Troppi pregiudizi: Renzi non è un populista
L'articolo di Carlo Galli è brillante ma pieno di preconcetti sul sindaco di Firenze: ecco perché Il pezzo di Carlo Galli è la più brillante formulazione che sinora abbia letto dei giudizi, e soprattutto dei pregiudizi, ostili alla candidatura di Matteo Renzi a segretario del Partito democratico. Come direttore di questa rivista gli sono grato: il dibattito interno al Pd (come quello interno al Pdl…se ci fosse) è importante per il destino del nostro paese e non tollera reticenze diplomatiche: così scrivevo nell’editoriale del numero del Mulino ora in libreria a proposito di un articolo di Antonio Funiciello, un altro pezzo brillante, polemico e in radicale contrasto con quello di Galli. La nostra rivista si propone di dare un ampio spazio alle diverse posizioni politiche che oggi si confrontano nel Pd e anche di discutere dei caratteri personali dei candidati che le rappresentano. Sarebbe però opportuno, e più utile al lettore, se in questo dibattito la riflessione facesse premio sulla polemica e sulla ricerca di brillantezza retorica, e se venissero messi a fuoco in modo pacato i cinque temi sulla base dei quali la scelta di un candidato dovrebbe essere fatta.Il primo è l’orizzonte ideologico-culturale al quale il candidato si iscrive. Nel caso di Renzi mi sembra chiaro: è il liberalismo di sinistra, e, se il sindaco fiorentino fosse un accademico come Galli e me, non farebbe fatica a giustificarlo. Dopo la crisi teorica del marxismo, il collasso del comunismo e le difficoltà delle socialdemocrazie tradizionali, questa è la posizione politicamente e intellettualmente dominante nelle sinistre di governo dei paesi industrialmente avanzati: tanta eguaglianza delle opportunità quanta è possibile raggiungere nel contesto internazionale in cui viviamo e nelle circostanze concrete in cui un governo opera.
Circostanze concrete, dunque un’analisi spietata della situazione italiana e delle proposte di riforma per migliorarla: questo è il secondo tema sul quale si debbono confrontare i diversi candidati. Molte di queste proposte saranno inevitabilmente comuni tra tutti i candidati, ma altre no: e soprattutto quel che manca, ma meno a Renzi che a tutti gli altri, è una narrativa affascinante in cui incastrare i singoli pezzi, un’idea di Italia come grande paese, civile ancor prima che prospero. Quell’idea di Italia che Veltroni era riuscito a dare nel suo discorso del Lingotto. O un’idea diversa, ma che riesca a tenere insieme aspirazioni individuali diffuse, fascino culturale e realizzabilità.
Il terzo grande tema è quello della ricostruzione del sistema politico italiano, a cominciare dalle sue regole elettorali e costituzionali. Data la sua urgenza – è uno dei compiti del governo Letta –bisogna essere chiari, sia sulle riforme immediate, sia su quelle a lungo termine: Costituzione sacra e inviolabile, alla Rodotà, o modifiche significative, sino al semipresidenzialismo francese? Qui non vedo per Renzi, un bipolarista convinto, difficoltà maggiori di quelle che dovranno affrontare i suoi avversari. Nessuno per ora scopre completamente le sue carte, ma dovranno pur scoprirle per il congresso.
Il quarto tema – il partito – è parte del terzo, della ricostruzione di una democrazia decente dopo i guasti del bipolarismo assatanato degli ultimi vent’anni. Data la sede in cui si svolgerà il dibattito, questo sotto-tema sarà quello dominante, come già si vede dalle bordate che Carlo Galli spara contro Matteo Renzi. Sia ben chiaro, anche a me piacerebbe l’alternativa “lunga, complessa e responsabile” che Galli disegna nel penultimo capoverso del suo articolo. Ma è mai il partito stato quella cosa lì, o in passato è stato l’oligopolio collusivo analizzato da Roberto Michels più di cent’anni fa? E può esserlo in futuro, nella “democrazia del pubblico” descritta da Bernard Manin? È in questa democrazia della televisione e dei social network che si confrontano i candidati alla segreteria e, mentre è apprezzabile ogni tentativo di rivitalizzare i circoli e forme di partecipazione di iscritti e simpatizzanti, bisogna rendersi conto che la personalizzazione della politica è arrivata per restare. L’importante è che nel partito operino sufficienti strutture di confronto da far coincidere le persone che poi dovranno esporsi al giudizio elettorale con progetti e visioni elaborate all’interno del partito, con (non troppo) diverse versioni del suo patrimonio ideale. Anche negli altri grandi paesi democratici la politica è fortemente personalizzata, ma i leader che emergono si sono formati nel partito- come Renzi- e non emergono dal populismo antipolitico, come Grillo o Berlusconi, sintomo delle disgraziate condizioni del nostro paese.
Quinto tema, le persone, i candidati leader, gli uomini e le donne con la loro età, la loro storia, le loro competenze, i loro tratti caratteriali. Persone in carne ed ossa non freddi avatar di idee e programmi. Anche l’attenzione per le persone è destinata a restare, ma va mirata nel modo più obiettivo possibile, e possibilmente in un contesto comparativo. A Carlo Galli Matteo Renzi – anche personalmente, mi pare – non sta molto simpatico. Come persona o come avatar? Gli sta più simpatico Civati, non così diverso da Renzi come stile comunicativo? O Cuperlo, che io trovo persona deliziosa, ma anche perfetto esemplare dell’Ancien Régime? E si è chiesto Galli perché nei rumors che circolano non è mai nominato Fabrizio Barca, di gran lunga la persona più affascinante e competente tra coloro che ancora sperano che il partito tradizionale sia salvabile?
Su questi cinque temi attendiamo contributi.
Lazzati, cattolico controcorrente
Il "pensare politicamente" di un maestro dei cattolici democratici e la lunga battaglia contro Cl e contro il ruinismo-wojtylismo“Pensare politicamente” fu il marchio di alcuni esponenti del cattolicesimo italiano alle prese, nella storia repubblicana, con la sfida di inserire i cattolici nella politica nazionale senza renderli soggetti alle gerarchie ecclesiastiche, né proni alle tentazioni dell’occupazione del potere per il potere. Tra quelli che più hanno segnato il panorama del cattolicesimo politico della Prima repubblica vi è indubbiamente Giuseppe Lazzati, intellettuale milanese, studioso della letteratura cristiana antica. Componente del “gruppo dossettiano” che tanta parte ha avuto e ha nelle diatribe più interne ai cattolici, Lazzati ebbe la particolarità di confrontarsi direttamente e su più fronti per la difesa di un’idea alta di cattolicesimo impegnato in politica.
Il primo fronte fu quello del partito della Democrazia Cristiana: partecipe insieme a Dossetti e Fanfani all’opposizione a De Gasperi, fondò nel settembre 1946 l’associazione Civitas humana da cui nacque la rivista Cronache Sociali, del cui comitato di redazione fece parte, segnalandosi per le prese di posizione contrarie ai Comitati civici di Luigi Gedda e in favore dell’autonomia dell’azione politica dei cattolici dalle gerarchie ecclesiastiche. Ricoprì incarichi politici anche rilevanti per sette anni, dal 1946 al 1953 (padre costituente, uomo di partito nella Democrazia cristiana, deputato impegnato nell’azione legislativa): come Dossetti lasciò la politica attiva nel 1953, ma senza mai operare una svolta teologica ed ecclesiale al di fuori dall’agone pubblico in senso proprio, e prese le distanze da una Dc sempre più fautrice di politiche liberali e non ispirate alla dottrina sociale cristiana. Scrisse nel 1975: «Non possiamo non riconoscere la contraddittorietà dell’azione politica condotta dai cattolici italiani a partire dal dopoguerra: essi hanno tradito lo spirito della Costituzione che aveva posto i fondamenti di uno Stato sociale, gestendo per trent’anni uno Stato liberale».
Il secondo fronte fu quello locale politico-ecclesiale milanese, in un periodo-chiave per il ruolo della “capitale morale” d’Italia (e forse anche del cattolicesimo italiano). Docente alla Cattolica di Milano dal 1958 al 1979, e rettore nel lungo quindicennio post-1968 fino al 1983, Lazzati dovette destreggiarsi tra la difesa dell’istituzione di fronte alla radicalizzazione degli anni settanta (anche degli studenti cattolici) e l’aggressività di Comunione e Liberazione scaturita dal capoluogo lombardo. Tenace oppositore dell’idea ciellina della “presenza” nelle istituzioni del potere come sbocco privilegiato alla vocazione politica del cristiano, Lazzati soffrì le rappresaglie di Cl in vita e dopo la morte.
Il terzo fronte fu quello ecclesiale, ovvero dell’istituzione cattolica, che non vide sempre di buon occhio la sua idea di indipendenza del laicato dalle gerarchie: in un’Italia che, a inizio anni ottanta, subiva la virata di Giovanni Paolo II verso un “modello polacco” di azione diretta delle gerarchie nella vita politica del paese, Lazzati riprese e sviluppò, per un contesto assai mutato, la “Civitas humana” fondata da Dossetti nel 1946 e fondò tra 1984 e 1985 (anno fatale per l’ascesa del ruinismo) la sua rete “Città dell’uomo”. Con il ruinismo-wojtylismo da una parte e la cultura modernizzatrice della “Milano da bere” craxiana dall’altra parte, Lazzati sapeva di agire contro corrente, sia nella chiesa sia nella politica italiana.
Processo di beatificazione di Lazzati a parte, il “pensare politicamente” di questo maestro dei cattolici democratici italiani parla di problemi ancora tipici della questione politica cattolica e non. In primo luogo vi è il nodo del rapporto tra cattolicesimo italiano e la formazione del suo laicato o delle sue élite (che esistono sempre, checché ne dicano gli ideologi della politica in rete): Lazzati era fermamente convinto della necessità di una formazione e di una cultura che venissero prima di ogni impegno politico diretto. Laicità, mediazione culturale e dialogo erano i temi-chiave di questa idea di formazione. Non c’è da stupirsi che i nemici privilegiati di Lazzati fossero quelli di Cl, in quegli anni in cui il Meeting di Rimini iniziò a diventare la passerella del “who’s who” della politica in Italia (papi compresi).
Il secondo nodo è quello della relazione tra cristianesimo e opzioni politiche, che Lazzati vedeva in termini di pluralismo, ad esclusione di ogni settarismo e strumentalizzazione del cattolicesimo come instrumentum regni. Lazzati rese concreta questa sua presa di posizione con la definizione del suo movimento come indipendente sia dai partiti (in primo luogo dalla Dc) sia dalla chiesa (in esplicita opposizione al modello ciellino).
Il terzo nodo, forse quello più importante oggi, è un “pensare politicamente” che si rifiuta di ridurre la politica ad amministrazione. Allora, negli anni ottanta, la polemica era contro quel sottobosco pre- e para-leghista, come la tecnicizzazione della politica portata avanti dal politologo (della Cattolica) Gianfranco Miglio, una concezione amorale della politica come tecnica.
Da trent’anni a questa parte sono molto cambiati sia il cattolicesimo italiano sia la sua rappresentanza politica, ma l’importanza di queste lezioni rimane immutata.
L’insidia inaspettata per Letta
La Stampa 10 agosto 2013
Non si è mai visto un presidente del Consiglio pessimista sulla durata del suo governo, ma Enrico Letta, prima del breve periodo di vacanza, forse potrebbe aver ragione nel sostenere che l’esecutivo sia più solido di quanto appaia.
I motivi della sua fiducia, oltre a quello d’obbligo per ragione d’ufficio, si basano sostanzialmente sulla mancanza di vere alternative.
Mancanza di vere alternative che derivano dalla composizione dell’attuale Parlamento e dall’impossibilità di chiedere agli italiani di cambiarla, con un nuovo voto, senza l’approvazione di una diversa legge elettorale.
Governo obbligato, dunque, governo fortunato? Mica tanto, vista la quotidiana sorte di dover sopportare le continue polemiche tra i due principali partiti della sua maggioranza, alleati per forza e avversari per vocazione. Con l’effetto concreto di essere costretto a rinviare le scelte fondamentali, quelle sui nodi dell’economia che più interessano agli italiani, come le tasse sulla casa o l’Iva, e di limitarsi al varo di provvedimenti sui quali difficilmente si potrebbe essere contrari. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’inasprimento delle pene per le violenze sulle donne.
All’apparenza, vengono dal Pdl le minacce più serie per il governo, come l’ultimatum di Berlusconi sull’abolizione totale dell’Imu per la prima casa, ripetuto ieri, sembra dimostrare. E’ evidente la scelta di ipotizzare l’apertura di una crisi e nuove elezioni, da parte di quel partito, su un tema così popolare e non sulla richiesta agli italiani di approvare, con il voto, un salvacondotto giudiziario per il suo leader. Ma è discutibile il vantaggio, per Berlusconi, della sostituzione di questo governo Letta con un qualsiasi altro, vista la notoria e assoluta contrarietà di Napolitano a elezioni anticipate e l’impraticabilità di indirle con una legge elettorale che la suprema Corte si appresta a dichiarare incostituzionale.
Più insidioso per Letta, invece, è l’atteggiamento del suo partito. Il Pd pare, in questo momento, del tutto disinteressato alle sorti del governo e tutto concentrato sull’esito di un nuovo «duello infinito». Come quello che, per gli ultimi vent’anni, ha paralizzato il maggior partito della sinistra italiana, la competizione tra D’Alema e Veltroni, così, magari per i prossimi vent’anni, si annuncia la sfida tra gli eredi della nuova generazione, Letta e Renzi. I prodromi dello stesso infausto destino ci sono tutti e il surreale andamento dell’ultima direzione Pd, con il balletto di annunci e smentite sulla data delle primarie, conferma i peggiori pronostici. Da mesi, in quel partito, si parla solo di calendari e di regole, questioni certamente appassionanti per gli italiani oppressi dalla crisi e dalla disoccupazione. Da mesi, non appare una proposta chiara e concreta di politica economica che possa far interessare e, magari, far discutere i cittadini.
Da una parte, Berlusconi vellica i magri portafogli dei nostri connazionali, occupa sempre da protagonista il dibattito politico, costringendo gli altri a seguire la scia dei suoi temi, contestando le ricette economiche dell’Europa e del Fondo monetario e riscuotendone i relativi vantaggi demagogici. Dall’altra, si ode un balbettìo confuso e incerto tra omaggi rituali ai rigori monetari delle autorità politiche ed economiche internazionali e timide obiezioni sull’efficacia di quelle ricette. Così, l’unica cosa comprensibile è la condanna a un compromesso continuo, prima sull’alleanza con Berlusconi, poi sull’Imu, poi sul possibile aumento dell’Iva e, infine, persino sulle sorti del ministero retto dall’ex vicesegretario del partito. Un atteggiamento che ricorda quello della Dc, all’epoca della prima Repubblica, nei confronti dell’occasionale «governo amico».
Ecco perché, quasi insensibilmente, quasi inconsapevolmente, quasi involontariamente, l’autismo del Pd, una malattia dalla quale quel partito non riesce a guarire, potrebbe coinvolgere il presidente del Consiglio, dal momento che Letta è anche uno dei duellanti per la futura leadership, e le conseguenze dello scontro con Renzi potrebbero avere decisivi riflessi sulla sua poltrona a Palazzo Chigi.
Alla vigilia della settimana di ferragosto, ci si potrebbe chiedere se la durata del governo, nel prossimo autunno, sia augurabile o no. La risposta è difficile, perché dipende dalla soluzione delle scelte economiche finora rinviate. Quella timida ripresa internazionale che si annuncia non sarà agganciabile anche dall’Italia senza misure, da parte della politica, concrete e rilevanti sul piano dell’occupazione e degli investimenti. L’unica consolazione è che, a fine mese, avremo quella risposta, perché il tempo dei rinvii è scaduto.
