Corriere della Sera 01/11/14
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Il sociologo veneto Paolo Feltrin
parte in quarta: «È mai possibile che quando un leader sindacale
lascia diventi subito presidente del centro studi? È così per
Bonanni, lo sarà per Angeletti come era stato per Epifani. Il
rinnovamento dovrebbe iniziare anche da queste scelte».
Il
sindacalismo italiano si trova davanti a un passaggio delicatissimo
della sua storia. Il successo degli scioperi generali e delle
mobilitazioni di piazza servono a respirare — come si dicono nel
fuorionda Susanna Camusso e Stefano Fassina — ma forse c’è da
inventare un nuovo posizionamento. Suggerisce Feltrin: «Vedo in
difficoltà il sindacalismo che va in tv mentre nei territori la
situazione è diversa».
In periferia Cgil-Cisl-Uil in qualche
misura hanno già scelto: in molte aziende sono diventati partner
dell’impresa. «In fondo in Luxottica che fa il sindacato se non
garantire che l’assenteismo sia basso e che produttività e qualità
siano le più alte possibili?». Feltrin racconta come all’Acc di
Belluno, che produce compressori e che è stata comprata dai cinesi
della Wanbo, i sindacalisti abbiano accettato di ridurre il salario e
di rendere più efficiente l’azienda pur di salvarla. E il
referendum operaio ha confermato la scelta. In verità nella totalità
dei casi di accordi «dolorosi» il voto segreto ha confermato le
scelte dei delegati. «Dico allora che quello che si finisce per
accettare in extremis dovrebbe essere discusso e negoziato a monte,
in condizioni di normalità». Un sindacato pragmatico potrebbe anche
candidarsi a gestire nuovi servizi: Feltrin addirittura affiderebbe a
Cgil-Cisl-Uil i centri per l’impiego piuttosto che farli morire nel
pubblico impiego.
In Emilia il sindacato risulta pienamente
coinvolto nel clima di rivalutazione del lavoro manuale e di
relazioni industriali moderne che si respira nelle grandi aziende e
nelle multinazionali. Stiamo parlando di automotive e packaging
(Ducati, Lamborghini, Coesia, Ima), imprese che vanno bene e che
macinano utili. Un ruolo chiave lo gioca la Fiom, che opera secondo
un modello sui generis in cui un sindacato fortemente identitario
produce sindacalizzazione elevata ed è però attentissimo in
fabbrica a firmare accordi (ad esempio sui turni) che rispettano
l’opinione di una base moderata.
Molto gioca la paura di
perdere il posto di lavoro, magari anche il fatto che marito e moglie
lavorino sotto lo stesso padrone e il rischio sia doppio. Fuori dalle
aziende le centrali sindacali emiliane vivono sui servizi e sul
patronato ma sono organizzazioni legnose, lente a capire i
cambiamenti. Come quelli che avvengono nella logistica popolata da
lavoratori extracomunitari. I Cobas stanno conquistando spazio tra i
facchini mentre Cgil-Cisl-Uil faticano a reinsediarsi nel cuore del
lavoro povero. Capita così che i lavoratori iscritti al sindacato
manifestino contro gli scioperi selvaggi e il blocco dei cancelli
operato dai facchini, come è accaduto prima all’Ikea di Piacenza e
a Ferrara nei giorni scorsi. Sono piccole marce alla Arisio
organizzate però da impiegati ed operai con la tessera in
tasca.
Intervenendo a Omnibus ieri l’ex leader Cgil Sergio
Cofferati ha rivendicato a sé la nascita del Nidil, la sigla rivolta
ad organizzare i giovani. In verità il Nidil non ha mai carburato
perché i giovani sono un altro pezzo di società non coperto dal
sindacato.
I motivi sono molteplici. I rituali di Cgil-Cisl-Uil
inevitabilmente riportano al secolo passato e sono incomprensibili
agli occhi di ragazzi che stanno maturando una visione diversa del
rapporto tra tutele e merito, tra lavoro dipendente e autonomo. I
veri luoghi di aggregazione si chiamano talent garden o coworking e
presentano caratteri di modernità che il sindacato non avrà mai.
Sono ambiti cosmopoliti, dove i giovani costruiscono il loro futuro
innovando e assumendosi rischi in prima persona. Come fa il sindacato
dei congressi che durano 5 mesi, e si concludono con documenti
chilometrici «elaborati dai compagni della commissione politica», a
dialogare con loro? Cambiando argomento come dimenticare poi gli
scioperi dei trasporti pubblici del venerdì che stanno scavando un
altro solco tra confederali e società?
Giorgio Benvenuto quando
guidava la Uil aveva lanciato il sindacato dei cittadini. Racconta:
«Pensai che dovessimo porci obiettivi di riforma dei servizi, dai
trasporti alla sanità e dovessimo autoregolare gli scioperi. Non
l’abbiamo fatto e il rischio oggi è che il sindacato appaia
impopolare. Il cittadino è un suddito, vorrebbe trovare un aiuto e
invece aspetta inutilmente alla fermata un bus che non passa».
A
mettere in fila queste valutazioni verrebbe da dire che il problema
non è dunque Matteo Renzi ma Giuseppe De Rita, sorprendentemente,
lega strettamente il futuro dei confederali alla sfida con il
premier. «La Cgil potrebbe fare la mossa del cavallo. Invitare i
suoi a iscriversi al Pd e partecipare a tutte le primarie. In molti
casi le vincerebbe così a brigante risponderebbe brigante e mezzo».
Se invece il sindacato non volesse invadere la politica e preferisse
posizionarsi totalmente nella società civile dovrebbe diventare «il
soggetto che lotta contro le disuguaglianze». Niente battaglie di
retroguardia sull’articolo 18 o per salvare le fabbriche decotte ma
intestarsi una nuova committenza: i cinquantenni estromessi, il Sud,
gli esodati, i nuovi poveri. «Dimostrerebbe a Renzi che l’Italia
non è fatta di Cucinelli e di Farinetti. L’avevo già suggerito a
Bonanni ma non mi ha dato retta».
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