sabato 28 settembre 2019

Papa Francesco: sono assediato, la preghiera del mio popolo mi può liberare


Riccardo Maccioni 
giovedì 26 settembre 2019

Su La Civiltà Cattolica le parole del Pontefice nel colloquio con i gesuiti durante il recente viaggio in Africa
"Vi chiedo di pregare per me": Papa Francesco lo dice alla fine di ogni incontro, che sia una udienza o un Angelus. Da qualche tempo ha anche aggiunto: "Ne ho davvero bisogno". Una sorta di "elemosina", questa richiesta di preghiera, come lui stesso ha detto nell'incontro con 24 confratelli gesuiti di Mozambico e Madagascar nel recente viaggio in Africa, ai quali ha spiegato anche il perché. "È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo, come si legge negli Atti degli Apostoli". A riferire le parole del pontefice, di questi incontri a porte chiuse, è su Civiltà Cattolica il direttore padre Antonio Spadaro. "Quando Pietro era imprigionato, la Chiesa ha pregato incessantemente per lui. Se la Chiesa prega per il Papa, questo è una grazia. Io davvero - dice Francesco - sento continuamente il bisogno di chiedere l'elemosina della preghiera".
Il pastore della Chiesa universale. Ma anche un semplice “padre”, un uomo come gli altri che ha bisogno della grazia di Dio e del sostegno del suo popolo per vivere al meglio il proprio ministero di servizio totale a Cristo e all’uomo. Nel dialogo con i gesuiti africani pubblicato come anteprima del prossimo quaderno de La Civiltà Cattolica, le tre dimensioni appaiono perfettamente complementari, unite senza distinzioni, capaci di disegnare una figura di grande spessore spirituale, di intensa profondità, eppure capace di parlare a tutti.
«L’elezione a Papa – confida Francesco rispondendo a uno scolastico (equivalente di un seminarista diocesano) – non mi ha convertito di colpo, in modo da rendermi meno peccatore di prima. Io sono e resto un peccatore. Per questo mi confesso ogni due settimane. Non c’è alcuna magia nell’essere eletto Papa. Il Conclave non funziona per magia».
Durante il suo viaggio in Mozambico, per la precisione giovedì 5 settembre, il Pontefice ha incontrato in forma privata un gruppo di 24 gesuiti. Il testo anticipato da La Civiltà Cattolica è la trascrizione completa di quel dialogo, un botta e risposta in cui Bergoglio ribadisce la netta differenza tra l’evangelizzazione, che «libera» e il proselitismo che invece fa perdere la libertà e «prevede sempre gente in un modo o nell’altro assogettata. Nell’evangelizzazione il protagonista è Dio, nel proselitismo è l’io».
All’incontro in Mozambico erano presenti, sotto la guida del padre provinciale Chiedza Chimhanda, 20 gesuiti del Paese ospitante, 3 dello Zimbabwe, un portoghese. Parlando con loro Francesco ha indicato nella «fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento» una delle dimensioni del clericalismo, grave distorsione della vita consacrata. «Ci si concentra sul sesso – spiega il Papa citando l’insegnamento di un “grande gesuita” – e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne». Ma decisamente pericoloso e anticristiano è anche l’atteggiamento di rifiuto dell’accoglienza, la filosofia di chi alza barriere, l’indifferenza verso i poveri, l’ostilità nei confronti del diverso, dello straniero.
«La xenofobia – spiega – distrugge anche il popolo di Dio». E ancora: «costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica». Ma per capirlo pienamente, per dare spazio al vento liberante dello Spirito, c’è bisogno della preghiera, quella che Bergoglio chiede alla fine di ogni incontro. «È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo, come si legge negli Atti degli apostoli. Quando Pietro era imprigionato, la Chiesa ha pregato incessantemente per lui.
Se la Chiesa prega per il Papa, questo è una grazia. Io davvero sento continuamente il bis l’elemosina della preghiera. La preghiera del popolo sostiene».
La preghiera, dunque, come esercizio di svuotamento di sé per lasciare spazio all’azione dello Spirito, come via per comprendere e seguire la volontà del Padre su di noi, come antidoto alla vita comoda. Condizione che mal si coniuga con il Vangelo, con la condizione dei cristiani all’acqua di rosa. «Quando noi entriamo in questo tepore, in questo atteggiamento di tiepidezza spirituale – ha detto il Papa stamani durante la Messa in Casa Santa Marta –, trasformiamo la nostra vita in un cimitero. C’è soltanto chiusura perché non entrino dei problemi come questa gente che “sì, sì, siamo nelle rovine ma non rischiamo: meglio così. Già siamo abituati a vivere così”».

