, religione e stampa, assenze tipiche di un regime totalitario. Tuttavia la maniera di opporsi al comunismo non è quella di imitare la sua dittatura, ma di estendere le libertà individuali. In ogni nazione ci sono persone che etichetterebbero come comunista chiunque minacci i loro privilegi. Ma posso dirvi, da ciò che ho visto viaggiando in tutte le parti del mondo, che riformare non è comunismo. E che la negazione della libertà, in nome di qualsiasi cosa, può solo rafforzare lo stesso comunismo che sostiene di combattere.
Molte nazioni hanno stabilito le proprie definizioni e dichiarazioni di questi principi. E ci sono spesso state ampie e tragiche differenze fra promesse e risultati, fra teoria e realtà. E tuttavia i grandi ideali ci hanno costantemente richiamato ai nostri doveri. E, con dolorante lentezza, noi negli Stati Uniti abbiamo esteso ed allargato il significato e la pratica della libertà a tutta la nostra gente. Per due secoli, il mio paese ha combattuto per superare l’handicap, da noi stesso imposto, del pregiudizio e della discriminazione basati sulla nazionalità, sulla classe sociale, sulla razza – discriminazione profondamente ripugnante rispetto alla teoria ed precetti della nostra Costituzione. Anche all’epoca di mio padre, che crebbe a Boston, Massachusetts, c’erano cartelli che dicevano “No Irish need apply “ [gli irlandesi non facciano domanda di lavoro]. Due generazioni dopo, il Presidente Kennedy divenne il primo cattolico irlandese, ed il primo cattolico, a guidare la nazione; ma quanti uomini capaci, prima del 1961, hanno visto negata loro la possibilità di contribuire al progresso della nazione dal momento che erano cattolici, o perché erano di origine irlandese? Quanti figli di italiani o di ebrei o polacchi dormirono in quartieri degradati – non istruiti, non educati, le loro potenzialità per la nostra nazione e per la razza umana perse per sempre? Ancora oggi, quale prezzo pagheremo prima di poter assicurare piene opportunità ai milioni di neri americani?
Negli ultimi cinque anni abbiamo fatto molto di più per assicurare l’uguaglianza ai nostri cittadini neri e per aiutare le persone indigenti, sia bianchi che neri, che negli ultimi cent’anni. Ma molto, molto di più resta da fare. Ci sono milioni di neri non formati per i lavori più semplici, e migliaia sono privati quotidianamente della totalità e uguaglianza dei propri diritti civili di fronte alla legge; e la violenza dei diseredati, degli insultati e dei feriti, si profila per le strade di Harlem e per quelle di Watts e del Southside di Chicago.
Ma allo stesso tempo un nero americano si sta addestrando ora come astronauta, uno dei primi esploratori dello spazio; un altro è capo degli avvocati del governo degli Stati Uniti, e a dozzine siedono sui banchi dei nostri tribunali; ed un altro, il Dr. Martin Luther King, è il secondo uomo di origine Africana a vincere il premio Nobel per la Pace per le sue campagne non violente a favore della giustizia sociale fra tutte le razze.
Abbiamo fatto approvare leggi che proibiscono discriminazione nell’istruzione, nell’assunzione, nell’ambito immobiliare; ma queste leggi da sole non possono superare l’eredità di centinaia di anni di famiglie distrutte e di bambini rachitici, di povertà, degradazione e dolore. Quindi il cammino verso l’uguaglianza della libertà non è facile e ci sono ancora grandi sforzi e pericoli che ognuno di noi dovrà affrontare nel proprio cammino. Siamo impegnati a favore di un cambiamento pacifico e non violento, e questo è importante che tutti lo comprendano – anche se il cambiamento è sconvolgente. Tuttavia, anche nella turbolenza delle proteste e della lotta c’è una maggiore speranza per il futuro, mentre gli uomini imparano a rivendicare e a raggiungere per se stessi i diritti che prima erano rivendicati da altri.
E più importante di tutto, tutto lo sfoggio della forza del governo è stato dedicato all’obiettivo dell’uguaglianza davanti alla legge, come adesso ci stiamo impegnando per il raggiungimento, di fatto, delle pari opportunità. Dobbiamo riconoscere l’assoluta uguaglianza di tutte le persone: dinanzi a Dio, dinanzi alla legge e nel governo della cosa pubblica. Dobbiamo farlo non perché sia economicamente vantaggioso, per quanto lo sia; non perché così vogliono le leggi di Dio e dell’uomo, sebbene lo impongano; non perché così vogliono popoli di terre lontane. Dobbiamo farlo per un’unica e fondamentale ragione: perché è la cosa giusta da fare. Riconosciamo che negli Stati Uniti ci sono problemi ed ostacoli che bloccano della piena attuazione di questi ideali così come riconosciamo che altre nazioni, in America Latina in Asia ed in Africa, hanno i propri problemi politici, economici, e sociali, le proprie barriere all’eliminazione delle ingiustizie.