Processo Mediaset, l'ira di Silvio Berlusconi per l'accelerazione in Cassazione: "Non garantisco più nulla" "Tenetevi pronti a tutto. A questo punto io non garantisco più nulla. Non posso rimanere fermo aspettando che mi crocifiggano". Adesso è saltato davvero ogni schema. Quando Silvio Berlusconi piomba a Roma la scossa della Cassazione ha già prodotto i suoi effetti. Devastanti. L'ex premier è una furia. Perché l'accelerazione della sentenza al 30 luglio è una clava che rischia di fare a pezzi la strategia difensiva del Cavaliere. Giudiziaria, perché dà meno tempo alla difesa. E soprattutto affida la pratica a un collegio giudicante che non è quello nel quale Ghedini, Longo ma anche coppi riponevano fiducia. Ma anche politica: "Abbiamo mostrato senso di responsabilità - si è sfogato l'ex premier coi suoi - ma non è servito a niente. Altro che pacificazione. Questo è un massacro". Già, un massacro. Perché nell'inner circle del Cavaliere la sensazione è che il cerchio si stia chiudendo. L'ultimo mese parla chiaro: l'appello Mediaset, la condanna Unipol, quella Ruby. E ora la Cassazione, chiamata al verdetto nel mese di agosto. Chiusa cioè la finestra elettorale estiva, e in un momento in cui è difficile ottenere le urne ottobre. Ecco, la Cassazione ha fatto saltare il "piano": aspettare settembre, alzando il tiro sull'economia. E magari rompere un minuto prima del Verdetto, alla prima soffiata utile della Cassazione. Adesso è impossibile. Ad agosto si vedrà se il Cavaliere è condannato e interdetto. E non c'è "piano b". E' in questo clima di panico che per la prima volta da settimane viene riaperto il dossier della rottura, per puntare subito a elezioni. Verdini e Daniela Santanchè quasi lo urlano: "Dobbiamo rompere alla prima occasione utile e puntare al voto". Stavolta l'ex premier non lo considera un azzardo. Spifferi che seminano un panico altrettanto intenso a palazzo Chigi: "Le vicende giudiziarie - ripete Letta conscio del contrario - non influenzano la vita del governo". Ma il premier si sente "sorvegliato speciale" da Berlusconi. E' con un brivido lungo la schiena che Letta ha visto una dopo l'altra le dichiarazioni dei suoi ministri contro la Cassazione. Anche quella di Angelino Alfano. È già la rottura di un equilibrio. In molti ricordano che, dopo la manifestazione di Brescia, Letta disse ad Alfano: "Un'altra manifestazione così e me ne vado". Ecco, l'escalation è iniziata. Nella mai dismessa war room di palazzo Grazioli la parola più pronunciata è "voto". Perché a questo punto è la situazione politica, prima ancora di quella giudiziaria, ad assomigliare a una prigione per Berlusconi. A meno che la Cassazione non lo assolva - e su questo nessuno scommette un euro - la ghigliottina di agosto rischia di essere fatale: "Stare al governo non serve - sussurra un ex ministro - ma, se rompiamo, Berlusconi si trova a fare una campagna alla Grillo, fuori dal Parlamento". Uno scenario da brivido. Reso complicato dal fatto che manca l'occasione per l'Incidente. E che lo scioglimento non è automatico: "Manca l'occasione per rompere - dicono i fedelissimi - e rischiamo un'altra maggioranza che faccia a pezzi Berlusconi". Ed è proprio di fronte a questo inferno che l'ex premier ha rinunciato a parlare all'assemblea dei gruppi e ha fatto sapere che non parlerà per dieci giorni. È un clima da ultimi giorni di Pompei. Rabbia, paura, voglia di reagire. Anche la riunione dei gruppi parlamentari si trasforma in uno sfogatoio, all'insegna del può succedere di tutto. C'è chi, come Daniela Santanchè chiama a una grande manifestazione di massa a difesa di Berlusconi. C'è chi, come Mariastella Gelmini propone di firmare i referendum dei radicali sulla giustizia e dimissioni di massa dei parlamentari. C'è chi, come Brunetta, si dice pronto a tutto di fronte al golpe. Insomma, è il refrain, "qualcosa va fatto". E comunque sarà una scossa. Sul governo. Alessandro De Angelis Uffingtonpost - 10/07/2013
Bentornata Costituzione
Piergiovanni Alleva
Il Manifesto 04.07.2013
Il Manifesto 04.07.2013
La notizia è di quelle che, come si
dice, cambiano completamente lo scenario: la Corte Costituzionale ha
accolto l'eccezione di incostituzionalità parziale dell'articolo 19
dello Statuto dei Lavoratori proposta dalla Fiom e giudicata non
infondata da alcuni tribunali. E ha modificato il testo di
quell'articolo in un modo poco evidente ma importantissimo: la Fiom
può rientrare a pieno titolo in tutte le fabbriche Fiat, e con la
Fiom in quelle fabbriche rientrano la Costituzione e la dialettica
democratica. CONTINUA|PAGINA15 Un vero successo per la Fiom, e il
fallimento dei piani di Marchionne.
Al principio della storia c'è un equivoco: quando entrò in vigore lo Statuto dei lavoratori, l'articolo 19 prevedeva che le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) con tutti i fondamentali diritti che ad esse si collegano (assemblee retribuite, permessi sindacali, etc.) potessero essere costituite nell'ambito dei sindacati aderenti a confederazioni maggiormente rappresentative (lettera a) o anche sussidiariamente dei sindacati comunque firmatari del contratto nazionale (lettera b). Perché intervenne un referendum popolare nel 1995 che cancellò la lettera a?
Per evitare che, certi sindacati in realtà non rappresentativi in una categoria, ad esempio i Tessili, potessero pretendere di costituire Rsa nelle unità produttive, solo perchè aderivano a una confederazione che magari era rappresentativa nella sanità o nella scuola. Però, in tal modo, la cancellazione della lettera a dal punto di vista formale e letterale rendeva il requisito della lettera b, cioè l'aver firmato il contratto nazionale, l'unico requisito alla cui stregua un sindacato poteva costituire una Rsa.
Di qui il paradosso: un sindacato poteva costituire una Rsa non perché a lui aderissero molti lavoratori o anche la maggioranza assoluta, ma solo perché il datore di lavoro aveva accettato di firmare con lui un contratto collettivo.
Un paradosso che per molti anni è risultato innocuo, perché c'era l'unità sindacale, ma dopo la sua rottura lo scenario è cambiato, e in modo drammatico: si sono moltiplicati i casi di contrattazione separata, che hanno visto profonde spaccature tra i confederali.
Quella piccola anomalia, si rilevava allora un'arma pericolosissima puntata contro la democrazia sindacale, perché nel momento del passaggio da un contratto a un altro, se il nuovo accordo veniva firmato solo, poniamo, da un sindacato, soltanto questo poteva poi mantenere le Rsa, mentre gli altri le perdevano: e in sostanza venivano cacciati, come entità organizzata, dalla fabbrica.
Sembra incredibile, ma c'è chi ha fatto di tutto questo una precisa strategia, e si è trattato della Fiat di Marchionne: chi non ricorda lo sbalorditivo spettacolo dei delegati Fiom di una storica fabbrica bolognese del Gruppo Fiat (Weber) ripresi dalla tv mentre con i classici scatoloni in mano lasciavano i locali della Rsa che avevano occupato per tanti anni?
Una profetica sentenza del tribunale di Bologna consentì loro di rientrare e formare di nuovo le Rsa. Il problema si è moltiplicato e diffuso a macchia d'olio nelle oltre 60 fabbriche riconducibili al gruppo Fiat, minacciando di andare ben al di là, perchè lo stesso contratto nazionale metalmeccanici 2012 è un contratto separato non firmato dalla Fiom per le pessime condizioni economico-normative che in esso si contemplano.
La questione è finita in Corte Costituzione, che due giorni fa l'ha discussa in pubblica e affollata udienza, e ha emesso una sentenza importantissima: per formare una Rsa non è necessario aver firmato il contratto, ma è sufficiente aver preso parte alla negoziazione, rifiutando poi la firma per motivi di merito.
Non può sfuggire il vero significato giuridico e politico dell'affermazione: viene respinta l'idea portata avanti dai difensori della Fiat, anche in sede di udienza, che l'articolo 19 premiasse i sindacati «comprensivi» delle ragioni datoriali, e quindi disposti a firmare tutto o quasi tutto. Si è invece ricostituita una visuale dialettica per la quale il sindacato che sia rappresentativo, partecipa al tavolo negoziale, ma può rifiutare senza timore soluzioni nel merito inaccettabili. Ed è quello che ha fatto la Fiom in questi anni nei rapporti con Fiat e Federmeccanica, e quindi ha diritto di ricostituire dappertutto le Rsa, senza dover aderire ai contratti «bidone» firmati dagli altri.
Vi è poi un corollario, non meno importante: che siccome il diritto di costituire o mantenere le Rsa dipende dal fatto di aver partecipato alla negoziazione, l'eventuale non invito, premeditato, del sindacato non gradito al tavolo, diverrebbe un comportamento antisindacale, in quanto impeditivo di per sé del diritto e della possibilità di costituire Rsa.
Un passo avanti in sintonia con l'accordo del 28 Giugno 2011, il quale prevede il diritto del sindacato rappresentativo (che rappresenta più del 5%) di essere invitato al tavolo. Diritto a cui è collegata, ora, pure la costituzione delle Rsa.
Al principio della storia c'è un equivoco: quando entrò in vigore lo Statuto dei lavoratori, l'articolo 19 prevedeva che le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) con tutti i fondamentali diritti che ad esse si collegano (assemblee retribuite, permessi sindacali, etc.) potessero essere costituite nell'ambito dei sindacati aderenti a confederazioni maggiormente rappresentative (lettera a) o anche sussidiariamente dei sindacati comunque firmatari del contratto nazionale (lettera b). Perché intervenne un referendum popolare nel 1995 che cancellò la lettera a?
Per evitare che, certi sindacati in realtà non rappresentativi in una categoria, ad esempio i Tessili, potessero pretendere di costituire Rsa nelle unità produttive, solo perchè aderivano a una confederazione che magari era rappresentativa nella sanità o nella scuola. Però, in tal modo, la cancellazione della lettera a dal punto di vista formale e letterale rendeva il requisito della lettera b, cioè l'aver firmato il contratto nazionale, l'unico requisito alla cui stregua un sindacato poteva costituire una Rsa.
Di qui il paradosso: un sindacato poteva costituire una Rsa non perché a lui aderissero molti lavoratori o anche la maggioranza assoluta, ma solo perché il datore di lavoro aveva accettato di firmare con lui un contratto collettivo.
Un paradosso che per molti anni è risultato innocuo, perché c'era l'unità sindacale, ma dopo la sua rottura lo scenario è cambiato, e in modo drammatico: si sono moltiplicati i casi di contrattazione separata, che hanno visto profonde spaccature tra i confederali.
Quella piccola anomalia, si rilevava allora un'arma pericolosissima puntata contro la democrazia sindacale, perché nel momento del passaggio da un contratto a un altro, se il nuovo accordo veniva firmato solo, poniamo, da un sindacato, soltanto questo poteva poi mantenere le Rsa, mentre gli altri le perdevano: e in sostanza venivano cacciati, come entità organizzata, dalla fabbrica.
Sembra incredibile, ma c'è chi ha fatto di tutto questo una precisa strategia, e si è trattato della Fiat di Marchionne: chi non ricorda lo sbalorditivo spettacolo dei delegati Fiom di una storica fabbrica bolognese del Gruppo Fiat (Weber) ripresi dalla tv mentre con i classici scatoloni in mano lasciavano i locali della Rsa che avevano occupato per tanti anni?
Una profetica sentenza del tribunale di Bologna consentì loro di rientrare e formare di nuovo le Rsa. Il problema si è moltiplicato e diffuso a macchia d'olio nelle oltre 60 fabbriche riconducibili al gruppo Fiat, minacciando di andare ben al di là, perchè lo stesso contratto nazionale metalmeccanici 2012 è un contratto separato non firmato dalla Fiom per le pessime condizioni economico-normative che in esso si contemplano.
La questione è finita in Corte Costituzione, che due giorni fa l'ha discussa in pubblica e affollata udienza, e ha emesso una sentenza importantissima: per formare una Rsa non è necessario aver firmato il contratto, ma è sufficiente aver preso parte alla negoziazione, rifiutando poi la firma per motivi di merito.
Non può sfuggire il vero significato giuridico e politico dell'affermazione: viene respinta l'idea portata avanti dai difensori della Fiat, anche in sede di udienza, che l'articolo 19 premiasse i sindacati «comprensivi» delle ragioni datoriali, e quindi disposti a firmare tutto o quasi tutto. Si è invece ricostituita una visuale dialettica per la quale il sindacato che sia rappresentativo, partecipa al tavolo negoziale, ma può rifiutare senza timore soluzioni nel merito inaccettabili. Ed è quello che ha fatto la Fiom in questi anni nei rapporti con Fiat e Federmeccanica, e quindi ha diritto di ricostituire dappertutto le Rsa, senza dover aderire ai contratti «bidone» firmati dagli altri.
Vi è poi un corollario, non meno importante: che siccome il diritto di costituire o mantenere le Rsa dipende dal fatto di aver partecipato alla negoziazione, l'eventuale non invito, premeditato, del sindacato non gradito al tavolo, diverrebbe un comportamento antisindacale, in quanto impeditivo di per sé del diritto e della possibilità di costituire Rsa.
Un passo avanti in sintonia con l'accordo del 28 Giugno 2011, il quale prevede il diritto del sindacato rappresentativo (che rappresenta più del 5%) di essere invitato al tavolo. Diritto a cui è collegata, ora, pure la costituzione delle Rsa.
La svolta "neutrale" di Papa Francesco
Basta interventismo sulla politica italiana
La Cei si dovrà adeguare. Non più test di
cattolicità per gli inquilini dei Palazzi romani, bensì collaborazione
sui temi caldi della crisi attuale. Il nuovo corso negli incontri con
premier Enrico Letta e con il sindaco di Roma, Marino
di PAOLO RODARI
CITTÀ DEL VATICANO - Non è più tempo di
fulmini bioetici. Il Papa offre alle istituzioni italiane un'alleanza
sulle emergenze sociali. Un'agenda serrata di misure a sostegno dei ceti
più bisognosi e contro l'assenza di futuro delle nuove generazioni. Non
più test di cattolicità per gli inquilini dei Palazzi romani. Bensì
collaborazione sui temi caldi della crisi attuale. Quello che è in atto è
un cambio di strategia, un ritorno alla grande tradizione diplomatica
della Santa Sede che fu di tutti i Pontefici della seconda metà del
Novecento.
Le due udienze che Francesco ha concesso ieri al premier Enrico Letta e al sindaco di Roma Ignazio Marino hanno evidenziato bene quello che dal 13 marzo scorso, con la chiusura del Conclave, è iniziato di nuovo nei rapporti fra la Chiesa e il mondo della politica e delle istituzioni. Una tattica diversa, che mostra un primo e principale segno di discontinuità fra Francesco e il suo predecessore Benedetto XVI che quando ricevette in Vaticano Walter Veltroni sindaco di Roma lo redarguì pubblicamente per gli "attacchi insistenti e minacciosi " contro la famiglia tradizionale. Mentre il segretario di Stato Tarcisio Bertone fece lo stesso con il "cattolico adulto" Romano Prodi all'epoca dei Pacs. Un "modus operandi" a cui tutti, Conferenza episcopale italiana in testa, stanno cercando di adeguarsi.