La questione Renzi e le ragioni di una scommessa


Alberto De Bernardi e Mario Rodriguez

Italia Viva ha prodotto una indubbia lacerazione, che però salvo alcuni rari casi è stata analizzata seguendo l’indirizzo prevalente assunto dalla maggioranza del partito e dagli opinionisti d’ “area” come una decisione avventata, che appartiene più al campo della psicologia, o meglio della psicopatologia di uno malato di leaderismo incontenibile, fino alla valutazione espressa da Orlando nella sua relazione alla direzione del Pd di una scelta personalistica, non “motivata da processi storici e politici” in cui sui mescolano “malesseri” “aspirazioni personali”, che nessuno dei presenti ha smentito.

La psicopatologia della leadership
Orlando forse non lo sa ma nella tradizione politica da cui proviene – il comunismo – l’accusa di personalismo apriva immediatamente le porte al sistema concentrazionario bolscevico. Ma l’affermazione è ancor più stupefacente se si guarda al tempo presente: le nostre sono le giornate nelle quali una giovane donna di 16 anni parla all’Onu di ambiente, nelle quali si discute della brexit e il Sistema Westminster, modello per decenni, sembra entrato in crisi; nelle quali in Spagna si rivota per la quarta volta in un anno; nelle quali le innovazioni tecnologiche nel campo della IT stanno creando un cambiamento che taluni paragonano alla introduzione della stampa a caratteri mobili; e, infine, nelle quali gli stati nazionali appaiono sempre più inadeguati a governare i processi economici indotti dalla globalizzazione.
Probabilmente Orlando, proteso nelle periferie alla ricerca del “noi”, non se ne è accorto. Ma anche chi ha evocato la Bibbia ha contribuito a creare un clima di “damnatio”, con l’obbiettivo esplicito di mettere in ombra le ragioni e conseguenze di una scelta politica che dovrebbe invece interrogare da vicino proprio quelli che si richiamano alla lunga battaglia per affermare la cultura politica della sinistra liberale. Si è preferito in sintesi insistere sull’obbiettivo di distruggere la credibilità del parlante.
Zingaretti e i riformisti che oggi stano entrando in maggioranza in nome di una “gestione unitaria”, come si suol dire, hanno accompagnato le valutazioni “soggettivistiche” sulla mossa di Renzi con un’affermazione ricorrente di chi viene spiazzato dalle decisioni altrui e vuole rivendicare una forza che però sa di non avere interamente: per far politica “ci vuole altro”! Ma quest’ “altro” rimane nell’iperuranio: si parla di rifondazione, di partito del tutto nuovo, di aree vaste, campi e perimetri, di costituente delle idee, di congresso straordinario, come se la risposta stesse nello sforzo riorganizzativo del partito, che l’uscita di Renzi costringe a prendere atto di essere diventato altro rispetto a quello originario.
Crediamo che questo approccio sia sbagliato, soprattutto in quanti hanno riconosciuto alla leadership renziana il merito di aver cercato di tradurre in scelte politiche di governo l’impianto ideale del liberalismo di sinistra, perché non riesce a collocare la scelta di quanti hanno deciso di dare vita a Italia Viva nel contesto effettivo nel quale valutarla a pieno, nel merito e nelle sue conseguenze.

