lunedì 3 novembre 2014

Contrordine nel Pd: le primarie si faranno

Rudy Francesco Calvo 
Europa  
Veneto, Liguria, Puglia, Campania: i dem convocano i gazebo per scegliere i loro candidati. Una scelta giusta per una forza politica che aspira a diventare "partito della nazione" senza chiudersi in un fortino
Il Pd va avanti con le primarie. Gli allarmi lanciati sulla stampa la scorsa settimana sono stati smentiti dalle decisioni assunte dai vertici dem in quelle regioni in cui la convocazione dei gazebo sembrava più a rischio: Veneto, Liguria, Campania. Nel primo caso, a scendere in campo come favorita è stata subito Alessandra Moretti, forte del record di preferenze raccolte alle europee di fine maggio. Altrove, resta più incertezza, con la minoranza in cerca di qualcuno da contrapporre alla spezzina Raffaella Paita e un po’ tutti impegnati a convincere il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca a desistere dalla corsa, che lo vide già uscire perdente nel 2010 contro Stefano Caldoro, mentre non mancano i dubbi anche su Andrea Cozzolino.
Al di là dei singoli casi, però, rimane il dato di fondo: «le primarie restano lo strumento principale per la scelta dei candidati del Partito democratico», come sottolineato da Debora Serracchiani. Non c’è spazio, quindi, per quel principio che doveva essere al centro del “tagliando” che Bersani voleva imporre a questo strumento (se c’è l’accordo di tutti, niente gazebo; ed è sempre meglio cercare l’accordo di tutti) e che sembrava aver trovato uno spiraglio anche nell’attuale segreteria renziana. Le primarie sono la regola, l’accordone l’eccezione.
Non potrebbe essere altrimenti, d’altra parte. Soprattutto oggi che il Pd si candida a diventare quel “partito della nazione” in grado di parlare alla maggioranza degli italiani. E di saperli ascoltare. Oltre alla banale considerazione che lega Renzi ai gazebo (solo grazie ad essi è riuscito a “scalare” il partito), a indurre a privilegiare questo strumento deve essere anche il rischio – da tenere sempre ben presente – che al Nazareno come in periferia prevalga l’autoreferenzialità. Da intendere sia come la pretesa di un gruppo dirigente ad andare avanti per conto proprio, sia come la tendenza a confondere la pluralità interna con gli equilibri tra le correnti.
Più volte è stato sottolineato come ci sia ancora la necessità di cambiare profondamente il partito in molte realtà locali. Un’azione che deve vedere ovviamente impegnati i dirigenti nazionali. I quali, però, non possono prescindere dall’ascoltare le istanze che provengono da quella base, che non è più identificabile con la platea degli iscritti e che va allargata anche agli elettori. Le primarie, così, diventano uno strumento utile a selezionare non solo candidati e dirigenti, ma anche gli stessi interlocutori “privilegiati” del partito. Anche laddove la partecipazione non è alta (come in Emilia-Romagna), questo è un sintomo che i vertici non possono ignorare né provare ad aggirare semplicemente non convocando i gazebo.
Infine, la progressiva riduzione (fino all’azzeramento) dei rimborsi elettorali impone ai partiti di trovare nuove forme di finanziamento. Le cene con gli imprenditori possono anche andare bene (ne sono già programmate due con Renzi nei prossimi giorni), ma perché rinunciare a quell’enorme possibilità di crowdfunding che si realizza ogni volta ai gazebo?
Se qualcuno – Renzi incluso – potrà avere ancora la tentazione di mettere in secondo piano le primarie, tenga ben presente che esse rappresentano quello spiraglio di apertura e di partecipazione che possono evitare che il Pd “partito della nazione” – ammesso che quel progetto si realizzi – si trasformi in un partitone in stile Prima Repubblica, con tutti i limiti che hanno portato alla triste fine di quella esperienza e alla dissoluzione della forza politica che per mezzo secolo ha raccolto, nel bene e nel male, i consensi maggioritari degli italiani.

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