Francesco ha chiesto a Letta lumi intorno alle "principali prove" che l'Italia e l'Unione Europea stanno sostenendo a proposito dell'adozione di misure che creino e tutelino l'occupazione, soprattutto giovanile. E, insieme, anche le preoccupazioni sul Medio Oriente. Mentre con Marino - giorni fa in piazza San Pietro il sindaco aveva già incontrato il Papa e gli aveva regalato il libro scritto con il comune amico Carlo Maria Martini - ha parlato di fragilità sociale, del disagio delle periferie, "del nostro impegno per una città che offra le stesse opportunità di studio a un bimbo o a una bimba, a prescindere dalla classe sociale a cui appartiene". Ciò su cui il Papa non si è per nulla soffermato sono i temi cosiddetti "non negoziabili", quei problemi che da tempo vedono contrapposta la Chiesa cattolica alla cultura dominante: aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale. Temi presenti nelle agende politiche di governo e amministrazione comunale, al pari dei temi sociali.
Eppure, nessun accenno. Perché? In Vaticano spiegano: è un problema di strategia. Il Papa preferisce mantenere il riserbo sulle questioni che investono sensibilmente la sfera politica, piuttosto che esprimere con forza il punto di vista della Chiesa arrivando di fatto ad acuire le distanze.
Certo, il cattolico Letta non spaventa la Chiesa in merito. Eppure il Partito democratico, di cui fino a pochi mesi fa egli era vicesegretario, ha idee precise circa la maggior parte di questi temi sensibili. Marino, invece, sulla carta sembrerebbe preoccupare di più. Era il 2 giungo quando su Avvenire, quotidiano dei vescovi, apparve un appello rivolto a Marino e a Gianni Alemanno, sottoscritto da rappresentanti di associazioni cattoliche romane e nazionali (da Scienza e Vita e dal Forum Famiglie a Retinopera, fino a Rinnovamento nello Spirito e Mcl; ma con le assenze di Azione Cattolica, Acli, Sant'Egidio, Focolarini), nel quale si chiedeva ai due di prendere posizione riguardo alla libertà di scelta educativa per i genitori e alle scuole paritarie, il tema della vita nascente, quello dei registri dei testamenti biologici, e anche sulla tutela della famiglia, con una richiesta di dire se volessero istituire dei registri "per le unioni civili omosessuali". A questo appello Marino non rispose. Tanto che, pochi giorni dopo l'elezione, fu ancora Avvenire a insistere titolando così: "Campidoglio, rischio-deriva sui valori".
Il Papa e i vescovi italiani la pensano diversamente? Senz'altro no. Ma forse questi ultimi stanno comprendendo soltanto ora, a passi lenti, la nuova strategia papale. Ieri Letta e Marino sono stati ricevuti con le rispettive famiglie. L'abbraccio dato al sindaco di Roma è stato caloroso, quasi inusuale. Tutto è filato liscio. Per ora, niente sembra essere come prima.
Le due udienze che Francesco ha concesso ieri al premier Enrico Letta e al sindaco di Roma Ignazio Marino hanno evidenziato bene quello che dal 13 marzo scorso, con la chiusura del Conclave, è iniziato di nuovo nei rapporti fra la Chiesa e il mondo della politica e delle istituzioni. Una tattica diversa, che mostra un primo e principale segno di discontinuità fra Francesco e il suo predecessore Benedetto XVI che quando ricevette in Vaticano Walter Veltroni sindaco di Roma lo redarguì pubblicamente per gli "attacchi insistenti e minacciosi " contro la famiglia tradizionale. Mentre il segretario di Stato Tarcisio Bertone fece lo stesso con il "cattolico adulto" Romano Prodi all'epoca dei Pacs. Un "modus operandi" a cui tutti, Conferenza episcopale italiana in testa, stanno cercando di adeguarsi.
Francesco ha chiesto a Letta lumi intorno alle "principali prove" che l'Italia e l'Unione Europea stanno sostenendo a proposito dell'adozione di misure che creino e tutelino l'occupazione, soprattutto giovanile. E, insieme, anche le preoccupazioni sul Medio Oriente. Mentre con Marino - giorni fa in piazza San Pietro il sindaco aveva già incontrato il Papa e gli aveva regalato il libro scritto con il comune amico Carlo Maria Martini - ha parlato di fragilità sociale, del disagio delle periferie, "del nostro impegno per una città che offra le stesse opportunità di studio a un bimbo o a una bimba, a prescindere dalla classe sociale a cui appartiene". Ciò su cui il Papa non si è per nulla soffermato sono i temi cosiddetti "non negoziabili", quei problemi che da tempo vedono contrapposta la Chiesa cattolica alla cultura dominante: aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale. Temi presenti nelle agende politiche di governo e amministrazione comunale, al pari dei temi sociali.
Eppure, nessun accenno. Perché? In Vaticano spiegano: è un problema di strategia. Il Papa preferisce mantenere il riserbo sulle questioni che investono sensibilmente la sfera politica, piuttosto che esprimere con forza il punto di vista della Chiesa arrivando di fatto ad acuire le distanze.
Certo, il cattolico Letta non spaventa la Chiesa in merito. Eppure il Partito democratico, di cui fino a pochi mesi fa egli era vicesegretario, ha idee precise circa la maggior parte di questi temi sensibili. Marino, invece, sulla carta sembrerebbe preoccupare di più. Era il 2 giungo quando su Avvenire, quotidiano dei vescovi, apparve un appello rivolto a Marino e a Gianni Alemanno, sottoscritto da rappresentanti di associazioni cattoliche romane e nazionali (da Scienza e Vita e dal Forum Famiglie a Retinopera, fino a Rinnovamento nello Spirito e Mcl; ma con le assenze di Azione Cattolica, Acli, Sant'Egidio, Focolarini), nel quale si chiedeva ai due di prendere posizione riguardo alla libertà di scelta educativa per i genitori e alle scuole paritarie, il tema della vita nascente, quello dei registri dei testamenti biologici, e anche sulla tutela della famiglia, con una richiesta di dire se volessero istituire dei registri "per le unioni civili omosessuali". A questo appello Marino non rispose. Tanto che, pochi giorni dopo l'elezione, fu ancora Avvenire a insistere titolando così: "Campidoglio, rischio-deriva sui valori".
Il Papa e i vescovi italiani la pensano diversamente? Senz'altro no. Ma forse questi ultimi stanno comprendendo soltanto ora, a passi lenti, la nuova strategia papale. Ieri Letta e Marino sono stati ricevuti con le rispettive famiglie. L'abbraccio dato al sindaco di Roma è stato caloroso, quasi inusuale. Tutto è filato liscio. Per ora, niente sembra essere come prima.
La Repubblica 5 luglio 2013
Il belpaese in rovina
Internazionale 2 luglio 2013
I carabinieri controllano i danni dopo un crollo Pompei, il 2 dicembre 2010. (Salvatore Laporta, Ap/Lapresse)
L’Italia, ripresa dall’Unesco per la cattiva gestione del sito
archeologico di Pompei, ha un rapporto tormentato con il suo immenso
patrimonio artistico e culturale. Ne è molto orgogliosa, non investe
abbastanza nella sua conservazione.
“Negli ultimi cinque anni il bilancio del ministero della cultura è
stato ridotto di due terzi”, ha ammesso lo stesso ministro della cultura
Massimo Bray in un’intervista con Il Messaggero.
L’Italia spende solo l’1,1 per cento del suo bilancio alla cultura,
nella classifica europea l’Italia è indietro rispetto all’Islanda (7,4
per cento), alla Spagna (3,3 per cento) e alla Francia (2,5 per cento).
La media europea è del 2,2 per cento, scrive Le Point.
Questo scarso impegno ha delle conseguenze disastrose sui monumenti
italiani. Ne è un esempio il degrado che colpisce gli scavi archeologici
di Pompei, vicino a Napoli. Mentre a Londra il British Museum
organizza una mostra su Pompei e Ercolano che registra il tutto
esaurito, l’Italia trascura i resti delle città romane seppellite dalle
ceneri del Vesuvio nel 79 dopo Cristo.
Il presidente della commissione nazionale per l’Unesco in Italia,
Giovanni Puglisi, ha denunciato lo stato di abbandono e i danni in cui
si trovano gli scavi. In particolare “l’esistenza di edifici abusivi”
attorno al sito e “la carenza di sorveglianza” sugli scavi.
Scrive Le Figaro:
“La minaccia alla conservazione di Pompei è reale. L’Italia non ha
ancora attuato il piano di gestione programmata, adottato di comune
accordo con l’Unesco nel marzo 2012. Questo piano prevedeva l’apertura
di trentanove cantieri per salvare Pompei ed Ercolano entro il 2015. Ad
oggi, solo due sono operativi”.
Oltre a problemi di manutenzione, l’Italia deve affrontare una
carenza di personale per accogliere i turisti. La scorsa settimana,
centinaia di turisti venuti a Roma per ammirare il Colosseo, l’Ultima cena
di Leonardo da Vinci a Milano o la Galleria degli Uffizi a Firenze
hanno trovato le porte chiuse per le riunioni sindacali e gli scioperi.
(Tony Gentile, Reuters/Contrasto)
Il Colosseo in rovina. Il numero dei visitatori del
Colosseo, il più grande anfiteatro mai costruito nell’impero romano, è
aumentato negli ultimi dieci anni. È passato da un milione a circa sei
milioni di visitatori l’anno, anche grazie al successo del film Il Gladiatore
di Ridley Scott (2000). Ma al momento è in cattive condizioni di
conservazione. Il progetto di restauro, finanziato dall’imprenditore
Diego Della Valle, dovrebbe partire a luglio dopo diversi ritardi.
“L’amministrazione dei beni culturali è in coma. Stiamo pagando il
prezzo per le politiche disastrose degli ultimi anni”, ammette il famoso
archeologo Salvatore Settis.
Una soluzione ai problemi del paese potrebbe
venire dal contributo dell’Europa. Nel caso di Pompei, l’Unione europea
si è impegnata a dare all’Italia fino a 41,8 milioni di euro per un
restauro del sito di Pompei, attraverso il Grande progetto Pompei, un
intervento di recupero che costerà in totale 105 milioni di euro.
Ci sono tonnellate di Pcb
nei macchinari aziendali
Se l'azienda chiudesse sarebbero fuori controllo
La Caffaro di via Milano
C'è una «bomba» ad orologeria all'interno dello stabilimento
Caffaro. È composta da decine di quintali di Pcb presenti nei
trasformatori dei macchinari. Se venissero abbandonati sarebbe altissimo
il rischio che quei veleni fuoriescano finendo nel terreno. Non solo.
Nell'azienda sono presenti ancora diversi quintali di fanghi di
mercurio, pericolosa sostanza utilizzata in passato per la produzione
del cloro.
«Per quanto riguarda i Pcb ci sono diverse tonnellate dentro ai macchinari - ci confida un operaio all'uscita della fabbrica su via Nullo - Per ora sono sotto controllo, le eventuali perdite vengono rilevate da allarmi ottici ed elettrici». Ma se l'azienda dovesse chiudere? «Sarebbe un problema enorme. Le guarnizioni si seccherebbero in poco tempo. Il pentaclorobenzene ed il triclorobenzolo finirebbero nelle vasche di contenimento, realizzate in cemento ma non ricoperte di vernici speciali per assicurarne l'impermeabilizzazione. Quindi i liquidi potrebbero finire nel terreno». E sarebbe un'altra enorme minaccia per la prima falda. La stessa che oggi viene tenuta artificialmente bassa per evitare che salga a sfiorare i primi 30 metri di terreno avvelenato presente sotto i capannoni. Quel terreno dove per novant'anni è finita una quantità enorme di sostanze chimiche sfuggite al ciclo produttivo.
«Per quanto riguarda i Pcb ci sono diverse tonnellate dentro ai macchinari - ci confida un operaio all'uscita della fabbrica su via Nullo - Per ora sono sotto controllo, le eventuali perdite vengono rilevate da allarmi ottici ed elettrici». Ma se l'azienda dovesse chiudere? «Sarebbe un problema enorme. Le guarnizioni si seccherebbero in poco tempo. Il pentaclorobenzene ed il triclorobenzolo finirebbero nelle vasche di contenimento, realizzate in cemento ma non ricoperte di vernici speciali per assicurarne l'impermeabilizzazione. Quindi i liquidi potrebbero finire nel terreno». E sarebbe un'altra enorme minaccia per la prima falda. La stessa che oggi viene tenuta artificialmente bassa per evitare che salga a sfiorare i primi 30 metri di terreno avvelenato presente sotto i capannoni. Quel terreno dove per novant'anni è finita una quantità enorme di sostanze chimiche sfuggite al ciclo produttivo.
Cloro, mercurio, pcb, solventi
clorurati, tetracloruro di carbonio, Ddt ed altri pesticidi. Insomma, se
dal 1936 al 1984 l'azienda chimica di via Milano ha prodotto 150mila
tonnellate di Pcb e se un millesimo di questa produzione è finita nei
fossi, contaminando centinaia di ettari di campi e arrivando fino nella
Bassa, a Capriano del Colle, un'altra fetta della sua pesante eredità
dorme ancora dentro la fabbrica. «Le cisterne sono state svuotate»
assicurano i lavoratori ma i trasformatori e i refrigeratori dei
macchinari necessari alla produzione di clorito e clorato di sodio
(utilizzati per la potabilizzazione dell'acqua e venduti alla Dupont)
contengono ancora delle grosse quantità di quei liquidi resistentissimi e
non infiammabili. Una presenza scomoda anche per il rinnovo
dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che la Provincia sta
rinnovando. E senza la quale la Spa con sede a Pisa (che si è detta
disposta a sostituire i macchinari) non può lavorare. La stessa Arpa ha
sottolineato la critica presenza di quei fluidi oltre che la necessità
di potenziare il filtraggio dell'acqua, visto che dall'azienda nel vaso
Franzagola escono ancora 3 etti di policlorobifenili al mese. Altro
capitolo scottante è quello dei fanghi contenenti mercurio: «Quando la
Caffaro è stata messa in liquidazione nel 2009 il commissario Marco
Cappelletto ha stanziato un po' di fondi per la bonifica, ma sono finiti
presto» prosegue uno degli operai più anziani.
Tutti elementi di criticità che
complicano ulteriormente il caso Caffaro. Che rendono ancora più
«miseri» i 6,7 milioni stanziati nel 2006 dal ministero per la bonifica.
Perché se i veleni hanno inquinato cento chilometri di rogge, 270
ettari di terreni agricoli, orti, parchi pubblici e l'enorme massa di
terra sotto lo stabilimento (pari all'intero colle Cidneo) sono presenti
ancora in grosse quantità dentro l'azienda. E proprio dall'azienda
secondo gli operai andrebbe iniziata la bonifica, evitando di farla
morire. Rendendo ancora più drammatico il disastro ambientale.
pgorlani@corriere.it
pgorlani@corriere.it
Del Bono: «Sesana commissario
per il sito Caffaro»
Il suo nome verrà proposto al ministro dell'Ambiente. La mossa strategica annunciata nel primo consiglio comunale
Giulio Sesana, ex direttore Arpa
Mossa strategica del sindaco Emilio Del Bono. Nel corso del primo
consiglio comunale svoltosi lunedì 1 luglio ha pubblicamente annunciato
che proporrà al ministro dell'Ambiente Andrea Orlando (in visita a
Brescia il 20 luglio) il nome di Giulio Sesana, ex direttore Arpa
Brescia come commissario ad acta per il sito di interesse nazionale
Caffaro. Ha anche annunciato che istituirà una commissione indipendente
per affrontare al meglio il problema e capire le eventuali
responsabilità. Una mossa che rinsalda la volontà dell'amministrazione
di affrontare il problema ambientale, visto che non mancheranno le
intense sinergie con il nuovo assessore all'ambiente Gigi Fondra.