Che fine fa il progetto del Pd?
Ciò che va messo a fuoco, a nostro giudizio, è che stiamo attraversando un passaggio di fase politica rilevante, avviatosi dalla sconfitta del referendum prima e dalle elezioni del 2018 poi, nella quale, per una serie di errori, ma anche per un mutamento di scenario politico globale, con l’emergere dell’egemonia populista e sovranista, è rimasto stritolato anche il progetto costituente del Partito Democratico.
Di fronte a una narrazione degli eventi nella quale prevaleva la critica al progetto riformista del Pd in nome del ritorno a un presunto passato “socialdemocratico” che significava in sintesi tornare da essere una forza politica consociativa, assistenzialista e statalista, sorprendentemente proprio le minoranze riformiste, che quel progetto avevano contribuito a inverare in policies efficaci, hanno accettato questo piano di discussione, senza avvedersi o sottovalutando che stava diventando l’ossatura ideale di un progetto politico alternativo al Pd. Dietro il “chiedere scusa” di Zingaretti e Martina c’era la negazione dei principi ispiratori del Pd e il ritorno a un partito di sinistra minoritario, inevitabilmente condannato ad un’alleanza organica con il populismo non irrimediabilmente nazionalista rappresento dal M5S.
Come qualcuno di noi ha cercato timidamente di puntualizzare la cultura politica della maggioranza zingarettiana chiude così la fase aperta dalla fondazione del PD, perché vengono considerati superati, in quanto sconfitti nell’azione pratica, anche i principi guida e gli obiettivi che la determinarono: intreccio delle culture politiche riformiste, corrispondenza di segretario e candidato premier, contendibilità delle cariche, primarie aperte, vocazione maggioritaria, partito di governo di centrosinistra.

Spesa pubblica, consociazione, conservazione: il “nuovo” partito della sinistra
La decisione di Matteo Renzi non determina ma prende atto dell’ambiente politico del tutto nuovo, accetta in fretta e spregiudicatamente (e questo dispiace a molti di coloro che ci avevano creduto) che alcuni dei temi fondativi del Pd del Lingotto e di Orvieto non sono più riproponibili all’interno dello “spazio pd” perché la “mozione vincente”, la nuova maggioranza interna al Pd, intende superarli progettando un nuovo partito orgogliosamente di sinistra della spesa pubblica, della consociazione con i corpi intermedi corporativi, del meridionalismo novecentesco, proporziona­lista e conservatore dal punto di vista costituzionale. Affermare che si tratti di un ritorno ai DS con l’integrazione delle residuali forze del dossettismo democristiano, forse è eccessivo, ma indubbia­mente nella testa di Zingaretti e dei suoi consiglieri vi è il progetto della creazione di un soggetto politico assai distante dal Pd.
I riformisti rimasti nel Pd hanno preso atto di questa strategia? Non è una domanda impropria viste le critiche alla scelta di Renzi parrebbe proprio di no, laddove emerge l’esaltazione del “grande partito” – purchessia, viene da chiedersi? – indipendentemente dal fatto che esso rappresenti la negazione di quanto sostenuto in passato. E può bastare la riproposizione, anche se finora abbastanza debole, dei temi fondativi del Lingotto come strategia di resistenza? Probabilmente se non ci fosse stata l’operazione renziana non si sarebbe verificata nemmeno quella debole riproposizione.
Senza una riflessione sulla fase e le fratture che essa ha prodotto nel nostro campo questa riproposizione rischia di ridursi in una battaglia di retroguardia, perché pensare che si possano ricreare le condizioni per un ribaltamento della maggioranza è infondato se si sta accettando nel frattempo un cambiamento delle regole costitutive del partito, che si basa sulla rinuncia esplicita alla contendibilità della leadership. L’idea di partito che sottende la App presentata da Zingaretti e Boccia – annunciata ancora prima che la commissione per la riforma dello statuto termini i suoi lavori – lascia intendere che si vuole rimuovere proprio quella apertura agli elettori che permise “all’intruso” di conquistare la leadership.
Sentire riproporre anche tra i riformisti il vecchio adagio “meglio aver torto dentro che ragione fuori”, meglio le “battaglie all’interno”, anche se strutturalmente minoritarie, che le scissioni, fa emergere un’inattesa convergenza sulla rifondazione zingarettiana di un partito del tutto nuovo che altro non è che è un di cui della concezione novecentesca del partito.
Quei partiti non torneranno come non torneranno le ideologie, i sistemi di pensiero, le religioni civili (e le risorse che mantenevano apparati di “viventi di politica”) che ne permettevano l’esistenza.

