Corriere della Sera 05/11/14
corriere.it
Napoli, 8 giugno, in piena campagna per
l’elezione del presidente della Commissione europea. Parla Matteo
Renzi: «Il Ppe vuole sostenere Juncker? Bene. Che cosa intende fare
lui nei prossimi 5 anni? Qualcuno che vuole continuare con le
politiche degli ultimi anni non avrà il nostro consenso».
Venti
giorni dopo, il consenso ci fu. Ma intanto, era già iniziato tutto.
Cioè l’inseguimento di Renzi a Jean-Claude Juncker con critiche e
battute mai ben comprese a Bruxelles: e con quel sì finale alla sua
nomina «ma solo con un documento che indichi dove vuole andare
l’Ue». Come se l’altro, già approvato dalla maggioranza dei
leader Ue, fosse un piazzista a zonzo con la valigetta vuota. Forse
non c’entrano gran che, con le parole pronunciate ieri da Juncker e
con il suo volto mai così teso, quasi indignato, le scintille
scoccate giorni fa tra il suo predecessore, Josè Manuel Barroso, e
lo stesso Renzi. Quando Renzi fece diffondere la lettera riservata di
Bruxelles sul piano di Stabilità italiano, e poi avvertì: «Basta
lettere segrete». «Non sono a capo di una banda di burocrati»,
dice ora Juncker, e così difende il prestigio della sua Commissione
e anche di Barroso, ma la chiave di tutto sta appunto nel
passato.
«Non c’è un problema Juncker, è uno dei nomi —
dichiarava Renzi durante la campagna di scelta per la Commissione —.
I problemi emersi dal voto europeo sono altri». «Uno dei nomi» era
poi quello sostenuto nell’Europarlamento dalla maggioranza, e fuori
da quelle mura dalla Germania, dai Paesi scandinavi, da vari Paesi
dell’Est. Dopo quelle parole, silenzio di Juncker. Ma non oblio,
probabilmente.
Juncker è infatti noto, da quando era presidente
dell’Eurogruppo, per l’esperienza, l’abilità negoziale, ed
anche per l’eccellente memoria. Così erano in diversi, qui, a
pensare che ricordasse certi complimenti fiorentini, e che prima o
poi si sarebbe levato i proverbiali sassolini dalle scarpe. Qualcuno
è arrivato a pensare che la domanda sul governo italiano rivoltagli
da Manfred Weber, capogruppo del Ppe e suo buon amico, fosse stata
concordata in precedenza. Ma ovviamente è un’ipotesi non
dimostrabile. I fatti, invece, sono tutti là, da interpretare. E
anche le dichiarazioni del passato più o meno recente.
Cinque
mesi fa, subito dopo le elezioni europee, Renzi è da subito accanto
a David Cameron, il premier britannico, e al presidente francese
François Hollande, nell’opposizione alla «linea Merkel» che
predilige appunto Juncker come futuro presidente della Commissione.
Cameron arriva a dire che, se verrà eletto Juncker, la Gran Bretagna
potrà anche uscire dall’Ue. Renzi naturalmente non lo segue su
questa pista ideale da go-kart, ma non è molto meno determinato nel
difendere le ragioni della sua opposizione.
A Bruxelles o
Strasburgo, la frizione fra un leader politico della Ue e uno
dell’Italia non è certo una novità: prima e dopo il «kapò»
regalato da Silvio Berlusconi all’attuale presidente
dell’Europarlamento Martin Schulz, è stato quasi un susseguirsi
continuo di rimbrotti e spintoni reciproci. Ma nel caso di Renzi e
Juncker, chiunque porti la responsabilità della frizione, nel giro
di pochi mesi si è già superato l’usuale livello di tensione.
Certo possono contare in parte le differenti appartenenze politiche:
Juncker è cristiano-democratico del Ppe, Renzi sta nel
centrosinistra, nel Pd. E poi anche qualche distanza caratteriale può
giocare un suo ruolo.
Però c’è pure un’altra cosa: lo
stile personale di Renzi, che in Italia desta spesso legittime
simpatie, non combacia con certi protocolli di Bruxelles. Fin nelle
cose più lievi: «Guardatelo — racconta divertito un funzionario
di qui —, quando entra al Consiglio Ue si abbottona sempre la
giacca stretta, e si guarda intorno soddisfatto. Chi faceva così? Ma
Silvio, no?…».
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