Veneto, Liguria, Puglia, Campania: i dem convocano i gazebo per
scegliere i loro candidati. Una scelta giusta per una forza politica che
aspira a diventare "partito della nazione" senza chiudersi in un
fortino
Il Pd va avanti con le primarie. Gli allarmi lanciati
sulla stampa la scorsa settimana sono stati smentiti dalle decisioni
assunte dai vertici dem in quelle regioni in cui la convocazione dei
gazebo sembrava più a rischio: Veneto, Liguria, Campania. Nel primo
caso, a scendere in campo come favorita è stata subito Alessandra
Moretti, forte del record di preferenze raccolte alle europee di fine
maggio. Altrove, resta più incertezza, con la minoranza in cerca di
qualcuno da contrapporre alla spezzina Raffaella Paita e un po’ tutti
impegnati a convincere il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca a
desistere dalla corsa, che lo vide già uscire perdente nel 2010 contro
Stefano Caldoro, mentre non mancano i dubbi anche su Andrea Cozzolino.
Al di là dei singoli casi, però, rimane il dato di fondo: «le
primarie restano lo strumento principale per la scelta dei candidati del
Partito democratico», come sottolineato da Debora Serracchiani. Non c’è
spazio, quindi, per quel principio che doveva essere al centro del
“tagliando” che Bersani voleva imporre a questo strumento (se c’è
l’accordo di tutti, niente gazebo; ed è sempre meglio cercare l’accordo
di tutti) e che sembrava aver trovato uno spiraglio anche nell’attuale
segreteria renziana. Le primarie sono la regola, l’accordone
l’eccezione.
Non potrebbe essere altrimenti, d’altra parte. Soprattutto oggi che
il Pd si candida a diventare quel “partito della nazione” in grado di
parlare alla maggioranza degli italiani. E di saperli ascoltare. Oltre
alla banale considerazione che lega Renzi ai gazebo (solo grazie ad essi
è riuscito a “scalare” il partito), a indurre a privilegiare questo
strumento deve essere anche il rischio – da tenere sempre ben presente –
che al Nazareno come in periferia prevalga l’autoreferenzialità. Da
intendere sia come la pretesa di un gruppo dirigente ad andare avanti
per conto proprio, sia come la tendenza a confondere la pluralità
interna con gli equilibri tra le correnti.
Più volte è stato sottolineato come ci sia ancora la necessità di
cambiare profondamente il partito in molte realtà locali. Un’azione che
deve vedere ovviamente impegnati i dirigenti nazionali. I quali, però,
non possono prescindere dall’ascoltare le istanze che provengono da
quella base, che non è più identificabile con la platea degli iscritti e
che va allargata anche agli elettori. Le primarie, così, diventano uno
strumento utile a selezionare non solo candidati e dirigenti, ma anche
gli stessi interlocutori “privilegiati” del partito. Anche laddove la
partecipazione non è alta (come in Emilia-Romagna), questo è un sintomo
che i vertici non possono ignorare né provare ad aggirare semplicemente
non convocando i gazebo.
Infine, la progressiva riduzione (fino all’azzeramento) dei rimborsi
elettorali impone ai partiti di trovare nuove forme di finanziamento. Le
cene con gli imprenditori possono anche andare bene (ne sono già
programmate due con Renzi nei prossimi giorni), ma perché rinunciare a
quell’enorme possibilità di crowdfunding che si realizza ogni volta ai gazebo?
Se qualcuno – Renzi incluso – potrà avere ancora la tentazione di
mettere in secondo piano le primarie, tenga ben presente che esse
rappresentano quello spiraglio di apertura e di partecipazione che
possono evitare che il Pd “partito della nazione” – ammesso che quel
progetto si realizzi – si trasformi in un partitone in stile Prima
Repubblica, con tutti i limiti che hanno portato alla triste fine di
quella esperienza e alla dissoluzione della forza politica che per mezzo
secolo ha raccolto, nel bene e nel male, i consensi maggioritari degli
italiani.
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