Alcuni sono preoccupati che il cambiamento cancellerà i diritti delle minoranze, particolarmente dove la minoranza è di razza differente rispetto alla maggioranza. Noi negli Stati Uniti crediamo nella protezione delle minoranze; riconosciamo i contributi che possono dare e la leadership che possono offrire; e non crediamo che qualunque popolo – sia che appartenga alla minoranza o alla maggioranza, o sia che si tratti di singoli individui – sia “sacrificabile” per la causa della teoria o della politica. Riconosciamo inoltre che la giustizia fra uomini e nazioni è imperfetta, e che l’umanità a volte progredisce davvero molto lentamente. Il modello e il ritmo dello sviluppo non sono uguali per tutti. Le nazioni, al pari degli uomini, marciano soventi al ritmo di tamburi diversi e gli Stati Uniti non sono in grado di indicare né di trapiantare soluzioni valide per tutti – e questo non è il nostro intento. Ciò che conta, ad ogni modo, è che tutte le nazioni marcino verso un allargamento della libertà, verso la giustizia per tutti, verso una società sufficientemente forte e flessibile da incontrare le esigenze della propria gente – senza discriminazione di razza – e rispondere alle richieste di un mondo di immenso e sbalorditivo cambiamento che riguarda tutti noi.
In poche ore, l’aereo che mi ha portato qui ha attraversato oceani e paesi che sono stati crogiolo della storia dell’umanità. In pochi minuti abbiamo seguito le tracce delle migrazioni degli uomini nel corso di migliaia di anni; in pochi secondi abbiamo passato campi i battaglia dove milioni di uomini hanno combattuto e sono morti. Non abbiamo visto nessun confine nazionale, nessun vasto golfo o alte mura che dividono le popolazioni; solo la natura ed il lavoro dell’uomo – case, fabbriche, fattorie – che riflettono lo sforzo comune di arricchire la propria vita. Da ogni parte le nuove tecnologie e le comunicazioni portano gli uomini e le nazioni ad essere più vicini tra loro, le preoccupazioni di uno, inevitabilmente diventano le preoccupazioni di tutti. E la nostra nuova vicinanza sta strappando via le false maschere, l’illusione di differenze che sono la radice delle ingiustizie, dell’odio e della guerra. Solo un uomo attaccato alle cose terrene può ancora aggrapparsi alla buia ed avvelenante superstizione secondo cui il suo mondo è delimitato dalla collina più vicina, il suo universo finisce alla rive del fiume, la sua comune umanità è racchiusa nello stretto circolo di quelli che condividono con lui città, vedute e colore della pelle.
È il vostro lavoro, il compito delle persone giovani in questo mondo, di strappare le ultime rimanenze di quella antica, crudele convinzione dalla civiltà dell’uomo. Ogni nazione affronta ostacoli ed obiettivi differenti, plasmati dalla propria storia ed esperienza. Tuttavia mentre parlo con ragazzi di tutto il mondo, sono impressionato non tanto dalla diversità ma dalla vicinanza dei loro obiettivi, dei loro desideri, e delle loro preoccupazioni e speranze per il futuro.
Troviamo discriminazione a New York, l’ineguaglianza razziale dell’apartheid in SudAfrica, e c’è la schiavitù sulle montagne del Perù. Persone muoiono di fame nelle strade dell’India; un ex primo ministro è stato sommariamente giustiziato in Congo; gli intellettuali sono imprigionati in Russia; e migliaia vengono trucidati in Indonesia; la ricchezza è riversata in ogni parte del mondo sugli armamenti. Questi sono mali diversi, ma sono frutto del lavoro comune dell’uomo. Riflettono le imperfezioni della giustizia umana, l’inadeguatezza della compassione umana, la difettosità della nostra sensibilità verso le sofferenze dei nostri compagni; marcano il limite della nostra capacità di usare la conoscenza per il bene comune dei nostri compagni in tutto il mondo. E perciò richiedono qualità comuni di coscienza ed indignazione, una condivisa determinazione a scacciare le sofferenze non necessarie dei nostri compagni a casa così come in tutto il mondo.
Sono queste le qualità che fanno della nostra gioventù la sola vera comunità internazionale. Più che su questo credo che potremmo essere d’accordo su quale tipo di mondo vogliamo costruire. Sarebbe un mondo di nazioni indipendenti, che si muovono verso una comunità internazionale,ognuna delle quali rispetta e protegge le fondamentali libertà umane. Sarebbe un mondo dove ad ogni governo verrebbe richiesto di accettare la propria responsabilità al fine di assicurare la giustizia sociale. Sarebbe un mondo caratterizzato da un progresso economico costantemente in accelerazione – non da un’assistenza sociale materiale fine a sé stessa, ma piuttosto un mezzo per liberare le capacità di ogni essere umano di accrescere i propri talenti e di soddisfare le proprie speranze. Sarebbe, in breve, un mondo che tutti noi saremmo orgogliosi d’aver costruito. Solo un po’ a Nord da quì, ci sono terre di sfida e di opportunità, ricche di risorse naturali, di terra e minerali e di persone. Ma ci sono anche terre caratterizzate dalle più grandi disuguaglianze, da una sconvolgente ignoranza, da tensioni sociali e lotte, e da grandi ostacoli dovuti al clima ed alla posizione geografica. Molte di queste nazioni, come colonie, furono oppresse e sfruttate. Ancora oggi non si sono allontanate dalle pesanti tradizioni occidentali; sono speranzose e stanno scommettendo su progresso e stabilità basandosi sulla possibilità che noi un giorno affronteremo le nostre responsabilità nei loro confronti, per aiutare a sconfiggere la loro povertà.