Il progetto del Lingotto non si è realizzato
I tratti distintivi del Pd discendevano dalla presa d’atto di questo cambiamento epocale: il pluralismo programmatico (riconoscimento della sua positività, quindi pluri e non mono culturale), la corrispondenza di candidato leader e segretario, la leadership legittimata da una competizione aperta agli elettori, e nuovi criteri di selezione del gruppo dirigente erano il frutto sofferto dell’intuizione che il XXI secolo era profondamente diverso da XX, anche per quel che riguardava le forme di organizzazione dell’azione collettiva nello spazio pubblico.
Certo nell’apertura agli elettori c’era un pezzetto di “populismo”, c’era la necessità di tener testa alla crisi di autorevolezza delle élite politiche, c’era il riconoscimento che la voice espone alla verifica e combatte il ripiegamento su se stessi tipico delle oligarchie basate sulla cooptazione. Ma una scelta del genere richiedeva la costruzione di una cultura condivisa, di procedure riconosciute valide da maggioranza e minoranza, richiedeva una legittimazione reciproca, che però non si è mai realizzata a pieno, per le resistenze dovute a preesistenti appartenenze politiche e ideologiche, ma anche perché la percezione del cambiamento non era stata metabolizzata dai gruppi dirigenti che avevano condotto la fondazione del nuovo partito. E i segretari che si sono susseguiti non l’hanno voluta, potuta o saputa combattere.
Di qui la non accettazione delle procedure di selezione e del ruolo della minoranza. Le cosiddette primarie, la selezione competitiva delle leadership, non sono mai state accettate pienamente. Né per le cariche monocratiche (al tempo della segreteria Bersani il suo capo segreteria affermava pubblicamente che le primarie non erano un dogma e si facevano dove non si riusciva a trovare un’intesa sul candidato) né per i parlamentari. Il coinvolgimento degli elettori non è mai diventato un principio ispiratore di nuove forme di selezione o verifica di proposte o candidature. Non si è mai messo mano alle procedure per renderle più efficaci.
Se il meccanismo della leadership competitiva non viene accettato dalla minoranza sconfitta si riaprono le porte a meccanismi di decisione e di scelta basati sulla mediazione e questo spinge a formare gruppi di pressione (anche piccoli) indipendentemente dal peso elettorale. Da qui la permanenza dell’unica forma possibile di selezione: la cooptazione oligarchica. Se il processo di legittimazione della leadership non è competitivo (e veramente aperto) non può che essere oligarchico consociativo. Ma in una situazione nella quale l’ordinamento verticale garantito dalla ideologia condivisa non plasma più l’autorità e la legittimità della leadership, la cooptazione oligarchica diventa meno meritocratica perché conta la fedeltà. Da qui però discende la necessità delle correnti, che sono una componente ineludibile, sistemica, non una degenerazione morale di avidi poltronari!