LE MOSSE IN AGENDA - Sesana (in
pensione proprio dal 1 luglio. sostituito da Maria Luisa Pastore, ex
direttrice dell'Arpa Monza) potrebbe così mettere a disposizione della
città le numerose competenze ambientali assommate in questi anni e
coordinare i necessari interventi di bonifica, a partire dal risanamento
dei fossi inquinati, dei parchi pubblici e dei giardini privati,
affrontando anche l'importante compito della messa in sicurezza della
fabbrica di via Milano sotto la quale ci sono oltre 4 milioni di metri
cubi di terra avvelenata. Proprio da lì sta ancora scorrendo verso la
Bassa una limitata quantità di Pcb, circa 3 etti al mese.
LA FEDELI DI PISA, CHE LAVORA NELLO STABILIMENTO INTENZIONATA AD ANDARSENE IN FRIULI
Caffaro, rischio chiusura finale
con disastro ambientale
Far funzionare i pozzi costa 1,4 milioni l'anno: troppo per l'azienda che ha «in gestione» il capannone
La
Emilio Fedeli spa, gestista da Donato Antonio Todisco, che ha in
gestione un pezzo dell'ex azienda Caffaro, in amministrazione
controllata da 4 anni, è stanca di pagare sobbarcarsi costi enormi della
gestione ambientale. Per far funzionare le idrovore che pompano 10
miliardi di litri d'acqua l'anno dalla falda, mantenendola così bassa ed
evitando che salga a toccare i veleni dispersi dall'azienda in un
secolo di attività, spende circa un milione e mezzo l'anno. Costi
energetici troppo alti. Per questo l'azienda sarebbe intenzionata a
trasferirsi nello stabilimento di Torviscosa (Udine) dove il gruppo
Caffaro ha un altro stabilimento. Ma se le pompe smettessero di emungere
l'acqua ci sarebbe il rischio di una piccola catastrofe ambientale,
visto che la falda salirebbe a toccare gli inquinanti (Pcb, mercurio,
solventi clorurati, pesticidi) con un serio rischio anche per la
potabilità dell'acquedotto cittadino. Le intenzioni dell'azienda di Pisa
sono state diffuse dalla Cgil. La prossima settimana il sindaco Del
Bono incontrerà i vertici dell'azienda per scongiurare questa ipotesi.
Decreto carceri: si può fare di più Lo sconto per buona condotta resta di 45 giorni: saltata l'ipotesi ventilata nei giorni scorsi grazie alla quale per ogni sei mesi scontati senza rapporti disciplinari lo sconto di pena sarebbe stato portato a 60 giorni. L'affidamento ai servizi sociali e la possibilità di sospendere l'esecuzione della pena restano fermi ai tre anni di pena: dunque saltata l'ipotesi di estendere questa misura per reati fino a 4 anni. Unica novità: cancellati i vincoli della ex Cirielli. Certo una buona novità, ma accompagnata da troppa cautela: infatti, se prima il magistrato in base alla legge non poteva concedere le misure alternative a recidivi reiterati (ovvero che avevano commesso il reato tre volte) ora se vuole, se ci sono le condizioni, a suo giudizio, può concedere le misure alternative. Insomma nessun automatismo e molta discrezionalità. Ovviamente esclusi da questi benefici i reati più gravi (4 bis) come ad esempio la rapina. Sono queste in grande sintesi e a una veloce lettura le novità del decreto sulle carceri approvato stamane dal Consiglio dei Ministri. Azzardo: sarà tanto se entro l'anno usciranno duemila detenuti. In conclusione: considerando che nelle carceri italiane ci sono oltre ventimila detenuti in più delle celle disponibili; considerando che ci sono oltre 50 mamme con bambini piccoli sotto i tre anni; che sono alcune migliaia i malati che avrebbero bisogno di cure mediche in ospedale; che per molti tossicodipendenti non ci sono alternative vere; che per tanti detenuti stranieri sarà impossibile accedere ai domiciliari perché privi di alloggio; che sono attualmente in carcere almeno 10 mila persone con una pena inferiore a un anno; che il 50 per cento dei detenuti in attesa di giudizio alla fine viene riconosciuto innocente... Beh, per tutto questo... considerando l'emergenza, la condanna della Corte Europea dei diritti dell'uomo e infine le attese di tanti per un carcere dove sia rispettato l'articolo 27 della Costituzione... sono convinto che uno sforzo in più potesse essere fatto. Continuiamo a sperare. Nel nome del Diritto. Francesco Lo Piccolo
di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 31 maggio 2013
Mentre parlava con il sorriso sulle labbra, alcuni dei vescovi che stavano ad ascoltarlo in San Pietro accomodati sulle sedie di velluto bordeaux, si sono guardati negli occhi. Alla fine di quei dodici minuti, il discorso più breve rivolto da un Papa alla Cei, nulla può essere come prima per la Chiesa italiana. Nonostante il tentativo di mettere il silenziatore su quanto è accaduto. Lo scorso 23 maggio, con il suo dirompente intervento all’assemblea generale dei vescovi, Francesco ha infatti lanciato un segnale inequivocabile. Non ha parlato di politica né dell’agenda dei lavori parlamentari, non si è soffermato a elencare i programmi della Conferenza episcopale. Ha tenuto una personale meditazione mettendo in guardia i vescovi dal rischio del carrierismo, dal diventare «funzionari» e «chierici di stato» distaccati dalla gente, dalle «lusinghe del denaro», dal pensare troppo all’organizzazione e alle strutture. Questo ha voluto dire ai suoi «confratelli» italiani al primo incontro ufficiale.
«Francesco - spiega lo storico Alberto Melloni - ha pronunciato un discorso morbido nelle forme ma duro nella sostanza, e ha indicato una linea diversa da quella seguita fino ad ora». Come dire che si chiude un’epoca: quella inaugurata dal cardinale Ruini e proseguita dal suo successore Angelo Bagnasco, chiamato ora ad aprirne un’altra. «Negli ultimi decenni - osserva Melloni - è stato proposto dalla Cei un progetto pastorale e politico. Ora il Papa pone al centro dell’attenzione un modello di vescovo. Per l’Italia è un grande salto».
Non si tratta di cambiare parole d’ordine, aggiungere qualche citazione sulla «povertà» o sulle «periferie», o magari cambiare la scaletta degli argomenti nei frequenti interventi pubblici. Non basta il copia-incolla per risultare in sintonia. È come se il Papa chiedesse a tutti una rivoluzione copernicana, o meglio e più semplicemente, una vera «conversione». Sono quasi tre mesi che il vescovo di Roma pescato «dalla fine del mondo» sta mostrando con il suo esempio come intenda il compito di un pastore. Nessuna formalità, nessun distacco, prediche semplici e profonde, che la gente capisce e apprezza. E quando vedi Francesco farsi inghiottire ogni mercoledì dai gorghi della folla in piazza San Pietro, rimanendovi volentieri immerso per ore come se non avesse null’altro da fare, capisci che cosa significa per lui essere «vicino» alle persone «Il Papa, a noi che siamo abituati a comandare credendoci già convertiti, mostra come un pastore debba stare in mezzo al gregge», dice Francesco Cavina, vescovo della terremotata Carpi.
L’assemblea della Cei non ha messo a tema il nuovo pontificato. C’erano altri programmi da
discutere, predisposti da tempo. E così più d’uno dei partecipanti ha ricavato l’impressione di un imbarazzo. La novità deve ancora essere digerita e assimilata, magari cercando di farla rientrare negli schemi preesistenti. «C’è il rischio, per noi pastori, di non farci interrogare da ciò che il Papa dice e dai suoi gesti così eloquenti - conferma a La Stampa un presule del Sud, il vescovo di Rossano Santo Marcianò. «Credo che dobbiamo lasciarci alle spalle - aggiunge una mentalità e uno stile che fino ad oggi abbiamo adottato. Vedo attorno a me tanta voglia di novità, di ritorno all’essenziale».
La «voglia» di ritorno all’essenziale è quella dei semplici fedeli e di tanti sacerdoti, che hanno preso a seguire le parole del Papa e sono colpiti dai suoi gesti. Anche i vescovi hanno potuto toccare con mano questa novità. La sera del 23 maggio in San Pietro, Francesco non s’è limitato a parlare. È sceso dall’altare per abbracciare uno ad uno tutti i pastori delle diocesi italiane, un saluto durato più di un’ora. Invece di farli venire in fila davanti a lui per omaggiarlo, è andato lui da loro, sconvolgendo il protocollo e facendo storcere il naso a più di qualcuno.
Comunicazione politica, lezione dal Cile
Nelle sale
"No - i giornali dell'arcobaleno" del cileno Pablo Larrain
Paola Casella Europa Maggio 2013
C’è un film
cileno che gli italiani dovrebbero vedere, e che sarebbe di grande interesse
anche per i responsabili della comunicazione politica del centrosinistra. Si
tratta di No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larrain
(quello di Tony Manero e Post Mortem) e
ricostruisce la campagna referendaria che, nel 1988, servì a decidere se far
restare Augusto Pinochet al potere per altri otto anni, dopo 15 di governo
ininterrotto.
Sotto le
pressioni della comunità internazionale il dittatore aveva acconsentito al
referendum certo di essere riconfermato, e aveva accettato che le televisioni
nazionali trasmettessero ogni giorno a reti unificate 15 muniti di spot a
favore del sì (per la riconferma di Pinochet) ma anche del no. Il film di
Larrain racconta come la campagna per il no fosse stata affidata ad un giovane
pubblicitario, René Saavedra (la star messicana Gael Garcia Bernal), che decise
un approccio del tutto inaspettato, dal punto dei vista dello zoccolo duro dei
membri storici dell’opposizione.
Saavedra
scelse di usare le armi della pubblicità dando per assunto di base che tutta la
società cilena, tanto di destra quanto di sinistra, avesse assorbito la cultura
neoliberale imposta da Pinochet (e suggerita dagli Stati Uniti) di cui la
pubblicità televisiva era specchio fedele. Il giovane pubblicitario sapeva bene
che, come scrive Carlo Freccero nel suo Televisione, il piccolo
schermo «non è più “naturaliter di destra” perché il
conservatorismo neoliberista è diventato l’unica realtà riconosciuta non solo
da destra, ma anche da sinistra». E decise di ritorcere quella realtà
televisiva contro il dittatore che l’aveva propaga(nda)ta per 15 anni.
Naturalmente
quando il team del no, composto di dissidenti in passato imprigionati e
torturati per le loro posizioni politiche, vede il primo spot concepito da
Saavedra il commento orripilato è: «Sembra una pubblicità della Coca Cola», e
molti membri del gruppo rifiutano sdegnosamente l’approccio del giovane
pubblicitario trovandolo irrispettoso della sofferenza patita da chiunque fosse
all’opposizione in quegli anni di dittatura.
Ma è solo la
forma degli spot di Saavedra a cambiare, non il contenuto dei messaggi, che
parlano anche di tortura, disparità economiche, diritti umani. Ed è René ad
avere ragione nel capire che il nemico, qualche volta, si combatte con le sue
stesse armi. Attenzione: non facendo un lavoro di rincorsa, come quello
effettuato dalle reti Rai rispetto alle reti Mediaset – per portare il
parallelo sul terreno di casa nostra – ma di lancio in avanti.
La campagna
per il no di Saavedra, giocata sui simboli del neoliberismo e della società del
marketing, racconta un futuro possibile e visionario che va oltre il presente
trombonesco e trionfale illustrato dalla campagna del sì. Sia Pinochet che
Saavedra capiscono infatti che i cileni hanno il terrore di un ritorno al
passato, a un socialismo che faccia sentire tutti almeno temporaneamente più
poveri. Dunque il pubblicitario non commette l’errore di offrire agli elettori
quella prospettiva, bensì trasmette loro il miraggio di una società più
«allegra» in cui tutti troveranno la loro dimensione. Il no è un prodotto che ti
invita ad essere giovane e coraggioso>>, sintetizza, con il pragmatismo
della sua generazione.
Il bello del
film è che gradualmente anche Saavedra acquisirà quella consapevolezza politica
e sociale che il suo upbringing gli aveva azzerato. Come dire
che la contaminazione del neoliberismo, una volta ritorta contro chi l’ha
manipolata per i propri interessi, innesca un processo di decontaminazione, si
fa anticorpo. Saavedra trova il vaccino contro il populismo mediatico di
Pinochet usando i suoi codici comunicativi per sconfiggerlo alle elezioni: ed è
questa vittoria profondamente democratica a dare un senso alla sua battaglia.
«Si può dire
che la campagna per il no ha superato la destra sia da sinistra che da destra»,
ha detto Garcia Bernal. In questo superare da destra (a livello comunicativo)
rimanendo di sinistra c’è una preziosa lezione di comunicazione politica.
La beatificazione di Don Puglisi conferma la fine
della complicità della Chiesa
Rete 2018 e Movimento 139: non la rete di Grillo, ma
"ascolto e partecipazione" rivoluzionari
Leoluca
Orlando non ci sta.
Decaduto il partito di Di Pietro con il quale era già prima del voto, in aperta
rottura, dalla sua Palermo, passando per Roma, lancia la fase costituente di
un nuovo movimento politico 139 Coerenza e Democrazia.
Un movimento tutto in divenire che pone, già nel nome, il rispetto dei principi
e delle regole stabiliti dai 139 articoli della Costituzione italiana. A
Montecitorio oggi la conferenza stampa di presentazione. Per Orlando una nuova
sfida dopo le tante della sua vita che l’hanno visto a più riprese primo
cittadino del capoluogo siciliano, paladino poi, con una tessera scudocrociata
in tasca, dell’antimafia, fondatore di un movimento di successo ante litteram
come la Rete.
Orlando c’è e si vede e sono in molti ancora a dirsi pronti a seguirlo.
Orlando c’è e si vede e sono in molti ancora a dirsi pronti a seguirlo.
Sindaco
Leoluca Orlando, l’antimafia è stata sempre una sua bandiera. L’Italia nella
lotta contro le mafie sta facendo passi in avanti?
Venerdì è
stato un giorno di gioia per la Beatificazione di don Pino Puglisi, ma anche un
richiamo forte a tutti e a ciascuno di essere coerentemente degni del suo
ricordo, della sua testimonianza, del suo sacrificio. Oggi, dopo il Magistero
del Cardinale Salvatore Pappalardo, le chiare parole di Giovanni
Paolo II in terra di Sicilia, dopo i documenti dei Vescovi Siciliani, la Beatificazione
di don Pino Puglisi spazza via e definitivamente l’utilizzo perverso della
Fede da parte dei mafiosi e spazza via alibi, complicità e incertezze di uomini
di Chiesa e di fedeli troppe volte subalterni al sistema di potere fondato su
perversione culturale, politica, economica e religiosa della mafia. La mafia
ha troppe volte agito pervertendo la Fede e utilizzando complicità e silenzi di
uomini di Chiesa e credenti. Per questo ho detto venerdì "Grazie Pino.