Nel mondo che ci piacerebbe costruire, il SudAfrica giocherebbe un ruolo eccezionale e un ruolo guida in questo sforzo. Questo paese è senza dubbio il deposito preminente della ricchezza, conoscenza e talento dell’intero continente. Qui troviamo la gran parte dei ricercatori scientifici d’Africa e le più importanti industrie dell’acciaio, la maggior parte delle scorte di carbone e potenza elettrica. Molti sudafricani hanno dato un contributo significativo allo sviluppo tecnico dell’Africa e alla scienza mondiale; i nomi di alcuni sono conosciuti in ogni parte del mondo in cui si cerchi di eliminare le devastazioni delle malattie tropicali e della pestilenza. Nelle vostre facoltà e consigli, anche qui fra questo pubblico, ci sono centinaia e migliaia di uomini e donne che potrebbero trasformare le vite di milioni di persone per tutto il tempo a venire. Ma l’aiuto e la guida del Sud Africa o degli Stati Uniti non può essere accettata se noi, all’interno del nostro paese o nelle relazioni con gli altri, neghiamo l’integrità individuale, la dignità umana, e il senso comune dell’umanità dell’uomo. Se vogliamo essere guide fuori dai nostri confini; se vogliamo aiutare coloro che hanno bisogno della nostra assistenza; se vogliamo incontrare le nostre responsabilità verso il genere umano; dobbiamo prima di tutto demolire le barriere che la storia ha eretto fra uomini all’interno della nostra stessa nazione, barriere di razza e religione, di classe sociale ed ignoranza.
La nostra risposta è la speranza del mondo; è fare affidamento sui giovani. Le crudeltà e gli ostacoli di questo pianeta che cambia così velocemente non porteranno a dogmi obsoleti e slogan desueti. Non può essere mosso da quelli che si aggrappano al presente che è già moribondo, che preferiscono l’illusione della sicurezza all’eccitazione e al pericolo che arriva anche con il più pacifico progresso. Questo mondo richiede le qualità dei giovani: non un periodo della vita, ma uno stato mentale, un temperamento della volontà, una qualità dell’immaginazione, una predominanza del coraggio sulla timidezza; dell’appetito per l’avventura sulla vita tranquilla, un uomo come il rettore di questa università. E’ un mondo rivoluzionario quello in cui viviamo, e perciò, così come ho detto in America Latina e in Asia e in Europa e nel mio paese, gli Stati Uniti, sono i giovani che devono prendere il comando. Perciò voi e i vostri giovani compatrioti, in ogni parte della terra, vi siete trovati sotto il più grande carico di responsabilità di qualsiasi altra generazione che sia mai vissuta.
“Non c’è”, disse un filosofo italiano, “niente di più difficile da prendere in mano, di più pericoloso da condurre, o di più incerto successo che il prendere la guida al fine di introdurre un nuovo ordine di cose”. Adesso questa è la dimensione del compito della vostra generazione e il cammino è cosparso di molti pericoli.
Il primo pericolo è la futilità; il credere che non ci sia niente che un uomo o una donna possa fare contro l’enorme quantità di mali del mondo, contro la miseria, contro l’ignoranza, l’ingiustizia o la violenza. Eppure molti dei più grandi movimenti universali di pensiero e azione sono scaturiti dal lavoro di una singola persona. Un giovane monaco cominciò la riforma protestante, un giovane generale estese il proprio impero dalla Macedonia fino alla fine delle terre conosciute, ed una giovane donna rivendicò i territori francesi. Fu un giovane esploratore italiano che scoprì il nuovo mondo, e un 32-enne, Thomas Jefferson, che proclamò che tutti gli uomini sono creati uguali. “Datemi solo un punto d’appoggio”, disse Archimede, “e vi solleverò il mondo”. Questi uomini mossero il mondo, e noi possiamo fare altrettanto. Pochi avranno la grandezza necessaria a piegare la storia ma ciascuno di noi può operare per modificare una minuscola parte del corso degli eventi e tutte queste azioni formeranno la storia di questa generazione. Migliaia di Peace Corps stanno facendo la differenza in villaggi isolati e nelle periferie degradate di dozzine di nazioni. Migliaia di uomini e donne sconosciuti resistettero all’occupazione nazista in Europa e molti di loro morirono, ma tutti aggiunsero qualcosa alla spinta finale alla libertà dei propri paesi. La storia dell’umanità è il prodotto di innumerevoli atti di coraggio e di fede come questi. Ogni qualvolta un uomo si batte per un ideale o opera per migliorare la condizione degli altri o lotta contro l’ingiustizia, invia un minuscolo impulso di speranza e tutti questi impulsi provenienti da milioni di centri di energia e intersecandosi gli uni agli altri possono dar vita ad una corrente capace di travolgere i più possenti muri dell’oppressione e dell’ostilità.