Il ritorno del partito oligarchico e consociativo
Sconfitte quelle pulsioni innovatrici rappresentate dalla cultura politica del Lingotto ritorna l’idea di un partito basato su un sistema di pensiero, che racchiude l’ambizione di scaturire da una teoria della società condivisa; mentre la politica torna al vertice delle competenze, torna l’ambizione prometeica di fare sintesi. Ma ci si scontra contro l’aumento della complessità, delle specializzazioni funzionali, della necessità di una visione poliarchica, di una politica che accetti e comprenda le delimitazioni dei propri ambiti di intervento. Ed in assenza di un pensiero forte che possa tener insieme la complessità delle componenti quello che può uscire è solo il pantano, la mediazione snervante, i minimi comun denominatori che all’esterno appariranno molto probabilmente solo intese di potere fatte all’insegna del simulacro dell’unità: in effetti quello che è accaduto nell’ultimo anno, con l’aggravante di escludere programmaticamente Renzi da ogni accordo, senza che nessun riformista sentisse la necessità di stigmatizzare un comportamento tanto assurdo e autolesionista: come se il ritorno alla consociazione oligarchica prevedesse una conventio ad escludendum di Renzi tra i suoi corollari “materiali”.
La maggioranza di Zingaretti ripropone, dunque, lo schema di un partito in cui l’inclusione significa catch all party e in cui una leadership frutto di mediazioni oligarchiche comporti strutturalmente la paralisi dei processi decisionali (al netto delle pulsioni populiste senza principio che emergono dalla suddetta App), affidate a un segretario ridotto controllore di quella mediazione permanente, progressivamente senza scopi che vadano oltre il mantenimento dell’equilibrio.
Ma in queste condizioni una leadership, affrancata dal meccanismo della mediazione sistemica ricorrente, più dinamica e con un gruppo dirigente più coeso (per via della condivisione the alcuni connotati distintivi) potrebbe garantire una maggiore dinamicità ed efficacia: questa è la scommessa dei fondatori di Italia Viva e non si può dire che sia destinata al fallimento.

La scommessa di Renzi
Matteo Renzi ha colto questo cambiamento di fase (forse lo ha anche accelerato) ma ha saputo prendere atto prima di altri di alcuni dati di fatto evidenti:
– Il Pd è imbozzolato in questa trasformazione regressiva senza sostanziali anticorpi attivi, capaci di andare oltre il richiamo retorico al suo profilo identitario e di farne il cuore di battaglia politica vera; certo il Pd non diventerà i Ds 2.0, ma una convergenza di due pensieri poco liberali e competitivi, fortemente segnati da quello consociativo e corporativo del cattolicesimo sociale e da quello tardo socialdemocratico (nella sua versione italiana post comunista) statalista e assistenzialista, deficit spending, ma oggi non è oggettivamente in campo una alternativa questa deriva;
– C’è bisogno di forze organizzate di tipo nuovo, che invochino un cambiamento di passo, di fronte al rischio che la società italiana entri irreversibilmente in un cul-de-sac caratterizzato da un lato (a destra) dalla minaccia populista e sovranista e dall’altra (a sinistra) da una risposta statalista e consociativa. Questo rende il futuro dell’Italia ancora prigioniero delle sue debolezze e dei suoi retaggi storici negativi fatti di scarsa crescita, debito pubblico esorbitante, amministrazioni pubbliche inefficienti.

Accettare una nuova sfida riformista
Forse Renzi non ha lo spessore culturale richiesto per un grande leader, ma nessuno dei suoi competitori né ha di più, anzi si veleggia a soglie molto più basse: è figlio del suo tempo, forse, ma è l’interprete migliore che c’è sulla scena politica. Certo non ha scritto un paginone sul Foglio per spiegare la sua scelta politica e lasciare un segno nella storia del pensiero politico dell’Occidente.
Ma non lo si può accusare di non aver chiaro cosa voglia fare: parlano le cose fatte al governo. Portarle avanti, (correggendo e migliorando) è di per sé un indirizzo culturale, che si traduce in una posizione coerentemente liberaldemocratica, che vive oggi largamente indebolita all’interno del Pd, non per colpa della scissione ma in ragione delle scelte sbagliate fatte dalla minoranza riformista.
È una posizione politica e culturale così chiara da suscitare l’opposizione fermissima dell’entourage zingarettiano, una guerra senza quartiere dell’intellighenzia “sinistra”, che frequenta ossessivamen­te giornali e televisioni, ma anche, purtroppo, un fuoco di sbarramento da parte di chi invece dovrebbe cogliere il senso e l’opportunità che la scelta renziana apre per il riformismo italiano, dentro e fuori il Pd.

