venerdì 7 novembre 2014

Sentimento, umore, rabbia, frustrazione. La psicopolitica che spiega il midterm

Guido Moltedo 
Europa  
Obama promette che ascolterà il "sentiment" espresso dagli americani (anche se l'economia è tornata a marciare). Ma anche Hillary e i repubblicani sanno di non poter ignorare la rabbia anti-politica



DETROIT. Sentiment, mood, anger, dissatisfaction, unhappiness. Sentimento, umore, rabbia, insoddisfazione. Mai le parole dell’anima e dell’animo avevano avuto tanta risonanza nel dibattito politico prima e dopo una tornata elettorale. Perché attingere al vocabolario del feeling per spiegare un risultato come quello di martedì scorso?
Tutti ammettono, anche i nemici di Obama, che i dati della realtà sono ed erano tutt’altro che disprezzabili, non tali comunque da trasformare, com’è avvenuto, il voto del midterm in un referendum sul presidente, con conseguente disastrosa bocciatura del suo operato e della sua leadership. Più un brutto “cappotto” per i dem. Non bastassero le cifre (si pensi alla disoccupazione sotto il sei per cento dal 7,8 di due anni fa), basterebbero i cartelloni alle pompe di benzina per far dire che qualcosa è cambiato. 2,99.9 dollari al gallone, come se noi pagassimo un quarto di euro al litro.
Due anni fa, nella sfida presidenziale contro Mitt Romney, Obama faticò non poco a spiegare che l’economia sarebbe migliorata. La benzina sopra i tre dollari gli dava clamorosamente torto. Ma il presidente ottenne la rielezione. Non era un referendum sulla sua presidenza, lo fu solo in parte, ma una competizione e un confronto con un avversario molto modesto e troppo “bianco”, che, non ultimo, per il suo essere mormone (di nuovo il sentiment), non ebbe appoggi sufficienti nell’elettorato evangelico estremista che considera i mormoni una setta.
Nella lunga conferenza stampa dopo il voto, che sarà ricordata come la conferenza dell’«I hear you», vi ascolto, Barack Obama ha alluso alla necessità di “far sentire” agli americani i miglioramenti via via raggiunti: dobbiamo andare avanti, ha detto, fino a che «ogni americano senta i guadagni di un’economia che cresce dove conta di più, cioè nelle nostre vite». «Gli americani si aspettano che chi è eletto lavori al massimo. Si aspettano che ci concentriamo sulle loro ambizioni non sulle nostre. Vogliono che in entrambi i partiti ci sia la responsabilità di tenere conto di questo sentiment».
Più che la scontata bocciatura da parte dell’elettorato bianco e conservatore, brucia nel primo presidente africano americano la diserzione del “suo” elettorato. Un’apatia che è una protesta silenziosa e che colpisce di più della violenza delle parole e delle immagini di una campagna particolarmente nasty, cattiva, come quella appena conclusa. È stata la più bassa affluenza elettorale dal dopoguerra in poi, parecchio sotto la metà degli aventi diritto, neppure un terzo nello stato di New York, in una campagna elettorale nella quale sono stati spesi quasi 3,67 miliardi di dollari per la propaganda.
Una propaganda all’insegna della distruzione dell’avversario. Anche questo un fenomeno che va avanti da tempo, con l’ingresso in campo di grandi finanziatori dei cosiddetti Pac e super-Pac, comitati di azione politica che affiancano le campagne elettorali dei candidati, ma in realtà le sovrastano e le condizionano, imponendo il negative campaigning. Bob Schieffer, un veterano del grande giornalismo politico televisivo, ha detto, nella notte elettorale, mentre arrivavano i dati, che «l’umore del paese sembra essere stanotte il fattore decisivo in molte competizioni», e ha stigmatizzato con indignazione come questo nasty mood sia alimentato da fiumi di soldi senza regole.
Programmi, idee, questioni locali? Questa campagna ha brillato per essere stata condotta lungo il percorso dell’insulto e della caricatura delle posizioni dell’avversario. È stato un voto contro. In questo schema non è una novità che il presidente in carica diventi il bersaglio preferito in assenza di una discussione di merito. Un opinionista dell’Alabama, Mark McCarter, ricorda quando, vent’anni prima, l’allora candidato repubblicano per la carica di governatore, Fob James, scrisse una lettera al presidente Clinton invitandolo a venire nello stato per sostenere l’avversario Jim Folsom: «Non riesco a pensare a una cosa migliore che possa capitare al mio avversario che avere lei in Alabama per sostenere la sua campagna».
L’“anti-Obama sentiment” è molto più forte che quello nutrito nei confronti dei suoi predecessori in elezioni di medio termine nel secondo mandato. Hillary – che è già nel mirino, con Bill, degli odiatori, “haters” – sa che tra un po’ toccherà a lei e al marito. Eppure i primi a rendersi conto che la rabbia dell’elettorato è una rabbia anti-politica, che investe tutti, sono gli stessi repubblicani. Che adesso detengono la maggioranza nei due rami del Congresso, e devono decidere che linea assumere per non finire loro nel mirino dei loro stessi sostenitori. Devono scegliere tra il dialogo con i democratici e con la Casa Bianca o la conferma del muro contro muro.
Lo stratega e sondaggista repubblicano Franz Luntz avverte che il 34 per cento degli elettori dichiara di «sentirsi frustrato». Le seconde due parole più usate sono «arrabbiati» con il Congresso perché «frustrati». Il messaggio è chiaro, dice Luntz: «Ora che avete vinto, iniziate a guidare e a fare le cose che dovete fare».

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