“Se Atene ti dovesse apparire grande”, disse Pericle, “considera che la sua gloria è stata guadagnata da uomini valorosi, e da uomini che conoscevano i propri doveri”. Questa è la fonte della grandezza in tutte le società, e questa è la chiave per progredire ai giorni nostri.
Il secondo pericolo è quello dell’opportunismo, di coloro che dicono che le speranze e le convinzioni debbano piegarsi di fronte alle necessità immediate. Naturalmente, se dobbiamo agire efficacemente dobbiamo trattare con il mondo così com’è. Dobbiamo realizzare le cose. Ma se c’è una cosa su cui il Presidente Kennedy aveva preso una posizione, una cosa che toccò i sentimenti più profondi dei giovani in tutto il mondo, era la convinzione che l’idealismo, l’alta aspirazione e le profonde convinzioni non sono incompatibili con i programmi più pratici ed efficienti, che non c’è separazione fra i desideri più profondi del cuore e della mente e la razionale applicazione dello sforzo umano ai problemi umani. Non è realistico o è da ostinati risolvere i problemi e agire senza la guida di uno scopo e di sommi valori morali, sebbene noi tutti sappiamo che qualcuno sostiene che sia proprio così. Secondo me, è sconsideratamente folle. Perché ignora le realtà della speranza umana, della passione e della fede; forze che sono in ultima istanza ben più forti di tutti i calcoli dei nostri economisti o dei nostri generali. Naturalmente per conformarsi alle norme, all’idealismo, ad una visione che deve fronteggiare pericoli immediati, c’è bisogno di grande coraggio e fiducia in se stessi. Ma noi sappiamo che solo quelli che azzardano, fallendo molto, possono poi raggiungere risultati straordinari.
È questo nuovo idealismo che è anche, io credo, l’eredità comune di una generazione che ha imparato che mentre l’efficienza può portare ad Auschwitz, o alle strade di Budapest, solo gli ideali di umanità ed amore posso scalare le colline dell’Acropoli.
Un terzo pericolo è la timidezza. Pochi sono pronti a sfidare con coraggio la disapprovazione degli amici, la censura dei colleghi, la vendetta della società. Il coraggio morale è merce più rara del coraggio in battaglia o dell’intelligenza. Tuttavia è la qualità essenziale, vitale per coloro che cercano di cambiare il mondo – mondo che cede dolorosamente al cambiamento -.
Aristotele ci dice che “nelle Olimpiadi sono incoronati non i più belli e i più forti, ma quelli che partecipano alla gara”. “Così nella vita chi agisce giustamente vince il premio divenendo partecipe del bello e del buono”. Sono convinto che in questa generazione coloro che avranno il coraggio di partecipare alla lotta troveranno compagni di strada in ogni angolo del mondo.
Per i fortunati attorno a noi, il quarto pericolo è l’agiatezza; la tentazione di seguire il facile e famigliare cammino dell’ambizione personale e del successo economico così ampiamente diffuso fra quelli che hanno il privilegio dell’istruzione. Ma questa non è la strada che la storia ha segnato per noi. Una maledizione cinese dice: “Che possa vivere in tempi interessanti”. Che ci piaccia o no, viviamo in tempi interessanti. Sono tempi di pericoli e di incertezze ma sono anche tempi che danno spazio, come mai prima d’ora, alle energie creative dell’uomo. E ciascuno sarà giudicato e giudicherà se stesso per il contributo che avrà saputo dare alla costruzione di una nuova società mondiale e per la misura in cui avrà saputo plasmare il suo sforzo sulla base di alti ideali e obiettivi.
Ora ci lasciamo, io torno al mio paese e voi rimanete qui. Noi siamo – se un quarantenne come me può avere questo privilegio – membri della più giovane generazione. Ognuno di noi ha il suo proprio lavoro da fare. Lo so che ci sono momenti in cui vi sentite davvero soli con i vostri problemi e difficoltà. Ma voglio dirvi quanto sono impressionato per quello che cercate di raggiungere e per lo sforzo che state compiendo, e lo dico, non solo per me, ma per tutte le donne e gli uomini di questo mondo. E spero che voi possiate spesso prendere giovamento dalla consapevolezza che vi state unendo con i vostri compagni in ogni paese del mondo – loro lottano con i propri problemi e voi con i vostri, ma siete tutti uniti da un unico fine; come i giovani ragazzi del mio paese e di tutti i paesi che ho visitato, tutti voi siete molto più uniti con i fratelli della vostra generazione che ogni altra precedente generazione; siete determinati a costruire un futuro migliore. Il Presidente Kennedy stava parlando ai giovani degli Stati Uniti, ma oltre che a loro a tutti i giovani del mondo, quando disse “L’energia, la fede, la devozione che portiamo per questo sforzo illuminerà il nostro paese e tutti quelli che lo serviranno, ed il bagliore di quel fuoco potrà davvero accendere il mondo.
Con una buona coscienza come nostra sola sicura ricompensa, con la storia come giudice finale delle nostre azioni, andiamo avanti e guidiamo il paese che amiamo, chiedendo la Sua benedizione ed il Suo aiuto, ma sapendo che qui su questa terra, il lavoro di Dio deve essere il nostro lavoro.
Vi ringrazio.
Roberto F. Kennedy