domenica 15 settembre 2019

Se torna un po di umanità

Michele Serra
15 settembre 2019
A chi giova l’accoglienza europea, via Italia, offerta agli ottantadue della Ocean Viking? Giova, intanto, agli ottantadue della Ocean Viking, sottratti all’umiliante e malsano bordeggiare di altre navi, prima di questa, in quel mare di nessuno che era diventato il Mediterraneo dei porti chiusi.
Questo è un punto fermo: ottantadue esseri umani trattati con i criteri propri dell’umanità. Solo poche settimane fa non era scontato.Un giovamento conseguente, diciamo di secondo grado, meno vitale e però significativo, può concedersi quella parte non piccola dell’opinione pubblica italiana che viveva con angoscia, e con una certa vergogna, la politica gretta del respingimento pregiudiziale, quella che aveva trasformato ogni arrivo in una sconfitta e ogni cacciata (e ogni annegamento, nelle zone più feroci dei social) in una vittoria.
È certamente poco, il sicuro approdo della Ocean Viking davanti a Lampedusa, rispetto all’enormità della questione migratoria dall’Africa, un gigantesco sconquasso geografico e politico che ha cambiato il volto (soprattutto il volto elettorale) di molti Paesi europei. Ma è molto se serve a dare un segnale. Se riesce a sbloccare, indirizzandolo verso una destinazione un po’ meno incerta, un po’ più governabile, l’ingorgo dei migranti che ingrassa prima i negrieri del Nord Africa, poi i trafficanti di mare, poi gli sfruttatori nostrani di terraferma che aspettano con ingordigia manodopera a basso costo e senza diritti.
Portare alla luce questa filiera, chiamarla per nome, provare a mondarla dei suoi aspetti brutali e criminali, provare a costruire un’accoglienza europea degna di questo nome (Diritti e Doveri le prime due materie in ordine di importanza), provare a mitigare il pregiudizio e il disagio degli accoglienti in forza di una migliore integrazione e di un reciproco vantaggio, provare a ricevere gli accolti come portatori di lavoro e di speranza e non come vettori di virus e impurità, sarà mai possibile? Non è male ricordare che è una domanda che ci si pone, in Europa, da più di vent’anni, senza che si sia riusciti, fin qui, a mettere insieme un convincente piano d’azione corale. È da questa esasperante, impotente lentezza, di fronte alla velocità e alla potenza della storia, che hanno preso forza e coraggio idee assurde oppure feroci, l’isolazionismo ringhioso, il razzismo esplicito, le teorie paranoiche sulla “sostituzione etnica”, i rigurgiti del vecchio nazionalismo che il maquillage d’epoca ha ribattezzato sovranismo. La politica di sedicente “difesa della Patria” del precedente governo aveva creato davanti alle nostre coste meridionali una specie di piccolo, grottesco blocco navale, più ipotetico che funzionale (era come fermare il mare della storia con il pettine delle scartoffie). Un sedicente giro di vite “contro le ong”, nei fatti contro la povera gente in fuga o in viaggio verso una vita decente. Ma difeso, e integro, è un Paese che sa farsi carico delle responsabilità, anche sgradevoli, anche soverchianti, che la storia gli scarica addosso. Tutt’altro che difeso e integro è un Paese bambino, spaventato e lagnoso, che tratta da infezione un’ordinaria vicenda umana — le migrazioni — che si manifesta, in questi anni, con intensità straordinaria.Infine, per chi si domanda se l’Unione Europea stia riservando un trattamento più collaborativo e più vantaggioso a questo governo piuttosto che al precedente, compreso l’impegno, per ora soprattutto sulla carta, di una comune politica sulle migrazioni; la risposta, senza dubbio, è sì. Due pesi e due misure con i gialloverdi prima, i poi. La spiegazione è semplice. Si chiama reciprocità. Anche i due differenti governi italiani, rispetto all’Europa, hanno adottato due pesi e due misure.