Grazie Papa Francesco", oltre chiaramente ai ringraziamenti alle forze
dell'ordine per il lavoro che svolgono per la lotta alla mafia e alla
criminalità in genere. Spero che i ringraziamenti il prossimo anno si possano
fare anche nelle tante ricorrenze di delitti dove non c'è ancora verità e
giustizia.
Amministrare
una città difficile come Palermo e allo stesso tempo dedicarsi a creare nuovi
movimenti. Non ha perso il suo spirito originario che la portò a contestare la
Dc di Lima ed Andreotti?
Si chiama
coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa e lo spirito originario significa
non svendere i propri valori e il proprio progetto a nessuno, al miglior
offerente. Tre anni fa abbiamo fondato La Rete 2018, un movimento politico
che per statuto non ha un livello di rappresentanza istituzionale e il cui
simbolo non troverete mai presente in una competizione elettorale. La Rete
2018 ha solo i livelli di lievito culturale e di sintesi politica. Un
luogo dove ci si sente simili nel nostro non sentirci mai a posto, mai
arrivati, mai in grado di capire sempre tutto. Nel nostro continuare a
interrogarci, a guardarci dentro e a guardarci attorno, nel nostro andare ad
abbattere un altro recinto senza limitarci a contemplare il recinto appena
abbattuto. Ora come nel 1991. Figuratevi che tre anni fa abbiamo pensato al
2018 come orizzonte temporale de La Rete, ma il 6, 7, 8 giugno al dodicesimo
incontro de La Retitudine il tema sarà 2018 o 2023?
La Rete da
lei fondata ebbe un ampio successo. Cosa è cambiato politicamente da allora?
Per quanti
hanno vissuto l'esperienza de La Rete non è cambiato nulla in quanto in questi
22 anni (1991-2013) ogni volta che mi sono trovato a scegliere fra i valori, il
progetto e il partito ho sempre scelto i valori e il progetto che sono oggi gli
stessi di allora. Le ricordo che la denominazione completa era La Rete per il
Partito Democratico. Purtroppo anche gli avversari sono sempre gli stessi e tra
questi ci sono anche i 101 del PD che non hanno votato Prodi per l'elezione
del Presidente della Repubblica. I 101 che, oggi come allora, non credono
nel progetto del vero Partito Democratico e che tra i valori e il progetto
scelgono il Partito o meglio l'apparato del partito, l'autoconservazione e la
logica dell'appartenenza, del recinto.
Il governo delle larghe intese è, in
qualche modo, il ritorno del centrismo. La sinistra radicale è fuori dal Parlamento, Sel
e M5S siedono all’opposizione mentre anche la destra di Fratelli d’Italia è
fortemente critica. Che differenza vede tra il governo Letta/Alfano con i
governi di espressione democristiana?
Il Governo
Letta: lo giudicheremo per quello che farà e per quello che non farà. Dico solo
che il Governo Letta è apparso come l'unico possibile, e certamente è conferma
della fine del sistema tradizionale dei partiti italiani e conferma della crisi
della Politica, come già accaduto con il cosiddetto Governo tecnico di Mario
Monti. Ciò che dobbiamo chiederci è come sia stato possibile che ieri si
siano create le condizioni per rendere inevitabile un Governo che vede insieme
forze politiche alternative e dobbiamo chiederci cosa fare domani per evitare
il ripetersi di errori e di deliri di onnipotenza/autosufficienza.
L’Europa dell’austerità è diventata in qualche modo una croce per gli Stati
che ne fanno parte.
Lei che è
stato anche parlamentare europeo come considera questo nuovo scetticismo e quali
ricette propone per la riforma delle istituzioni europee?
Io sono
stato parlamentare europeo ed ora sono vicepresidente dell'ALDE (Alleanza dei
Liberali e Democratici Europei). Qualche giorno fa a Pola alla riunione del
Bureau dell'ALDE ho detto che la crisi economica, sociale e culturale che
stiamo attraversando può essere superata attraverso la costruzione degli Stati
Uniti d'Europa dei cittadini e delle cittadine e non delle Banche, della
speculazione finanziaria e delle caste. Prima mi chiedeva dell'attuale Governo.
Qualche giorno fa ho letto su Twitter questa dichiarazione di Enrico Letta
"#aspen @EnricoLetta Unione bancaria EU è cruciale ma sarà difficile
convincere uomo e donna della strada che sia il loro problema centrale" io
ho risposto "@LeolucaOrlando1: “@LeolucaOrlando a @EnricoLetta: UE
Cittadini/Cittadine -e non UE banche - è cruciale per superare crisi
economica/sociale singoli Stati EU". Il mio pensiero sull'Europa e la
differenza con Letta e il suo Governo è tutta qui.
Grillo e il
Movimento 5 Stelle. Cosa pensa di questo fenomeno?
Le rispondo
con alcuni tweet con cui rispondevo a chi mi chiedeva le differenze con Grillo
e il M5S. Grillo: “il Movimento cambierà il mondo” ... Orlando: “noi non
vogliamo cambiare il mondo, ma attrezzarci per farlo”. Grillo: “la rete
sostituirà il palazzo” ... Orlando: “l’ascolto e la partecipazione sono la
vera rivoluzione”. Grillo: “l’Italia fuori dall’Europa" ... Orlando:
“noi vogliamo costruire gli Stati Uniti d’Europa che siano l’Europa dei
cittadini e delle cittadine e non l’Europa delle banche e della speculazione
finanziaria”. M5S è solo protesta che si è fatta rappresentanza istituzionale.
Noi vogliamo costruire un percorso di valori, comune e condiviso.
Mov139 nasce sulle macerie di Italia
dei Valori e in polemica con Di Pietro. Che movimento sarà?
Mov139 (Movimento139) non nasce
sulle ceneri di Italia dei Valori e non nasce puntando il dito contro Di
Pietro. Mov139 nasce perché i partiti in Italia sono tutti morti,
compresa Italia dei Valori, che invece dei valori e del progetto ha scelto,
come tutti gli altri, l'autoconservazione di una classe dirigente
autoreferenziale ormai lontana dalle importanti esperienze del passato e dai
consensi di cittadine e cittadini. Mov139 nasce perché è finito il tempo dei
congressi costruito su tessere, spesso raccolte a pacchetti e spedite dal loro
"titolare" con versamento cumulativo. Un' istigazione a costruire
correnti, a perpetrare un sistema di falsi tesserati, che votano ai congressi,
ma non partecipano alla vita democratica del partito e per questo incapaci di
rappresentarne le proposte sui territori. Mov139 nasce perché è giunto il tempo
di costruire un vero Partito Democratico. Un Partito dove ognuno possa
mantenere la propria identità culturale e politica, anche se vissuta in luoghi
e soggetti politici di lievito culturale e sintesi politica diversi, ma allo
stesso tempo possa confrontarsi nella convinzione che le diversità siano una
ricchezza e non un ostacolo. Un Partito che sia un mosaico composto dalle tante
tessere delle culture politiche europee (liberaldemocratica in tutte le sue
accezioni, socialista e socialdemocratica europea, cattolico democratica,
sinistra europea, verdi europei). Un Partito dove ogni tessera possa avere la
possibilità di crescere liberamente, all'interno della cornice, senza essere
soffocata o tollerata dalle altre.
La vostra
proposta è quella di un’assemblea costituente.
Proprio
perché, come dicevo prima, è finito il tempo dei congressi di tessere false e
di tesserati che partecipano solo all'elezione del capo o del capo corrente,
noi proponiamo un percorso nuovo, diverso. Diverso anche rispetto al percorso
delle primarie, come le conosciamo fino ad ora. Noi vogliamo avviare un
percorso dove si confrontino idee che camminano sulle gambe di uomini e donne.
Primarie di comunità e non Primarie per scegliere con trionfalismo un capo
ridotto poi a "re travicello", costretto a galleggiare e poi essere
travolto da rissose correnti. Sono stati così travolti e mortificato i milioni
di voti ottenuti in primarie. Primarie aperte per scegliere un'Assemblea
Costituente che si faccia occasione e stimolo per costruire una coalizione per
l'Europa e l'Italia dei cittadini e delle cittadine, alternativa all'Europa e
all'Italia delle caste, delle lobby finanziarie e delle speculazioni
corporative.
Quali
obiettivi vi ponete?
Mov139 - 139
come gli articoli della nostra Costituzione - vuole essere un'esperienza
politica democratica per la protezione, la salvaguardia e la legalità dei
Diritti, della Costituzione e della Pace; il riconoscimento di meriti e
bisogni; la promozione dell'autonomia creativa dell'individuo; il superamento
della crisi finanziaria-etica-culturale attraverso lo sviluppo di un benessere
equo e sostenibile; il rispetto e la tutela dell'ambiente; una vera riforma
federale dell'Europa e dell'Italia che imponga un ripensamento del sistema dei
poteri locali e richieda pertanto riforme forti e concrete, che non sommino
spese centrali a spese locali, ma che realizzino un'Europa dei cittadini e
delle cittadine, un federalismo delle responsabilità e delle diversità.
Smantellare
il conflitto di interessi di Berlusconi è ancora una priorità?
Il problema non è più soltanto
Berlusconi, ma il Berlusconismo e i tanti Berluschini di borgata che purtroppo
sono diventati sistema. Una volta c'era la tangente e sapevi come combatterla
ora c'è un sistema che è difficile da combattere perché fatto da tanti piccoli
conflitti di interessi che a volte sono diventati cultura comune. Ecco noi
dobbiamo avere la forza, insieme a quanti non si rassegnano a subire la
drammatica crisi politica-economica-culturale-etica, di ribellarci, di cambiare
cultura, attraverso una rivoluzione gentile, se vogliamo costruire futuro per
le nuove generazioni. Poi se il Governo Letta farà una legge sul conflitto di
interessi la leggeremo, la valuteremo e se ci convincerà la appoggeremo.
Rivoluzione
Civile, che esperienza è stata?
Un'occasione
persa. Una prova in più che i partiti sono morti e che alle elezioni 2+2 non fa
quasi mai 4. A parte
questo noi abbiamo aderito al progetto di Rivoluzione Civile perché lo
ritenevamo l'unico contro il Berlusconismo e la politica senz'anima del Governo
Monti, ma ci siamo accorti che ormai non basta più costruire un progetto
basato sull'essere contro qualcuno o qualcosa. Dobbiamo costruire un progetto
dove si sta insieme per realizzare un programma di governo comune che nasca
attraverso il confronto nelle Primarie di comunità. E siccome, come dicevo
prima, le idee viaggiano sulle gambe delle persone, anche Primarie di comunità
che insieme ai programmi da attuare scelgano le persone che nelle istituzioni
dovranno attuarlo.
Quale
sarebbe il ruolo del Movimento 139 Coerenza e Democrazia se si tornasse a breve
alle urne?
Ne riparliamo nel 2018???
Il flop grillino non illuda i vecchi partiti
Si sono fatti amare poco, e questo è fuori discussione. E il loro
capo, Beppe Grillo, è il leader più detestato nella «cittadella
politica». In pochi mesi, gli insulti, lo spirito censorio e l’assoluta
indisponibilità al confronto, hanno fatto del M5S un corpo estraneo
rispetto al sistema politico nel quale - pure - il 24 e 25 febbraio
avevano fatto irruzione.
Ce
n’era a sufficienza, dunque, perché la prima sconfitta
elettorale attirasse sul movimento critiche e commenti al vetriolo.
Nulla di nuovo: chi vince irride all’avversario, chi perde si lecca le
ferite. Ma dietro le reazioni sarcastiche, sembra trapelare - stavolta -
un di più di eccitazione, quasi un’euforia, che pare spiegarsi - in
alcuni casi - con un sentimento che va oltre la soddisfazione per la
semplice sconfitta dell’avversario politico: l’idea, insomma, che per
Grillo e il suo movimento sia cominciata la parabola discendente (il
che, per altro, è possibile), che i «duri e puri» dello scontrino
abbiano i mesi contati e che tra non molto - insomma - si potrà tornare a
suonare la musica di prima.
Il consenso ottenuto dal M5S e l’uso che di quel consenso è stato
fatto, sono due cose diverse e meriterebbero due ragionamenti del tutto
diversi. Nulla di quanto scritto in queste prime ore può esser
contestato, a proposito delle ragioni della sconfitta di Grillo:
candidati poco noti, la deludente azione politica - se vogliamo
chiamarla così - svolta dai parlamentari eletti, il profilo più
nazionale che locale del movimento e il ruolo svolto da Grillo stesso,
certo meno presente ed efficace che in occasione delle elezioni
politiche. Detto tutto ciò, però, sarebbe illusorio immaginare che le
ragioni alla base del consenso ottenuto solo tre mesi fa, si siano
eclissate, superate da un positivo evolvere della situazione.
La crisi del M5S, insomma, non cancella e non toglie drammaticità ai
motivi che avevano dato forza al movimento: in particolare non toglie
dal campo l’urgenza di una profonda riforma del sistema politico, del
suo modo di funzionare e della modalità e quantità di risorse pubbliche
che vi vengono destinate. Proprio il finanziamento ai partiti è stato -
contemporaneamente - il miglior cavallo di battaglia di Grillo e
l’affondo più doloroso subito dalle forze politiche tradizionali. Ma se
su questo piano qualcosa si è mosso - inutile negarlo - è stato sotto
l’azione pressante (e spesso sgradevole, è vero) del M5S; e se qualcosa
di nuovo è accaduto anche nelle istituzioni - si pensi al profilo dei
Presidenti di Camera e Senato - le ragioni vanno ricercate ancora lì:
nel successo delle liste di Grillo (e qui, in fondo, è la vera
differenza tra il disertare le urne ed esprimere comunque un voto, anche
se di chiara protesta).
Lunedì, mentre venivano chiuse le urne, le agenzie di stampa
battevano la notizia della condanna a 3 anni e 4 mesi per Franco
Fiorito, che nella sua funzione di capogruppo Pdl alla Regione Lazio si
era appropriato di più di un milione di euro dei finanziamenti destinati
al suo partito: altri processi sono in arrivano e molti filoni di
indagine restano aperti a conferma che anche questa emergenza (oltre
alle altre che stringono il Paese) è tutt’altro che superata.
La cosa migliore da fare - ora che anche il Movimento Cinque Stelle è
investito da una diversa ma ugualmente profonda crisi - sarebbe dunque
andare avanti sulle riforme e sui tagli già annunciati dal governo, così
da dimostrare che (Grillo o non Grillo) il sistema è in grado di
riformarsi. La cosa peggiore, invece, sarebbe pensare di averla
scampata, tirare un sospiro di sollievo perché «quei rompiscatole hanno
perso e sono finiti», e tornare all’andazzo di prima. Sarebbe un errore
imperdonabile: un po’ come quel malato che continua ad avere la febbre
ma butta via il termometro in modo che, non potendo misurarla, può
illudersi di non averla più...
Fermiamo il Pd a vocazione minoritaria
Precipitare. È il rischio che il Partito democratico corre se
non riaccende alla svelta i motori, recuperando quell’impostazione
originaria di partito aperto, in grado di ospitare le migliori
espressioni riformiste e innovative del paese. Dal giorno in cui il
popolo delle primarie consegnò a Walter Veltroni un consenso
plebiscitario, è stato un continuo regredire, chiudersi, mostrarsi
ostili all’arrivo di forze fresche. Il respingimento dei cittadini dai
gazebo in occasione delle primarie per la scelta del leader del
centrosinistra è un atto, in tal senso, paradigmatico.