domenica 17 maggio 2020

La sfida per l'Europa

Guido Bodrato
L'Europa è sfatta. questo il titolo di un articolo di Guido Crainz, pubblicato dall'Espresso dell'altra settimana. Crainz rilancia l'allarme sul destino di un'Europa, messa alla prova dalla '"emergenza virus". Doveva essere un'occasione per una prova di solidarietà...ed invece ogni paese si è rinchiuso nelle vecchie frontiere, nell'illusione di difendersi meglio dall'aggressione dell'epidemia, quando la scienza ha detto che "nessuno si difende da solo". Dobbiamo riconoscere che manca un'opinione pubblica europea, cioè una cultura europea, e che il vertice delle istituzioni europee. il consiglio dei ministri, è dominato dal demone del nazionalismo.  
Sul "male oscuro che cova in Europa" aveva scritto una pagina che dovremmo rileggere, nel 1992, Pietro Citati. Cito dall'inizio: "Abbiamo dimenticato che vivere nel tempo presente è una condizione tragica, Non vi regnano i programmi e la sicurezza - ma l'incertezza, la precarietà, la contraddizione, talvolta l'orrore; e se la linea della storia sembra correre per vent'anni, nei vent'anni successivi può inabissarsi in una palude...Così alla fine del ventesimo secolo, abituati a quarant'anni di agi, l'uomo europeo ha perduto la pazienza e la sopportazione. E' divorato dall'ansia. Se incontra una grande o piccola contrarietà, crede che sia giunta la fine dei tempi..." Citati concludeva con una riflessione che riguarda la forma politica (la democrazia) che ci ha dato il benessere, ma non la felicità.
Quando ho concluso, nel 2004, la mia esperienza d europarlamentare l'ho riassunta in un libro dal titolo "Europa impossibile". Avevo visto da vicino un cambio generazionale nel Parlamento di Strasburgo, e mi sembrava che la nuova generazione stesse dimenticando le ragioni storiche dell'Unione, la tragedia del '900, e vivesse anche l'allargamento all'Est senza la consapevolezza dei problemi che quella svolta storica poneva..Eppure l'Europa aveva alle spalle vent'anni di Erasmus, ed ormai per molti giovani vivere a Parigi o a Berlino, era come vivere a Roma od a Londra.. Cosa è accaduto negli ultimi anni? Le elezioni europee del 2018 hanno registrato il dilagare, in tutto il continente, del nazionalismo, di una destra sovranista che ha fatto della questione degli extra-comunitari, della chiusura dei confini, il suo cavallo di battaglia; e la Gran Bretagna è uscita dall'Unione...
Tutto è diventato più difficile, per i governi democratici, di centro-destra o di centro-sinistra. La Merkel ha così sintetizzato la situazione dei governi nazionali e dell''europeismo: camminiamo su una lastra di ghiaccio..
La questione culturale, una seria riflessione sulla storia, una riscoperta delle radici dell'Unione europea, sono essenziali..
Tuttavia questa operazione deve fare riferimento ad un obiettivo politico che si è fortemente appannato: la necessità di riscoprire i valori su cui è fondata l'Unione europea, la sua missione democratica in un mondo caratterizzato da regimi autoritari...E bisogna riflettere sul fatto che i sovranisti non hanno più l'obiettivo di "uscire dell'Unione", ma quello di "conquistare l'Europa", di radicare nei diversi paesi, e nell'Europa, una idea radicalmente diversa di "democrazia": quella "democratura"che si sta sperimentando in Ungheria e in Polonia; che è rappresentata da Le Pen in Francia e da Salvini in Italia; che rischia di affiorare nell'egoismo dei paesi del Nord..Che fa guardare alla Russia, alla Cina..... a Trump.
Ma questa realtà politica richiede che le "famiglie democratiche" che hanno costruito l'Europa "unita nella diversità" sappiano rinascere dalla memoria del '900 e misurarsi con i tempi nuovi ed i problemi imposti dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica; una svolta profonda che richiede una nuova e straordinaria solidarietà. Questo è il tempo che dobbiamo vivere. Questo è il Dopo, anche con la pandemia.
E' impossibile? Dobbiamo renderlo possibile. Questa è la sfida decisiva, se vogliamo che il Dopo sia migliore.

giovedì 14 maggio 2020

grande


SALVINI ALLA BELLANOVA: "sei come la Fornero"
BELLANOVA A SALVINI:
"Mi imbarazzerebbe essere come te"...
fine.

La bella politica

Teresa Bellanova
È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere - sì, la forza - perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi.
Però una cosa la voglio dire, a chi sta con me e a chi sta contro di me: le lacrime non le giudicate perché appartengono non a me sola, ma a chi ha ogni giorno il coraggio di sfidare per cambiare, sapendo che si può perdere o vincere. Sono cose che hanno a che fare con la vita, con l’impeto e la forza delle idee. Le lacrime sono il segno costitutivo, generativo della nostra specie. Chi le teme, o chi non ne comprende il senso e la forza, ha perso di vista il carattere più importante dell’umano: la coscienza delle cose, quant’è prezioso mostrarsi vulnerabili. Se abbiamo perso di vista questo, se non sappiamo più riconoscere cosa significa il pianto di chi crede in quello che fa, è preoccupante. Più di ogni battaglia, vinta o persa che sia.
La forza delle donne, ed anche di molti uomini, è proprio saper piangere: non esiste un “pianto di genere“, perché l’unico genere capace di pianto è quello umano. Le donne qui non c’entrano nulla: c’entrano coloro che ogni giorno portano avanti le battaglie in cui credono, magari impopolari ma giuste. Quelli che avanzano il cuore senza bisogno di calcolare le distanze. Spostano la notte più in là. E credono nella politica che guarda in faccia i problemi che attendono risposte.