Il termitaio che esagera


L’amaca 15 settembre 019
Michele Serra
Capita sempre più spesso di leggere dati e numeri sull’inquinamento; e specialmente sull’emissione dei gas serra, che sono i primi responsabili del riscaldamento anomalo del pianeta.
Percentuali, suddivisioni per settore e per nazione, confronto tra dati differenti quando le fonti siano differenti. È una conseguenza virtuosa dell’effetto Greta: al coinvolgimento emotivo e alla “moda” fa seguito la voglia di saperne di più, di motivare meglio un cahier de doléances che, in assenza di pezze d’appoggio, ha meno peso polemico e meno credibilità politica.
Incrociando i dati, c’è un solo elemento ricorrente e dominante, una specie di macro-dato che a suo modo li riassume (quasi) tutti: più si consuma, più si inquina, tanto è vero che gli Stati Uniti, quanto a gas serra, inquinano più del doppio dell’India, pur essendo gli americani circa un terzo degli indiani. Questo significa, grosso modo, che ogni americano, pro capite, inquina come sei indiani.
Può piacere o non piacere, ma è così, esattamente così: più aria condizionata, più cilindrata nel motore, più ghiaccio nel drink, uguale meno salute dell’ecosistema. Al netto di ogni ironia sul pauperismo, e di ogni possibile fiducia nei miracolosi rimedi della tecnologia, rimane evidente il rapporto diretto tra la smisuratezza implicita nei meccanismi del consumismo e la progressiva rovina del pianeta. Sarebbe bello che fosse solo un’opinione: potremmo continuare la nostra crapula con la giusta spensieratezza. Ma non è un’opinione, è un fatto. O ci diamo una nuova misura, o ce la darà la natura ridimensionando duramente il termitaio umano. Una bella seccatura, perché le termiti siamo noi.

giovedì 12 settembre 2019

"Servire, in silenzio"