Aprire la finestra e parlare al paese, entrare in sintonia con i
cittadini, certamente non chiudersi nelle segrete stanze utilizzando la
classica prassi del consociativismo: era questo che l’Italia chiedeva al
partito degli anni zero. Fino ad oggi si è andati in direzione
contraria. E ci sono timori, fondatissimi, sulla possibilità che si
continui a perseverare, assumendo sempre più le sembianze di un partito
novecentesco. Come può essere letta, se non in questi termini, l’ipotesi
di sottrarre ai non iscritti il diritto di scegliere il prossimo
segretario?
La nomina provvisoria di Epifani da un lato e le voci sulla
posticipazione del congresso dall’altro scoraggiano ulteriormente un
elettorato tramortito e rimandano l’avvio di un progetto politico
davvero incentrato sul futuro, capace di indicare all’Italia la rotta da
seguire per tornare ad essere un paese competitivo. Quel progetto non
può che essere incarnato dal Partito democratico, per la ricchezza di
esperienze politiche presenti al suo interno, punto di forza
trasformatosi per troppo tempo in fattore di instabilità. Un partito che
al più presto dovrà sciogliere il nodo della propria mission e della propria vision, chiarire a se stesso e agli altri cos’è e dove vuole andare.
Rendiamoci però conto, una volta per tutte, di vivere in una società
liquida. Che il partito solido, le strutture pesanti, i signori delle
tessere non sono state e non saranno in grado di interpretare. La nuova
forza verrà definita partito leggero o comitato elettorale perenne? Non
importa. L’alternativa è persistere nel tentativo vano di conservare un
blocco di consensi destinato a un lento logorio, essere condannati a
vita nelle parti della minoranza nel paese. Ed è un’alternativa da
scartare. Perchè vogliamo governare l’Italia. Il ruolo di spettatori non
fa per noi.
Troppe differenze tra le mense d’Italia
flavia amabile
L’allarme di Save The Children:
«A troppi bambini viene a mancare la possibilità di mangiare a scuola, insieme ai propri compagni: criteri di accesso al servizio di refezione molto restrittivi che finiscono per essere umilianti nei confronti delle fasce più deboli»
Paese che vai, mensa che trovi, è la conclusione a cui è giunta l’organizzazione Save the Children al termine di un monitoraggio dei servizi di refezione scolastica in 36 comuni italiani. Non c’è un comune uguale all’altro e una mensa uguale all’altra, i servizi, la qualità e le possibilità di accesso variano moltissimo da città a città. E’ uno dei tanti furti denunciati da Save the Children nell’ambito di “Allarme Infanzia”, la campagna che andrà avanti fino al 5 giugno.
In Comuni come Parma o Palermo per esempio l’esenzione dal pagamento della quota di contribuzione al servizio non è prevista in alcun caso. In altri comuni, pur essendo prevista, non sono omogenei né i criteri né la soglia di accesso: si va da un tetto ISEE di 0 euro a Perugia ad un tetto ISEE di 8.000,00 euro a Potenza; inoltre alcune città prevedono l’esenzione per famiglie appartenenti a categorie particolarmente svantaggiate, come i rifugiati politici a Genova o i nuclei di origine rom a Lecce. Anche sul contributo da versare le differenze sono notevoli da città a città: a Napoli la tariffa massima mensile di 68,00 euro (con un ISEE superiore a 18.750,00 euro) è più bassa della tariffa minima mensile di 66,50 euro richiesta Brescia (con un ISEE inferiore a 16.840,00 euro).
Tra i comuni sottoposti al monitoraggio, solo in cinque hanno attivato delle misure di sostegno all’impoverimento delle famiglie legato o alla numerosità dei figli o alla perdita del posto di lavoro. Sono Verona, Parma, Pisa, Bari, Sassari. In 11 comuni - Brescia, Adro, Udine, Padova, Verone, Pescara, Perugia, Pisa, L’Aquila, Campobasso, Lecce – esistono vere e proprie discriminazioni come l’obbligo di residenza per l’accesso all’esenzione o la riduzione della contribuzione.
“La richiesta di questo requisito, secondo una ormai copiosa giurisprudenza, riveste il carattere della discriminazione indiretta a danno soprattutto di cittadini stranieri anche se poi, a farne le spese, sono anche bambini italiani di famiglie che risiedono nei paesi limitrofi al comune dove vanno a scuola”, sottolinea Antonella Inverno, Responsabile Area Legale di Save the Children Italia. A Brescia, per esempio, i non residenti pagano la retta più alta: 136,80 euro mensili.
Un’altra discriminazione è l’esclusione in caso di morosità dei genitori, accade, ad esempio, a Brescia, Ancona, Salerno e Palermo. E a Vigevano, i bambini figli di genitori non in regola con le rette, consumano il pranzo portato da casa in una stanza separata. Save the Children, quindi, chiede che “tutte le scuole, a partire da quelle dei territori più svantaggiati, siano dotate di una sala mensa dove poter condividere il pranzo, garantendo l’accesso gratuito e non discriminatorio al servizio alle fasce più deboli. E’ necessario poi estendere a tutti i comuni una misura anticrisi elementare come quella di consentire a chi ha perso il lavoro di modificare la sua fascia di contribuzione alla mensa, senza basarsi sui redditi dell’anno precedente”.
Eppure c’è un altro modo di pensare ai giovani
Laura Rozza Giuntella
Vorrei scrivere di un mondo diverso. Ieri girando per Roma ho
avuto l’impressione che l’unica attività in corso fosse quella degli
attacchini che oramai a tutte le ore scollano quintali di manifesti e li
riattaccano sui cartelloni arrugginiti da migliaia di confronti
elettorali … Una città che muore nel traffico incontrollato, in preda a
stanche ma ancora potenzialmente distruttive tribù barbariche. Ognuno
per sé. Difficile trovare uno spirito solidale, una voglia di fare
insieme e per il bene di tutti in giro per la città (c’è per fortuna se
uno lo va a cercare, per carità), ma non è proclamato non è visibile.
Arrivo dopo un interminabile viaggio a Boston, la città ferita, eppure a
ogni angolo di strada vedo ragazzi che spingono immensi e allegri
carrelli gialli pieni di scatoloni. Sono finiti gli esami, i ragazzi
tornano a casa. E’ confortante vedere questi ragazzi in giro per la
città che spingono carrelli di libri, da noi non si vedono proprio i
ragazzi, se non nelle piazze fumose e disperate della movida. I carrelli
chi li fornisce? L’università. Le case in mattoncini rossi curatissime
circondate da aiuole fiorite di chi sono? Dell’università! Qualcuno ha
capito che i giovani, non importa dove siano nati, costituiscono la
promessa. E non si tratta solo di buttarne una manciata nelle
istituzioni, ma di farne il cuore di qualsiasi progetto. Ripartiamo
dalla cifra, forse la più tremenda di questo anno 2013: il 38 per cento
di giovani disoccupati … Vediamo come si intende far fronte a questa
cultura abortista della nostra società, che butta una generazione di
non–nati al futuro. Massacrati nelle scuole, private di ogni risorsa,
persino dei gessi per scrivere alla lavagna … (altro che tablet), tenuti
prigionieri in elefantiache università che non sanno promettere nulla
(infatti, non è un caso la forte flessione nelle iscrizioni), buttati
allo sbaraglio in miriadi di master post-laurea, in fila a pietire stage
gratuiti o semi- gratuiti. Una società in pieno deficit di accudimento,
come direbbe Moretti, che si ripiega su se stessa come quelle strane
collose masse di manifesti stratificati, faccia sopra faccia, e staccati
come un’unica pelle coriacea dai tabelloni oramai arredo perenne dei
nostri marciapiedi.
Il partito apparato ha fallito
DIEGO CORRADO , RENZO GORINI Europa
Quando gli avvenimenti degli ultimi mesi potranno essere osservati con il giusto distacco forse gli storici, o meglio i sociologi, sapranno spiegarci com’è potuto accadere che il Partito Democratico sia passato, nel volgere di poche settimane, dall’attesa di una vittoria annunciata, dall’aspirazione alla guida del paese in una posizione di assoluta preminenza, al rischio di estinzione.
A chi prova a orientarsi in tempo reale non resta che procedere per ipotesi, certo influenzate dalle proprie preferenze e sistemi interpretativi.
La nostra è che per una sfortunata serie di coincidenze siano venute simultaneamente al pettine questioni da lungo tempo sul tavolo, mai risolte e sempre rinviate.
A chi prova a orientarsi in tempo reale non resta che procedere per ipotesi, certo influenzate dalle proprie preferenze e sistemi interpretativi.
La nostra è che per una sfortunata serie di coincidenze siano venute simultaneamente al pettine questioni da lungo tempo sul tavolo, mai risolte e sempre rinviate.
Vogliamo in particolare soffermarci sulla cultura politica dominante nel partito, che si porta dietro come una componente fondamentale quella organizzativa.
La composizione dei gruppi dirigenti, la loro traiettoria personale, al di là delle peculiarità personali, vede prevalere un professionismo politico che di fatto impone alla leadership – da chiunque espressa – di essere un fattore di conservazione.
La composizione dei gruppi dirigenti, la loro traiettoria personale, al di là delle peculiarità personali, vede prevalere un professionismo politico che di fatto impone alla leadership – da chiunque espressa – di essere un fattore di conservazione.
Chi non ha altro ruolo sociale che quello di leader partitico non può nemmeno sognare di mettere a repentaglio tutto il proprio capitale sociale innovando rispetto all’esistente, perché percorrere strade ignote potrebbe esporlo al rischio di perdere tutto. Ma come un imprenditore che non può permettersi il rischio è condannato per definizione al fallimento, così un leader politico (un imprenditore politico) condannato alla reiterazione coatta di schemi e parole d’ordine gradite all’apparato è destinato alla sconfitta certa. Anzi certissima in un mondo che cambia a folle velocità. E che non trae più alcun beneficio da un partito che ancora pretende di insegnargli a orientarsi nel mutamento politico e sociale, che ciascuno di noi vive e legge in prima battuta senza bisogno di mediazioni.
Un partito apparato, in una situazione come questa, è votato al fallimento. Perché il meccanismo di selezione della sua classe dirigente si basa sulla competizione per conquistare il consenso di iscritti e simpatizzanti, che costituiscono ormai un sottoinsieme abbastanza insignificante dell’elettorato potenziale del partito. Per questo chi invoca il partito aperto, il partito mare, contrapposto al partito apparato, o partito lago, non sta semplicemente ponendo una questione organizzativa.
Egli pone le premesse sostanziali perché il Partito democratico, ultimo erede dei partiti che hanno costituito la spina dorsale della democrazia italiana, sia finalmente messo nelle condizioni di candidarsi autorevolmente a essere quella forza di cambiamento e innovazione che ha sempre aspirato ad essere. Fallendo poi sempre la prova.
Egli pone le premesse sostanziali perché il Partito democratico, ultimo erede dei partiti che hanno costituito la spina dorsale della democrazia italiana, sia finalmente messo nelle condizioni di candidarsi autorevolmente a essere quella forza di cambiamento e innovazione che ha sempre aspirato ad essere. Fallendo poi sempre la prova.
Il Partito democratico del terzo millennio dovrà essere un partito aperto, realmente aperto, o non sarà nulla.
Don Andrea, il folletto col colbacco
Il suo ultimo capolavoro è stata
l’elezione di Marco Doria a sindaco della città
Sotto le finestre della mia casa nel centro storico di Genova, al Carmine, c’è ancora un murales del 1970 dove si legge “Aiuto! Ci hanno rubato il prete”. Il prete è Andrea Gallo. Dovrei scrivere “era”, perché è morto questo pomeriggio, ma non so se riusciremo mai davvero a parlarne al passato, non solo per ragioni sentimentali. Una persona più immanente di Andrea Gallo è difficile da pensare. Mi ha sempre riportato all’idea di santità che hanno gli orientali, quella di un’immensa compassione, di un’estrema consapevolezza che tutto è Uno, che il bene e il male sono mescolati e non si può dividere il mondo in santi e peccatori, o almeno non come vorrebbe l’ortodossia.
Don Gallo era stato il vice parroco del Carmine negli anni Settanta, quando venne fuori che nel quartiere c’era una “fumeria di hashish”, ovvero una stanzetta dove alcuni ragazzi si trovavano e fumavano gli spinelli. Il Carmine confina con una zona molto chic, abitata dalla borghesia di antico denaro, che indignata chiedeva provvedimenti severi contro i capelloni drogati temendo il contagio, senza sapere che molti dei loro figlioli ben pettinati erano già contagiati, eccome. Don Andrea, predicando la domenica successiva, disse che non solo l’hashish è droga, ma anche il linguaggio. Con le parole, ricordò, si bolla una ragazzo difficile o povero come “inadatto agli studi”, oppure si definisce “difesa della libertà” il bombardamento di popolazioni indifese.Don Gallo era stato salesiano, folgorato da Don Bosco e poi da Don Milani. Appena ordinato sacerdote aveva servito in Brasile, ma raccontava che la dittatura lo aveva scacciato. Tornato a Genova, fu assegnato come cappellano alla Garaventa, una nave-riformatorio. Su quella nave, che a Genova si evocava per spaventare i bambini (“se non studi finirai sulla Garaventa”), sperimentava un’educazione amorevole e antiautoritaria. Mia madre raccontava che non era raro vederlo alla testa di un piccolo esercito di garaventini in divisa, tutti diretti al cinema. Sono stati i salesiani a togliergli l’incarico, nel ’64, e allora lui li lasciò, chiese di far parte della diocesi di Genova, fu spedito al Carmine. Ma lì la sua predica sulla droga del linguaggio non fu gradita né ai ricchi né al cardinale, il quale voleva confinarlo a Capraia, dato che a quel tempo l’isola era sotto la sua giurisdizione.
Il quartiere si sollevò, fricchettoni con i capelli lunghi e pie donne si ritrovarono uniti nel chiedere che rimanesse, che non lo mandassero via. Il Cardinale tuttavia restò muto, e irremovibile. Allora Don Gallo rifiutò di obbedire, e si ritrovò per la prima volta “prete da marciapiede”, come poi si sarebbe definito sempre. Ma don Federico Rebora, un altro grande prete sociale genovese, lo accolse a san Benedetto al Porto, e lì venne fondata una comunità cristiana di base che ha raccolto intorno a sé una folla enorme, e non ha mai chiuso le porte in faccia a nessuno negli ultimi quarantadue anni. Tossicomani, matti, barboni, prostitute, transessuali, devianti di ogni tipo, poveri, migranti, lui accoglieva tutti, li proteggeva, li difendeva, di ognuno sosteneva le ragioni umane ma anche quelle politiche.Riceveva onorificenze di ogni tipo, fra cui “Persona gay dell’anno”, di cui andava fierissimo. Si schierava dall
parte dei movimenti, senza esitare. Là dove la gente aveva bisogno, o protestava, difendeva un territorio, una fabbrica, un’impresa sociale, arrivava con un gran sorriso, a rallegrare e a predicare, a parlare di Gesù come di un amico suo e nostro. Credeva fermamente che la Chiesa dovesse fare quello che diceva, stare dalla parte degli ultimi, dare voce a chi non ne ha. Raccontava che il Cardinal Bagnasco, uomo di grande carisma ma anche di fermo rigore, dopo aver scoperto che Andrea aveva prodotto perfino un calendario con le foto delle trans di Vico Croce Bianca, lo aveva mandato a chiamare. Allora, Don Andrea, gli aveva chiesto, che cosa vogliamo farne di questi transessuali? Oh beh, Eminenza, me lo dica lei, aveva ribattuto Don Gallo.