mercoledì 13 maggio 2020

TOCCHERÀ ARRESTARE I SALLUSTI E GLI SGARBI

Il Fatto Quotidiano
12 / 05 / 2020
Daniele Luttazzi
Silvia Romano è stata liberata, e da destra sono subito arrivate le “felicitazioni, ma”. Maria Giovanna Maglie è trasecolata per via dell’abito tradizionale somalo indossato da Silvia, come se Silvia fosse una corrispondente Rai all’estero che poteva fare shopping compulsivo gonfiando la nota spese. Vittorio Feltri l’ha buttata sui soldi del riscatto, perché in questo modo lo Stato ha finanziato i terroristi. Ma se oggi Aldo Moro è vivo, è perché lo Stato pagò il riscatto. Scusate, esempio sbagliato. Ha ragione Feltri: non finanziando i terroristi di destra, lo Stato impedì le stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus e stazione di Bologna. Scusate, altro esempio sbagliato. Insomma, quanti soldi sono? 53 milioni? Ah no, quelli sono i soldi pubblici presi da Libero dal
2003 al 2017. 49 milioni? Ah, no, quelli deve restituirceli la Lega. 21 milioni? Ah no, quelli sono i soldi buttati dalla Regione Lombardia per l’inutile ospedale alla Fiera. Insomma, quanti? 4 milioni. Siamo 60 milioni di italiani, quindi 0,06 euro a testa. Vittorio, stacce. Per dirottare l’attenzione su di sé (ne era in astinenza, dato che tutti stavano parlando di Silvia e non di lui), Sgarbi ha proposto che Silvia venga arrestata perché complice dei terroristi, visto che si è convertita all’Islam. Ma l’equazione Islam = al Qaeda è islamofobia; ed è grazie all’islamofobia che al Qaeda fa proseliti. Ovvero, Sgarbi sta facendo il gioco dei terroristi: arrestiamo anche lui? Lo stilista Sallusti, buttandola sul vestito come la Maglie (“È stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”), non capisce neppure che sta facendo la stessa equazione di Sgarbi (Islam = al Qaeda), che fa il gioco dei terroristi. Arrestiamo pure Sallusti, Vittorio? Alessandro Meluzzi, psichiatra, sminuisce la conversione religiosa di Silvia parlando di “sindrome di Stoccolma”. Ma Meluzzi, che in gioventù ha militato nel Pci, poi nel Psi, poi è diventato parlamentare di Forza Italia, poi è entrato nell’Udr di Cossiga, poi in Rinnovamento Italiano, poi nei Verdi, poi ha fondato i Cristiano Democratici Europei aderendo all’Udeur di Mastella, infine è approdato a Fratelli d’Italia, ma ammira Putin, è stato massone e console onorario del Paraguay, s’è convertito al cristianesimo, è stato diacono cattolico di rito greco-melchita, poi presbitero della Chiesa ortodossa italiana autocefala, poi primate, metropolita e arcivescovo di tale Chiesa con il nome di Alessandro I, e quando va in tv tuona contro l’aborto, il matrimonio omosessuale e l’eutanasia, sostenendo pure che “certi pedofili non commettono reato e nemmeno peccato”, e che Bergoglio è promotore del piano Kalergi (sostituire gli europei con africani e asiatici); Meluzzi, dicevo, di che sindrome soffrirà?

martedì 12 maggio 2020

Lettera di Maryan Ismail a Silvia Romano

Maryan Ismail
“Comprendo tutto di Silvia. Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire”. Lettera a Silvia Romano di Maryan Ismail, nata in Somalia, in Italia da 35 anni, docente di antropologia dell’immigrazione, tratta dal suo profilo Facebook

Ho scelto il silenzio per 24 ore prima di scrivere questo post.
Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa.
Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosiddetto volto “perbene”. Gente capace di trattare, investire, fare lobbyng, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi.
Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa.
Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro.
Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura, l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare?
Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche, yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda.
Comprendo tutto di Silvia.
Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere.
E in un nano secondo.
Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti.
Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura.
La sua non è una scelta di LIBERTA’, non può esserlo stata in quella situazione.
Scegliere una fede è un percorso così intimo e bello, con una sua sacralità intangibile.
E poi quale Islam ha conosciuto Silvia?
Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?
No non è Islam questa cosa.
E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE.
E’ puro abominio.
E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime.
I simboli, sopratutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta.
Quando e se sarà possibile, se la giovane Silvia vorrà, mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti.
Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego, macawis, kooffi.
I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano).
Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia.
Adoriamo i colori della terra e del cielo.
Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni.
Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale), ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano.
Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno.
Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo..
Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato.
Della fierezza e gentilezza del popolo somalo.
E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro.
In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore.
Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione..
Soo dhowaw, gadadheyda macaan.