"Il senso del progetto". Contributo all'HuffPost di Graziano Delrio per spiegare lo spirito e le intenzioni del governo Pd-M5s a chi ha mosso critiche e dubbi
Caro Direttore,
l’Italia è di fronte a una grave crisi strutturale. Non solo per gli indicatori economici che ogni giorno mostrano il declino del nostro Paese, ma anche e altrettanto gravemente a causa dell’impoverimento culturale e della coesione nelle relazioni sociali. Un Paese dilaniato dai conflitti diviene incapace di assumere scelte strategiche di lungo periodo, rischia di essere ossessionato dai tatticismi e dalle convenienze immediate; una nazione che dileggia il sapere e le competenze come qualcosa di distante dal popolo è un Paese destinato inevitabilmente al declino.
Ma l’Italia non è solo questo.
L’Italia è un grande Paese, con risorse economiche, culturali e morali da cui poter attingere per ritrovare speranza e dignità. Abbiamo tutte le possibilità per rimetterci in marcia perché l’Italia ha bisogno di un sogno, di una speranza e di un grande progetto di sviluppo e rilancio. Dobbiamo avere l’ambizione, credo, non solo di completare una legislatura come doveroso, ma di dare vita a un tentativo culturale oltre che politico. Va riconosciuto che l’esperimento fallito in Italia della coalizione populista, con gli enormi rischi e limiti che abbiamo sempre denunciato, aveva comunque un retroterra ideale comune nel tentativo di riprendere il controllo di un sistema che produce grandi diseguaglianze ma poche opportunità e nel primato della politica contro centri di decisione e fenomeni di dimensioni globali quali l’immigrazione e la finanza.
Ma il populismo è irrealizzabile perché fondato sostanzialmente sul ritorno al passato, sulla chiusura delle relazioni, dei porti, degli scambi e il ritorno nella fortificazione dello Stato Nazione. Certo è che il popolo non dovrebbe essere messo nelle condizioni di scegliere fra una “democrazia dei mercati” e una “democrazia populista”. Dovrebbe poter vivere in una “democrazia sostanziale” come l’ha pensata la nostra Costituzione: una democrazia che si nutre di scopi collettivi e non di paure. La scelta di superare la logica del contratto giallo verde ha questa ambizione di superare una cultura di fondo profondamente sbagliata. Un governo che parte con la logica del “contratto”, porta in sé il DNA della sfiducia, tipico delle relazioni competitive e che necessitano di essere burocratizzate.
L’Italia ha invece bisogno di fiducia, di semplicità, di poter sognare fuori da ogni opportunismo individuale, di superare la logica dell’utilitarismo spicciolo per mettere davanti il bene comune. La parola comunità è stata espulsa dal dibattito politico. Ma esistono e vanno riconosciute come ricchezza numerose comunità con radici spirituali, con senso autentico di cooperazione umana e di dedizione alle sorti della vita comune. Sono soprattutto le comunità territoriali come la famiglia, la città e la provincia dove si può conciliare il lavoro tecnico e la promozione dell’umano, i principi estetici e naturali con quelli sociali. Ove la gratuità del gesto d’amore e della cura può essere praticato, come da sempre vien fatto, in uno spazio di libertà personale protetta da utilitarismi ed efficienza. Avvertiamo la necessità di un rinnovato investimento nella educazione per rafforzare queste comunità. Gli investimenti in cultura, dalle biblioteche di quartiere alle scuole di quartiere, ebbene tutte queste cose rispondono a bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica bensì con la vita morale. Che in questo tempo di degrado del linguaggio e delle posture istituzionali è la vera infrastruttura di cui si sente il bisogno. Questi bisogni sono altrettanto sentiti e necessari alla vita quanto quelli fisici.
Ciò che importa è avere una visione di un futuro ed una speranza per i nostri figli ed arrestare la precarietà e l’insicurezza che ci spaventano, per costruire relazioni più sane tra le persone e con l’ambiente in cui viviamo. Non è nella burocrazia dei contratti che si incarna la politica, ma nell’esercizio del confronto continuo e nel lavoro comune. Dobbiamo assumere come verità storica e base culturale il dato che il potere degli uomini non è determinato dalla somma dei singoli individui ma dalla capacità di essere collettività. Gli uomini hanno creato un mondo migliore nel corso degli ultimi decenni grazie alla cooperazione e non grazie alla violenza e alla competizione. Dobbiamo parlare a quell’Italia sana che fatica, studia, lavora ogni giorno e che si aspetta qualcosa di più dei piccoli opportunismi e delle liti da cortile. Occorre davvero un salto di qualità a partire da un atteggiamento più adulto e maturo dei protagonisti di questa scommessa che ha senso solo se collocata dentro a un grande sogno comune.
Da più parti si pone la questione della capacità di rappresentare l’opinione della base elettorale dopo anni di sanguinosi conflitti tra i partiti. Ma come si pensa di scaldare i cuori delle reciproche basi elettorali? Dicendo che si è stati bravi a negoziare un punto programmatico in più, facendo intendere che non ci si è fatti “fregare” o piuttosto coinvolgendo i cittadini nella costruzione di una nuova speranza di uguaglianza, emancipazione e riscatto sociale? Rimanere umani, ritornare a essere umani non significa abbandonare la propria felicità ma realizzarla. Si tratta di riportare al centro della visione politica le persone e le loro esigenze esistenziali, che sono una vita autonoma, dignitosa e vissuta in pienezza con altri. Infine, si deve conseguentemente assumere una agenda chiara di politiche pubbliche prioritarie che rendono possibile l’esperienza personale e comunitaria: politiche radicali di riarmonizzazione con l’ambiente, politiche di welfare comunitario e generativo di capitale sociale, politiche del lavoro e dell’impresa responsabile. Lavoro, salute, educazione e ambiente valgono più del PIL pro-capite per capire la ricchezza di un popolo.
Governare non significa stare in perenne campagna elettorale e guardare ogni giorno i sondaggi. Significa la fatica di sporcarsi le mani, risolvere i problemi e investire per il futuro anche sapendo che i frutti della fatica verranno colti da altri più in là nel tempo e senza che spesso ci vengano riconosciuti. Significa essere generosi verso gli altri e verso chi viene dopo di noi perché il futuro dipende da ciò che ognuno di noi fa nel presente. Questo significa politica di servizio: essere ogni giorno in servizio. In silenzio e senza doverlo continuamente annunciare. Di questo ha bisogno il Paese: di un progetto ambizioso, condiviso, serio e silenzioso. Serve uno scatto, che mi permetto di dire è innanzi tutto etico e culturale, per sfruttare questa occasione e per dare un senso compiuto e una speranza forte a questi giorni difficili.