Corriere della Sera 28/11/14
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«Ho chiesto: dato che la Regione è
l’unico azionista dell’Aeroporto, posso sapere che stipendi
avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». Lo ha
raccontato sere fa, scandalizzata, la governatrice del Friuli Venezia
Giulia Debora Serracchiani: «Ma se sono soldi pubblici!»
La
Presidente della regione autonoma, che ha anche il ruolo di
vicesegretaria del Pd, ospite della Camera di Commercio di Udine che
premiava i protagonisti dell’economia friulana, era intervistata
dal direttore del Messaggero Veneto, Tommaso Cerno. Il quale
insisteva su due problemi, il degrado inaccettabile della fortezza
veneziana di Palmanova (nonostante la buona volontà
dell’amministrazione comunale, della protezione civile e di
migliaia di cittadini coinvolti come volontari nella pulizia delle
mura) e la crisi dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari sul quale
il quotidiano spara a zero da settimane. È lì che la governatrice
si è tolta quel sassolino dalla scarpa. Rivelando di avere
inutilmente chiesto quali fossero i compensi ai vertici
dell’Aeroporto, cioè al presidente e amministratore delegato
nominato dalla vecchia maggioranza di destra Sergio Dressi (che dopo
essere stato in gioventù un camerata duro e puro ha da anni optato
per giacca, cravatta e poltrone da Grand Commis) e al direttore
generale Paolo Stradi.
Risposta: picche. O meglio, parte degli
stipendi è stata comunicata ed oggi è on-line sul sito della
Regione alla voce amministrazione trasparente. Ma non quello del
direttore generale. Il più pagato di tutti. Nella sua casella c’è
scritto: «compenso deliberato: dati non trasmessi». E poi «compenso
effettivamente percepito: dati non trasmessi».
Secondo lui,
infatti, come ha scritto in una lettera alla presidenza regionale, è
vero che la Regione possiede tutte le quote della società, ma la
società aeroportuale resta comunque una S.p.A. regolata dalla legge
per le società per azioni. Quindi, dice, non ha nessunissimo dovere
di fornire informazioni al socio proprietario. Un parere
dell’Avvocatura dello Stato dice il contrario? Lui non è
d’accordo. Se la regione insiste, chiude a brutto muso, si rivolga
al suo avvocato. Fine.
Uno smacco, per la Serracchiani. Tanto
più che, racconta, aveva fatto della trasparenza delle buste paga e
della battaglia per abbassare gli stipendi perché nessuno possa più
prendere una pubblica prebenda più alta dello stipendio del
governatore regionale, una questione di principio. Macché: come ha
rivelato giorni fa sullo stesso «Messaggero» Maurizio Cescon, uno
degli autori dell’inchiesta sull’aeroporto, l’assai abbottonato
direttore generale prenderebbe (comprese le integrazioni per un altro
paio di incarichi) 255mila euro. Cioè non solo più del presidente
della giunta regionale (circa 150mila euro lordi) ma dello stesso
Giorgio Napolitano. Il tutto a dispetto dell’impegno solenne preso
da Matteo Renzi: nessun pubblico funzionario, in uno Stato serio, può
guadagnare più del Capo dello Stato. Va da sé che la polemica
divampa. Ed è giusto che sia così. Al di là della busta paga del
signor Paolo Stradi, dei cui destini personali non ci interessa un
fico secco, la domanda è: in quale altro Stato il padrone unico di
una società non ha il diritto di sapere quanto viene pagato un
dipendente? Sono o non sono soldi pubblici? Cioè dei cittadini
italiani?
Sul tema l’Authority della privacy ha già risposto
più volte. Stufa di come veniva «spesso lamentato che le pubbliche
amministrazioni giustificano la propria decisione di non fornire
informazioni ai giornalisti dietro una supposta applicazione della
legge sulla privacy», il garante ha ricordato ad esempio qualche
anno fa alla Regione Trentino Alto Adige, di aver già chiarito che
la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e poi il «Codice
privacy» non avevano per niente «inciso in modo restrittivo sulla
normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa».
Dunque «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può
essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso
ai documenti». A farla corta: un conto sono i dati strettamente
personali sulle malattie, le preferenze sessuali, la fede religiosa
di ciascuno, dati che devono essere assolutamente segreti, un altro
le «situazioni patrimoniali di coloro che ricoprono determinate
cariche pubbliche o di rilievo pubblico». Ed è o non è,
l’aeroporto triestino, una struttura pubblica pagata con soldi
pubblici da un ente pubblico?
Non bastasse, la tignosa
resistenza avviene a fronte di risultati sconfortanti. Basti
rileggere le accuse: voli sempre più rari, prezzi stratosferici
(fino a 613 euro per un biglietto Trieste-Monaco di Baviera: il costo
di un andata e ritorno per New York), un calo del 16% dei passeggeri,
clienti in fuga verso gli scali di Venezia o Lubiana, parti
dell’aerostazione che si allargano ad ogni acquazzone un po’ più
forte, sindacati furibondi perché il contratto integrativo dei
lavoratori «è bloccato per la parte economica dagli anni 90»... E
la Regione lì, costretta a tappare i buchi e a pagare 6,7 milioni di
euro nel 2015 per tenere in vita l’aeroporto distribuendo denaro
alle compagnie purché non se ne vadano.
Eppure, ecco la
reazione di Sergio Dressi alla fuga di notizie sugli stipendi: «Chi
ha diffuso quelle notizie, che non sono note neanche al Consiglio di
amministrazione, non ha fatto bene all’aeroporto...» Ma come:
neppure il CdA ne sapeva niente? Evviva la trasparenza.
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