Far politica nella tempesta, alle radici della Liberazione


Domenico Palermo
Città Nuova
Nel giorno deI 75 anni della Liberazione, pubblichiamo l’anticipazione dell’intervista alla biografa di Tina Anselmi, staffetta partigiana a 17 anni, esempio di impegno nella costruzione della Repubblica. Perché è attuale il percorso della prima donna ministro in Italia e alla quale dobbiamo l’introduzione del Sistema sanitario nazionale
La centralità del Servizio sanitario pubblico davanti all’avanzare della pandemia da Covid-19 ha fatto riscoprire l’opera di Tina Anselmi (1927-2016), ministro della Sanità che introdusse il Ssn in Italia nel 1978. Una donna che ha attraversato le tempeste del suo tempo. Tina Anselmi, seconda da sx, archivio AV Dalla scelta di entrare nella Resistenza a 17 anni davanti alla strage nazista dei giovani impiccati per le strade nel paese dove frequentava la scuola superiore (Bassano del Grappa), fino alla presidenza (1981-1984) della Commissione bicamerale di inchiesta sulla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, dove ha combattuto contro le trame occulte che minacciano l’esistenza stessa della nostra Repubblica. Per avvicinarci a tale figura abbiamo intervistato Anna Vinci, scrittrice e saggista. Coautrice del libro autobiografico della Anselmi, Storia di una passione politica (Sperling & Kupfer, 2016), e del libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2014). La nostra Costituzione è il frutto di una ribellione morale che ha portato molti giovani dell’epoca a partecipare alla Resistenza. Cosa ha significato per Tina Anselmi? Parlerei di una passione per la verità. La sua vita è stata sempre guidata da una capacità di tradurre il pensiero in fatti. Il suo modo di vivere la fede, assieme ai suoi valori, la guidarono a questa scelta, drammatica e dolorosa, della resistenza al nazifascismo. Da che formazione proveniva? Hanno marcato la sua formazione, più di altri pur importanti, la nonna e il padre. La prima, vedova a 24 anni, gestiva un’osteria, era molto attiva e presente. Il papà era un socialista legato alla figura di Matteotti. La scelta della Anselmi di stare dalla parte delle vittime è stata molto chiara. Diceva che se non scegli, se non prendi una parte, finisci per sostenere il carnefice. Una cattolica democratica formatasi nell’Azione Cattolica, leggendo Maritain e i filosofi francesi all’epoca vietati in Italia. Colpisce, nella sua vita, l’amore della sua giovinezza rimasto intatto nel tempo... Aveva un profondo senso di rispetto per la sua vita privata. Era severa, in primis con se stessa, ma capace di tenerezza, che si manifestava in famiglia, con le nipotine amate, con gli amici e le amiche di una vita. Lei si innamorò di un giovane partigiano, Nino, che morì in sanatorio subito dopo la guerra. L’amore a cui rimase legata tutta la
vita. Infatti portò con sé nella tomba il rosario, un fiore del suo giardino e la foto di Nino. Da sindacalista delle lavoratrici delle filande, la Anselmi ha affrontato i problemi dello sfruttamento del lavoro. Cosa dice oggi ai lavoratori precari e sfruttati? Aveva una sensibilità curiosa e attenta agli altri, un “talento” raffinato dalla fede senza orpelli. Riuscì ad avvicinare le lavoratrici grazie a una loro collega e sua amica, Francesca Meneghin. Era naturalmente empatica con i lavoratori e in grado di cogliere la sudditanza femminile dell’epoca nei confronti dei datori di lavoro, padroni in fabbrica e dei “padroni” nelle case, padri, mariti, fratelli. Le donne all’epoca erano sottomesse non solo dal punto di vista psicologico ed economico, ma anche giuridico. Era in grado di cogliere quel dettaglio in grado di fare la differenza, come le mani “lessate” delle lavoratrici delle filande. Quanto incise questo impegno nella sua successiva azione politica? Al primo posto poneva le necessità degli altri. Appena arrivò al ministero della Sanità fu attenta a tenere le distanze, togliendo, con garbo e decisione, potere ai corrotti e riuscendo a istituire il Sistema sanitario nazionale la cui realizzazione aspettava da 14 anni per i troppi “interessi” che giravano
intorno. Durante un viaggio di scambio fra giovani democratici di Europa e Stati Uniti, fu ricevuta alla Casa Bianca, dove incontrò il presidente John Fitzgerald Kennedy e suo fratello Robert. Cosa si dissero? I fratelli Kennedy volevano sapere il perché delle riserve dei giovani
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europei verso la democrazia statunitense. Tina rispose sinceramente che non potevano essere attratti da un sistema dove i Rockefeller e gli altri imprenditori americani finanziavano eserciti per reprimere le lotte sociali. Tina Anselmi archivio vdp Come poteva la Anselmi far politica in un partito dalle tante contraddizioni come la Dc? A questa domanda avrebbe risposto con un sorriso ironico. Poi avrebbe detto che la Democrazia cristiana nella quale si era iscritta era quella che guidò, non certo da sola, il Paese fino alla morte di Aldo Moro. Evento che ha segnato la fine di un progetto politico decisivo per la crescita della democrazia in Italia. Dagli inizi degli anni ’80, la Dc si trasformò in altro, ma Tina rimase fedele alla sua appartenenza cercando di tradurre la sua moralità in azione e contribuire a cambiare l’Italia. Ancora oggi, con tutti gli attacchi verso la sanità pubblica,
l’impalcatura disegnata dalla Anselmi regge anche di fronte al coronavirus. Negli anni ’80 guidò la commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 e nel 1992 non fu ricandidata nel suo collegio di Venezia-Treviso. Una persona del genere doveva essere nominata almeno senatrice a vita. E invece cosa è accaduto? Ha pagato la sua azione forte contro la P2. Andò fino in fondo, contro un muro di potere maschile che metteva insieme pezzi dello Stato, banche, potere dello Ior sotto la guida di Marcinkus e molto altro. Con i servizi segreti “devianti”, non deviati. Questo lavoro contraddistinse la sua tenuta morale fondata sulla lotta partigiana, impegno che ha pagato, come tanti eroi borghesi. Tina diceva che per capire le radici della Repubblica bisogna leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza e il loro amore per la vita. LaPresse - P.G
La folla nell'ultimo saluto alla Anselmi nel 2016 Un anno fa è uscita la notizia della realizzazione del film sulla vita di Tina Anselmi con Rai Fiction. A che punto è? I grandi progetti hanno spesso bisogno di lunghi tempi. Raccontare la sua vita vuol dire rivivere una parte della storia d’Italia. Le sorelle, Maria Teresa e Gianna Anselmi, io stessa, coloro che si riconoscono nella storia, non solo politica ma umana di Tina, i cittadini di Castelfranco, noi tutti abbiamo una grande fiducia in Rai Fiction e rispetto nei confronti della sua direttrice, Eleonora Andreatta. Tina Anselmi si ritroverebbe, certo, in un film che narra la sua vita con “carne”, passione e ironia. Non amava la retorica né “i santini”.