Si è sempre detto che fosse comunista, ma non credo. Di certo era un partigiano nel senso più ampio del termine. Su youtube ci sono molti video come quello in cui si slaccia un fazzoletto rosso dal collo e lo sventola come una bandiera, cantando Bella Ciao in Chiesa, alla fine della messa, con tutti i fedeli a fargli il coro. Lui era così, se vedeva una bandiera degna abbandonata per terra la raccoglieva, la faceva vivere. Ho sempre pensato che fosse sbagliato, come è stato detto, che se non fosse stato prete Don Andrea sarebbe stato un leader politico, intanto perché lui è stato un leader politico nel senso più nobile del termine, e poi perché l’avrei visto piuttosto come un grandissimo direttore di giornale.
Don Gallo era un comunicatore eccezionale, istintivo, intuitivo e fulmineo. Era amico di cantautori famosi come di rapper scatenati, Assalti Frontali e Vinicio Capossela non mancavano di presentarsi al suo compleanno e di esibirsi per il puro piacere di vederlo contento. Aveva imparato come funzionava Facebook e ci si divertiva come un quindicenne, ultimamente seguiva anche Twitter. Capiva le novità, e lo incuriosivano. Era stato fan della prima ora di mentelocale, il sito fondato da Laura Guglielmi, già collaboratrice del manifesto, che più di dieci anni fa aveva lasciato un posto sicuro al Secolo XlX per il web anche grazie al suo incoraggiamento. Da allora Andrea accompagnato dal suo angelo, Domenico Chionetti detto Megu, si presentava in redazione a tutte le ore, pretendeva di fare i titoli, si faceva fotografare con i giovani redattori, non si perdeva una festa. Laura Guglielmi è stata infatti la prima persona cui ho telefonato quando ho saputo che il Don ha voltato l’angolo. Ci siamo dette: «Come è duro a volte il nostro mestiere, vorremmo piangere e invece ci tocca scrivere». Il suo ultimo capolavoro è stata l’elezione di Marco Doria a sindaco della città. Lo aveva sostenuto con tutta la sua influenza e il suo potere, aveva bacchettato la sindaca uscente, Marta Vincenzi, che se l’era presa. La sera della vittoria, sui gradini di palazzo Ducale, Marco Doria aveva detto poche pacate parole per ringraziare i cittadini, poi si era materializzato d’un tratto Andrea, come un folletto col colbacco. E quando aveva accennato un passo di danza sapevamo tutti che cosa stava per succedere. Così, ancora prima di lui, abbiamo cominciato a cantare insieme Bella Ciao.
Paola Tavella
Migrazione e integrazione: che cosa ci chiede l’Europa?
Nell’Europa della crisi, democrazia, diritti e immigrazione sono temi sempre più spinosi da affrontare nel confronto politico a tutti i livelli. A Firenze, all’interno del Festival d’Europa , la Conferenza sullo Stato dell’Unione ha visto numerosi politici e rappresentanti delle istituzioni europee chiedere a cittadini e rappresentanti dei singoli paesi membri di affrontare il tema guardando al futuro.
Le misure di austerità, adottate da molti stati europei sotto l’attenta vigilanza di Ue e Bce sembrano avere fornito nuovi argomenti a quella parte di Europa xenofoba e miope presente soprattutto nei paesi più provati dalla crisi. Non succede solo in Italia: la pericolosa “mancanza di trasparenza e legittimità” — come la chiamano il ministro dello sviluppo regionale portoghese Miguel Maduro e l’ex ministro degli esteri britannico David Miliband — sta creando un forte deficit democratico, accompagnato da risultati economici e sociali preoccupanti.
L’Europa chiede ai suoi cittadini di non stare a guardare, ma al contrario di cogliere l’occasione delle elezioni europee del 2014 come un momento di grande partecipazione democratica. La scelta di chi ci rappresenterà, ha detto il Presidente Barroso, è cruciale per ristabilire la fiducia nel processo di integrazione economica e sociale.
Ci chiede di non dimenticare che la solidarietà deve essere un valore fondante delle relazioni tra stati membri e tra i suoi cittadini. Istruzione, formazione, ricerca e sviluppo sono necessarie per evitare che le future generazioni siano stritolate dai vincoli fiscali. Investire negli stati membri più deboli, sottolinea Emma Marcegaglia (Presidente di Business Europe, la Confindustria d’Europa), rafforza l’integrazione e l’intesa politica all’interno dell’Unione.
L’Europa ci chiede di non utilizzare l’argomento dell’immigrazione nel dibattito politico e nei media in modo strumentale alla competizione elettorale, fomentando sentimenti xenofobi e razzisti. E ci chiede di non disconoscere il ruolo fondamentale dei migranti per la demografia e l’economia europea: “dire la verità” è il primo passo per rendere l’Unione Europea un posto attraente per i migranti — qualcosa di cui abbiamo davvero bisogno. L’Europa ci chiede di non continuare a demonizzare richiedenti asilo e migranti irregolari. Un tempo combattevamo le cause della migrazione (povertà e guerre), adesso combattiamo le persone. Ma, come ricorda la commissaria UE agli Interni Malmström, i trattati e le convenzioni sottoscritte dall’Europa sanciscono e proteggono i diritti umani di tutti, a prescindere dalla cittadinanza.
In tema d’immigrazione, integrazione e asilo trovare un accordo condiviso da tutti gli stati membri è un percorso lento e niente affatto scontato. Nonostante ciò, nel giorno della Festa dell’Europa, la voce di istituzioni e politica si è unita a quella di accademici ed esperti per riconoscere che non si può fare a meno della migrazione nel territorio europeo, e che le politiche di difesa dei diritti e d’integrazione pagano più di quelle di sicurezza e repressione. Le politiche d’integrazione per i gruppi più vulnerabili della società (donne, bambini, disabili, migranti, rifugiati, ecc.) servono a confrontarsi e a costruire un’Unione Europea più sociale e solidale, che oggi manca e che darebbe legittimità anche al processo integrazione economica e finanziaria.
di Caterina Francesca Guidi e Laura Bartolini
Il Pd che non c’è mai stato
Quando si parte con il piede giusto, si è già a metà dell’opera. E l’opera in questo caso è niente meno che il futuro dell’Italia. Il Pd, però, con il piede giusto, non è mai partito. Già, perché il progetto originario di Partito democratico a vocazione maggioritaria e aperto, riformista e pragmatico, alla fine è rimasto sulla carta delle buone intenzioni.Il Partito democratico si è risolto nella giustapposizione delle due classi dirigenti che hanno contribuito a crearlo, ma non ha saputo mettere in moto quel processo virtuoso di cui aveva, e ha ancora, un grande bisogno la sinistra del nostro paese. In poche parole, non ha saputo creare una nuova cultura autenticamente democratica. Fin troppo facile concludere che il partito nuovo alla fine si è rivelato solo un nuovo partito, l’ennesimo.
Ultima prova provata in ordine di tempo del progetto mai nato, i veti incrociati che hanno trascinato il Pd nel gioco ad escludendum sul presidente della repubblica e lasciato sul campo del correntismo sfrenato, una base disorientata e rancorosa.
Risultato preceduto dalla schizofrenia più generale nella gestione della sconfitta elettorale, quando iniziava a emergere, fin da subito a dire la verità, che non vi erano le condizioni per arrivare a un accordo con il M5S dopo i continui, insistenti, maleducati “no” di Beppe Grillo. Gioco forza, per il Pd erano due le alternative tra le quali scegliere, subito e con coraggio, come qualcuno andava dicendo: o il voto o le larghe intese. Il Pd, come è ormai noto, ha intrapreso dopo due mesi dalla fine delle elezioni la seconda, dopo averla nascosta-negata-respinta. Una strada alla fine obbligata, dopo la sculacciata del presidente Napolitano che sapeva tanto di richiamo del buon padre di famiglia verso il figlioletto capriccioso che proprio non vuole capire.
L’opera è oggi allora non a metà, ma ancora tutta da costruire. Come tutto da rifare è anche per il Pd.
In un momento storico in cui il mondo corre alla velocità della luce, il Partito democratico deve trovare il coraggio di aprire davvero una fase nuova. La sinistra riformista nel nostro paese ha bisogno finalmente di un partito che non si fermi a guardare l’ombelico ma che alzi il proprio sguardo oltre l’orizzonte dell’immediato elettorale.
Per fare questo il partito democratico deve smarcarsi una volta per tutte da quella politica del riciclo fatta di parole e promesse, vecchi schemi culturali e frammenti di ideologie che riutilizzano materiali fin troppo noti e logorati. Il Partito democratico deve proporre invece al paese una idea di futuro che parta dalla lettura aggiornata della realtà fatta di lavoratori a partita Iva e contratti atipici che non hanno l’ombrello della cassa integrazione per ripararsi dalla crisi, ma anche di un lavoro che, per continuare a essere vocabolo di sinistra, non può non essere declinato principalmente in termini di sviluppo e non solo rivendicazione di diritti.
Senza dimenticare che una crescita è sana quando alla base c’è la valorizzazione del merito e delle competenze.
Il Partito democratico che vorrei è allora un partito che, a cominciare dalla riflessione su cosa significa oggi essere di sinistra, si assuma la responsabilità, – che se poi la guardiamo tutta è insieme una privilegiata opportunità – di orientare il cambiamento.
L’Italia negli ultimi vent’anni si è arroccata, divisa e scontrata sulla dicotomia quasi referendaria “Berlusconi sì, Berlusconi no”. Una visione che di fatto ha precluso ogni possibilità di confronto, dialogo e progettualità. Questo ha inaridito il sistema paese che, al contrario, avrebbe avuto bisogno di innovazione, capacità di guardare al futuro, così da far crescere quella che viene definita storia, esperienza, know how, competenza. Insomma è come se si fosse creata una frattura tra chi ha costruito l’Italia, ovvero la generazione dei nostri padri e chi questo Paese dovrebbe ora prenderlo per mano e rinnovare e rimodernare mettendo da parte il catalogo obsoleto delle ossessioni.
Il Partito democratico ha davanti a sé la possibilità di partire questa volta con il piede giusto.
Gli italiani non sono rassegnati alla politica tout court, ma stanchi di una certa politica chiacchierona e inconcludente; non sono disinnamorati dell’Italia, ma arrabbiati con coloro che ne hanno imbrigliato le potenzialità, le idee e le forze nuove.
CORAGGIO
Giovanni Colombo
Stamattina,
e non è la prima volta, mi sento un Don Abbondio. Come posso scrivere di
coraggio? Ci vorrebbe al mio posto un
Fra Cristoforo, che ne I Promessi Sposi,
è, per converso, il prototipo dell’uomo coraggioso,
o ancor di più, un Achille, chiamato
nell’Iliade thumoleonta, “cuor di leone”, o un Ulisse, l’eroe della tenacia,
definito nell’Odissea kradie sideree, “cuore di ferro”. Quindi
prendete con benefico d’inventario i cinque punti che trovate qui di seguito.
1.
Don Abbondio c’est moi! Per il Manzoni il curato di campagna, che scende per la
via con il breviario in mano e s’imbatte nei due bravi e poi
scappa a casa a prendersela con la sua Perpetua, è la figura archetipa della
viltà. Non è cattivo, non mira a ottenere vantaggi personali, né tanto meno, a
incrementare la propria potenza. “Assorbito continuamente ne’ pensieri della
propria quiete”, è consapevole “d’essere, in quella società come un vaso di
terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”(capitolo
I). Vuole stare lontano di pericoli, se la prende anche con la mula che nella discesa
dal castello dell’Innominato al fondo della valle, sta troppo vicino al
precipizio: “Anche tu – diceva tra sé alla bestia – hai quel maledetto gusto
d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero!“ E tirava la briglia
dall’altra parte; ma inutilmente. Sicché,
al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere
altrui” (cap. XXIV). Don Abbondio ha un
suo “sistema”, scansare tutti i contrasti e cedere in quelli che non poteva
scansare: “Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due
contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando
di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico” (cap. I). Il
povero don si schiera sistematicamente col potere ma non in ragione di una ponderata scelta presa di volta in
volta, bensì per l’automatica adesione alla realtà così com’è. Accetta il mondo
dei don Rodrigo e dei bravi come l’unico possibile e rinuncia alla buona
battaglia. Non vuole disturbare gli altri, anzi lascia che siano sempre gli altri
a prendere le decisioni e ad assumerne i rischi conseguenti. Si sdraia sotto i
potenti, per un’ inerte spirito di
adattamento alle logiche dell’esistente.
2.
Se i don Abbondio sono così, chi sono, all’opposto, i coraggiosi? In primis son coloro capaci di
resistenza al reale, che dicono di no, non perché perenni bastian contrari o indocili
pierini o ciechi temerari che non vedono i pericoli, ma perché consapevoli che mai il
senso si esaurisce nei limiti dell’esistente o della verità di volta in volta
presentata come ultima. I coraggiosi
sono dei disobbedienti. Secondo Fromm, in La
disobbedienza come problema psicologico e morale (1963), all’origine della
civiltà occidentale c’è il coraggio di opporsi all’ordine stabilito: dal
rifiuto del comando divino di Adamo e Eva alla disobbedienza ribelle di
Prometeo. Ad essere più precisi, degni di chiamarsi coraggiosi sono coloro che
vivono tutte e tre le dimensioni che compongono la virtù del coraggio - fra tutte le virtù la meno classificabile more geometrico - : a) la parresia,
il parlar franco che dice no al potere,
o meglio alla gelida ideologia dell’ ”eterno presente” che congela ogni
progetto di innovazione e di emancipazione; b) lo sforzo tenace orientato a trasformare praticamente lo stato di cose, malgrado gli ostacoli e le
paure (per aspera ad astra!); c) la
disponibilità a accettare i rischi conseguenti: la sicura diffamazione da parte
del coro degli apologeti dello status quo, la possibilità del fallimento, in
ultima istanza il pericolo della morte. Si
tratta di dimensioni unite tutte e tre
dal “principio speranza”: non
scatterebbe mai la disponibilità ad abbandonare l’inerzia del presente se il futuro non apparisse promettente, come
luogo dove “essere altrimenti” ed “essere
migliori”.
3. Ogni epoca ha avuto la
sua buona dose di coraggiosi che sono usciti dai binari consueti. Sono loro che
danno la sveglia, che impediscono al mondo la stanca ripetizione del mondo. Ma
è stato soprattutto il Novecento, “secolo breve” ma più di ogni altro denso di
tragedie, a insegnarci quanto è importante la resistenza di chi dice no.
L’inquietante verità dello sterminio consumatosi dietro i reticoli dei lager sta
nel circolo vizioso instauratosi tra
l’assetto della realtà e la
supina adesione ai suoi precetti. Il “tu devi kantiano”, ridotto a mera forma e
per ciò stesso suscettibile di essere riempito con ogni contenuto, si è capovolto nel devastante “imperativo
categorico” del Terzo Reich : “agisci in maniera che, se il Fuhrer conoscesse
le tue azioni, le approverebbe”. Il rispetto della legge si è tramutato nella
viltà di chi non osa opporsi alla “logica illogica” di un ordine che offende la
dignità dell’uomo e provoca distruzione e sangue. Così scriveva Bonhoeffer, uno
dei pochi ad aver avuto il coraggio di dire di no al delirio
nazionalsocialista, pagando con la vita le conseguenze della sua cospirazione
ad Hitler: “Chi non riconoscerà ai
tedeschi di aver raggiunto i massimi livelli di valorosità e di coinvolgimento personale
nell’ubbidienza, nello svolgimento del proprio compito o nella professione? (…)
Ma in questo modo i tedeschi hanno commesso un errore di valutazione nei
confronti del mondo: non avevano fatto i conti con la possibilità che fosse
fatto un uso malvagio della loro disponibilità alla subordinazione al
coinvolgimento personale nel proprio compito “ (Resistenza e resa, pp. 62
-63).