sabato 9 maggio 2020

Moro, l’inattualità attualissima della sua lezione


Sono passati 42 anni dall’assassinio dello statista democristiano. Una vicenda ancora parzialmente oscura, ma che ha offuscato la parabola di un uomo che è stato il vero perno dell’evoluzione politica della Repubblica in Italia
di Guido FORMIGONI
Docente di Storia contemporanea - Prorettore Iulm
La vicenda ancora parzialmente oscura del sequestro e dell’assassinio di Moro, di cui ricordiamo in questo periodo i 42 anni, ha oscurato per molto tempo la sua parabola di politico e di statista. Nella memoria degli italiani resta la R4 amaranto con il suo mesto carico, non un percorso di vent’anni in cui Aldo Moro fu il vero perno dell’evoluzione politica della Repubblica in Italia. La sua morte tragica ha dato il suggello definitivo a un ruolo storico che egli pensava nel senso dell’evoluzione, della crescita, del pacifico e ordinato movimento verso obiettivi condivisi. E che invece è stato segnato dalla contrapposizione aspra e dall’incomprensione sul fronte esterno, ma anche da una interna tensione e da una drammaticità esistenziale crescente, di cui abbiamo la possibilità di cogliere solo alcuni bagliori.
Il giudizio sugli esiti della sua parabola esistenziale può essere anche molto diverso a seconda dei punti di vista e dei giudizi storici, ma questo non dovrebbe impedire di considerare né l’originalità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni, né gli esiti di questo impegno. In termini di progetto, il suo pervicace tentativo fu quello di rendere la «Repubblica dei partiti» capace di realizzare quel modello ideale che restò sempre la sua stella polare: lo Stato democratico-sociale avanzato delineato nella prima parte della Costituzione del 1948. Lo perseguì costruendo le strategie del primo centro-sinistra e poi della «solidarietà nazionale» degli anni 1976-’78: allargare a sinistra il consenso, quindi, tentando però di evitare che si creassero contraccolpi e rotture. Egli riteneva indispensabile che non si divaricasse dal governo del Paese il peso di quel moderatismo italiano che era a rischio di involuzioni destrorse e financo autoritarie: per questo fu un sostenitore continuo dell’unità della Dc. In termini di risultati, siamo sempre più consapevoli che la sua scomparsa coincise con la fine di un periodo tutto sommato evolutivo della storia repubblicana, cui fece seguito una crisi sempre più grave della politica, precipitata infine nel baratro di Tangentopoli.
Cosa resta ai giorni nostri di quella esperienza e della lezione di quell’impegno? Il suo magistero intellettuale è vasto. Si tratta di scritti tutt’affatto che difficili e oscuri (come una certa retorica polemica è usa a dire), magari un po’ lenti e noiosi per i ritmi moderni, ma molto logici e addirittura pedagogici nei loro contenuti.
Certamente, a tratti sembra di essere ormai troppo lontani dai suoi giorni per poter parlare di una lezione viva. Anche perché purtroppo la brusca troncatura della sua presenza non ha aiutato una possibile continuità delle sue intuizioni, dei suoi metodi e della sua ispirazione. E ancor di più, perciò, molta parte delle lezioni che scaturiscono dalla sua vita ci sembrano segnate dall’inattualità di una stagione molto lontana. Non ci sono più i riferimenti vitali della politica di Moro: il quadro internazionale della guerra fredda, i partiti di massa, una Chiesa capillarmente viva negli strati popolari, una società in tumultuoso e ottimistico sviluppo.
Ma credo senz’altro che la società e la politica attuale potrebbero imparare parecchio proprio da questa inattualità: confrontarsi con qualcosa di totalmente diverso dovrebbe aiutare a comprendere i limiti del presente. Pensiamo alla sua capacità di intuire i grandi problemi storici senza farsi condizionare troppo dall’attualità contingente, alla fiducia nella lentezza dei processi più che nell’apparente rottura del decisionismo astratto, all’uso mite della parola e della ragione per ricondurre sempre le tensioni su un terreno di dialogo civile, all’arte della mediazione non finalizzata semplicemente alla propria sopravvivenza ma all’evoluzione lenta di un sistema fragile come la democrazia italiana, alla sua tensione interiore nell’essere fedeli al  Vangelo assumendo la responsabilità di scegliere nella storia i passi ad esso coerenti (in una sorta di permanente «principio di non appagamento» verso una meta di giustizia e di libertà). Sono elementi del passato? Forse, ma quanto potrebbero insegnare all’oggi!