Ripensando al Auschwitz, e
allargando lo sguardo ai milioni di morti delle guerre mondiali, ai gulag, alle
bombe atomiche, vien da domandarsi
quanto diversa sarebbe stata la piega degli avvenimenti se in tanti avessero agito in modo “irresponsabile”, secondo quell’eroismo
del rifiuto che è l’antitesi
dell’obbedienza cadaverica dei funzionari dell’orrore. Per questo bisogna tenere in sommo onore la
memoria di quei pochi che si opposero ai totalitarismi, come il
citato Bonhoeffer, come i giovani della Rosa Bianca tedesca, che per aver
scritto sei volantini contro il regime hitleriano furono arrestati, condannati
per alto tradimento e decapitati da un’efficiente ghigliottina tedesca nel
carcere di Monaco. Anche in Italia, e
pensando in particolare alla scuola, sarebbe
il caso di ricordare molto più spesso i nomi di quei dodici professori, i soli
su oltre milleduecento accademici - l’1 per cento!- , che si opposero al giuramento
di fedeltà al fascismo.
4.
E oggi? Che succede nel ventunesimo secolo?
Ad un primo sguardo la parresia sembra autorizzata, anzi incentivata a
dismisura sugli innumerevole mass media che intossicano la nostra esistenza. Ma
appena lo sguardo si fa più acuto ci si
accorge che la critica è sì permessa a
patto che la si accompagni con l’inazione e con l’accettazione dell’imperativo: “consumate, e
sopportate!”. L’odierno ordine del mondo sa di non essere perfetto, di più, di essere un
gran hotel dell’assurdo, semplicemente
nega l’esistenza di alternative, convincendo le menti non delle proprie
qualità, ma del proprio essere fatale. Il coraggio deve allora determinarsi oggi soprattutto come
impegno a “defatalizzare” il mondo incorporando
la praxis all’interno della
teoria come sua possibilità reale, come luogo di inveramento della teoria
stessa. Le opere tornano decisive. E’
falso e vile quel modo di vivere che non
“fa” la verità. La verità nel senso biblico è prassi; non è come quella greca,
puro fatto teorico, dell’occhio e del vedere. Non basta quindi interpretare il
mondo, bisogna trasformarlo e sottrarlo al
fanatismo dell’economia e alla fede cieca nel Mercato. Il gesto più coraggioso nel nostro contesto è
abbandonare il furore dell’accrescimento e violare il ferreo principio del “do
ut des”, che è l’articolo 1 della “magna charta” del mercato e del commercio.
Viene un momento, ed è questo, in cui deve scattare l’asimmetria: chi ha, dia
senza pretendere reciprocità. Do anche se tu non dai. Lo pretende lo stato di
emergenza: il palazzo è uno solo, se non ci muoviamo, il crollo che sale dalle
cantine farà precipitare pure le terrazze. Lo pretende anche una nuova visione,
più sensata, del nostro rapporto con gli
altri e con le cose. Ci crediamo dei creditori mentre siamo in costante debito.
Come ha scritto in una sua poesia Milo De Angelis, “Se ti togliamo ciò che non
è tuo, non ti rimane niente”. Parole urticanti, ma a mio avviso vere, molto
vere.
5.
Una riflessione, per quanto breve, sul coraggio non può finire senza affrontare
l’aspetto più problematico che la figura di don Abbondio testimonia. “Il
coraggio, uno non se lo può dare”: è vero? Se Il coraggio è una virtù del
cuore, non della mente, come del resto rivela il suo stesso nome, e se il cuore
non è cuor di leone, dobbiamo rassegnarci? Si può cambiare il cuore? Cosa ne può provocare la metamorfosi? C’è una poesia di Vinicius de Moraes, Il muratore, che racconta di come un
cammello si trasformò in leone. Chi
sapeva dire solo “sì” imparò a dire “no”.
E’ lunga, ne posso qui riportare
solo il pezzo centrale:
(…) Fu lui a costruire case dove prima
era terra deserta. Come un uccello, senz’ali, volava alto come gli edifici che
germogliavano dalle sue mani. Ma ignorava tutto della sua importante missione. (…)Fu
così che un giorno a tavola, mentre
tagliava il pane, l’operaio fu pervaso
da un’improvvisa emozione nello scoprire, esterrefatto, che tutto quanto
era sulla tavola, piatto, coltello e bottiglia - era opera sua, di un umile
muratore. Si guardò in giro, panca,
nicchia, finestra, casa, città e nazione! Tutto ciò che esisteva era opera sua,
di un umile operaio he sapeva esercitare il suo mestiere. Fu nel discernimento
di questo momento solitario che, come le sue costruzioni, così l’operaio stesso
crebbe. Crebbe in altezza e in profondità, nel respiro e nel cuore. Si notò una
novità che sorprese tutti. Ciò che l’operaio andava dicendo un altro operaio lo
ascoltava. Fu così che l’operaio di un edificio in costruzione che aveva sempre
detto “sì” iniziò a dire “no”.
Nella poesia viene
descritto il momento X in cui l’operaio
acquisì una nuova consapevolezza. Stava
mangiando, d’improvviso avvenne la trasfigurazione di ogni
cosa. Nulla era cambiato – gli stessi mattoni, le stesse mura, gli stessi
oggetti - e tuttavia la luce era differente. Potremmo dire che gli si manifestò la bellezza del mondo e la sua
dignità di uomo creatore. Qualcosa gli bruciò
dentro, fu accarezzato dal futuro. E dalla sua bocca scaturì il “no”, la parola rimasta dimenticata,
inespressa, la parola che avrebbe dato
inizio a un cammino di liberazione. Lui e gli altri operai stavano diventando cospiratori,
iniziavano a respirare gli stessi sogni…
Il coraggio scatta da un bruciore
interiore, da un cuore toccato e trasformato da un’esperienza di bellezza, che spinge a parlare e agire senza più paura
delle conseguenze. Il coraggioso non è tale fin quando non stipula un patto con
se stesso: “accetto di legarmi alla verità che ha avvertito dentro di me, e di
testimoniarla costi quel che costi. In
fede, io me stesso medesimo XY” . Dopo la firma, nessun successo storico è
assicurato. Tendenzialmente il sottoscrittore finirà in luoghi scomodi e marginali.
Ma di certo la sua luce intima si
espanderà al di fuori. Aleggerà un’intensa fragranza, foriera di nuova
speranza.
Gerhard Mumelter corrispondente del quotidiano austriaco Der Standard. Scrive questo blog per Internazionale
9 maggio 2013
Siamo alla terza repubblica? Non scherziamo. La nomina dei ventinove presidenti delle commissioni di camera e senato usa il vecchio manuale Cencelli come una bibbia e dimostra che l’Italia non cambia mai. Il paese è nella crisi più grave dal dopoguerra? Aumentano i disoccupati e la povertà? Cresce la rabbia contro la casta? Non esageriamo.A dieci giorni dal giuramento il governo Letta non si è inventato neanche un gesto di buona volontà. E il parlamento si è tuffato senza vergogna nella sua attività preferita: la distribuzione di poltrone. Una ressa indegna tra tensioni, accuse reciproche e franchi tiratori, nella quale il Pdl conferma i suoi peggiori istinti. Con i politicanti di sempre pronti ad assicurarsi l’ennesimo posto di prestigio.
Con l’ex piduista Fabrizio Cicchitto, in politica da 37 anni, che si aggiudica la presidenza della commissione esteri alla camera. E Pier Ferdinando Casini, premiato per la sua disfatta elettorale con la presidenza della stessa commissione al senato. Roberto Formigoni è indagato e ha fatto parte di un consiglio regionale pieno di indagati? Per lui c’è la presidenza della commissione agricoltura al senato. La nomina del Celeste arriva a poche ore dalla richiesta di rinvio a giudizio.
La giunta per le autorizzazioni è stata affidata alle mani responsabili di Ignazio La Russa. È l’ennesima resurrezione dei professionisti della politica. L’ex ministro dell’agricoltura Giancarlo Galan alla cultura, l’ex ministro all’ambiente Altiero Matteoli ai lavori pubblici. Ci sono gli ex ministri Cesare Damiano, Maurizio Sacconi e Francesco Nitto Palma, la cui elezione senza il consenso del Pd ha già rischiato di provocare una crisi di governo.
Ci sono le facce di sempre: Elio Vito, Daniele Capezzone e Anna Finocchiaro, in parlamento da un quarto di secolo in barba allo statuto del Pd. C’è il voltagabbana Antonio Razzi, già dell’Italia dei Valori, nominato segretario della commissione esteri.
Alla vicepresidenza della commissione finanze del senato c’è Franco Carraro, tre volte ministro e già presidente del Milan quando Enrico Letta era appena nato. Notevole anche il rispetto delle pari opportunità: tre donne su ventinove. E finalmente anche l’M5s si prende la sua infornata di 28 poltrone. Finisce così il breve idillio con Sel, che accusa i grillini di “squallido poltronismo”.
Intanto Silvio Berlusconi, la cui condanna a quattro anni è
stata confermata, fa saltare la convenzione per le riforme costituzionali e
smentisce la sua candidatura alla presidenza: “Era uno scherzo.” Non c’è da
meravigliarsi che il governo abbia deciso di rifugiarsi nell’abbazia di Spineto
per “fare spogliatoio.” Il rischio però è di rimanere in mutande.
Sul filo sottile
Guido Formigoni
5 maggio 2013 |Occorre ragionare però sul suo orizzonte politico. Intanto e soprattutto, cosa pensare delle «larghe intese»? Si sono scomodati illustri precedenti nella storia della repubblica, come la «solidarietà nazionale» del decennio ’70. Mi pare un parallelo piuttosto forzato. In quel caso un governo comune tra avversari politici propriamente non si fece. Moro non lo voleva (lo avrebbe voluto Berlinguer, perché per il Pci era la rivincita sulla rottura del 1947, ma senza i numeri per farlo). Si fece piuttosto un accordo su una formula parlamentare di attesa (prima le astensioni, poi il Pci nella maggioranza su un programma concordato). La logica di Moro era appunto quella di utilizzare fino in fondo questo periodo di tregua per portare il Pci a sostenere definitivamente la democrazia (in un periodo di emergenza per la crisi economica e il terrorismo), e quindi poter mettere in grado il sistema di giungere a una legittimazione reciproca definitiva e (forse) all’ipotesi dell’alternanza.
Oggi si scambiano i passaggi fondamentali: il governo fatto assieme dovrebbe essere il presupposto di una «pacificazione» invocata, di un superamento delle delegittimazioni reciproche. Si sono cominciate a suonare molte sirene in questo senso. Vasto programma, diremmo a occhio e croce. Intendiamoci, non è che le intese tra diversi non si possano fare (e siano tutti inciuci deteriori): la nobile mediazione è l’arte somma della politica e si fa tra diversi, non tra uguali. Non è che svelenire il clima non sia positivo: non siamo tanto sfascisti da pensarlo. Non è che le istituzioni e le regole possano essere monopolio solo di una parte. Ma tutto ciò si deve verificare e sottoporre ad alcune condizioni, per non cadere nel rischio di andare molto oltre il dovuto. Proviamo sinteticamente a indicarne alcune.
La prima: per legittimarsi reciprocamente ci vuole la verità delle parole e dei fatti. Non si può chiedere al Pd di dimenticare il passato, quando Berlusconi ha governato allegramente screditando le istituzioni e l’immagine italiana nel mondo (fino a far sbellicare dalle risa l’Europa preoccupata e incerta). Cosa dire del presunto statista fallito che ha aumentato la spesa, tollerato l’evasione fiscale e lasciato l’austerità ai tecnici: non contento, è ritornato in campagna elettorale promettendo l’abolizione dell’Imu? Ci siamo dimenticati le leggi ad personam e l’uso disinvolto del potere a fini personali? Basta adesso il profilo prudente assunto negli ultimi due mesi per modificare l’esperienza di vent’anni? Difficile da sostenere. La legittimazione della destra italiana chiede di superare definitivamente il berlusconismo: gli elettori non vogliono? I politici non sono in grado? Prendiamone atto, prima di correre a disegnare scenari improbabili. Il macigno è ancora lì.
La seconda: la prima scelta per sostenere le larghe intese è concordare sulle regole in modo sobrio. Senza ributtare tutto all’aria a ogni pié sospinto. C’è stato tutto il tempo, sotto il governo Monti, per fare alcune riforme precise da moltissimi invocate (legge elettorale, bicameralismo, numero dei parlamentari). Chi ha impedito di farlo? Questa vicenda della convenzione per le riforme puzza invece di bruciato, come autorevolmente è stato sostenuto. Da una parte, invocare la «grande riforma» è sempre stato il modo migliore per menare il can per l’aia e in conclusione non fare niente, paralizzati dalle paure e dai veti reciproci. Dall’altra, ributtare per aria tutto (dalla forma di governo in giù) presenta il rischio di stravolgere gli assetti esistenti, con un progetto in cui si infarciscano provvedimenti disparati, lasciando poi anche di fronte all’eventuale referendum il cittadino incerto sul giudizio e facendo passare assieme provvedimenti popolari e provvedimenti potenzialmente ambigui. Sarebbe ben meglio presentare alcuni specifici progetti di riforma costituzionale (o di legge ordinaria) sui punti ormai maturi e procedere sollecitamente in parlamento.
La terza: governare assieme tra avversari politici che restano tali è possibile appunto ricordandosi ogni giorno che siamo nell’emergenza. E’ un’eccezione nella normalità parlamentare. Chiederebbe quindi di evitare vaghi e ampi disegni, che rischiano puntualmente di essere smentiti. Facile parlare di «crescita senza debito», «lavoro ma senza nuova spesa», «riduzione delle tasse, ma con i conti in ordine» e via di questo passo. Mi paiono palesi formule che coprono la contraddittorietà delle intenzioni delle parti contraenti l’accordo. La manfrina che Berlusconi ha avviato sull’Imu è il primo segnale dei problemi che possono nascere ogni giorno. Occorrerebbe forse piuttosto un programma sostanziale il più possibile definito e limitato, per poter in qualche modo gestire le condizioni dell’emergenza e riaffidare quindi sollecitamente ai cittadini lo scettro del decisore. Le prime settimane del governo saranno importanti per capire se ci sono queste priorità di fatto su cui il governo si qualificherà.
pubblicato sul sito C3Dem
L'uomo ossessionato dal Diavolo
di Marco
Damilano
Lo citava
sempre, molto più di Dio. Fino a identificarsi con quell'epiteto, 'Belzebù',
coniato per lui da Craxi. E fino alla vaga ma terribile confessione finale di
una vita: "Per certe cose e per certe scelte che abbiamo fatto meritiamo
l'inferno"
(06 maggio
2013) da L’Espresso
Il Divo è
morto questa mattina a 94 anni, per combinazione quasi lo stesso giorno che
aveva segnato la sua vita politica, il 9 maggio di trentacinque anni fa, il
ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nella Renault rossa in via Caetani. E
non si può dimenticare, oggi che Giulio Andreotti è definitivamente consegnato
alla storia, il giudizio che Moro diede di lui nel suo memoriale: «Non è mia
intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere
grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On.
Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente
navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a
milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le
manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno,
senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di
questi. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà
(si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano,
per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le
si addice. Che cosa ricordare di Lei? Durerà un po' più, un po' meno, ma
passerà senza lasciare traccia...».
Parole sferzanti. Moro aveva conosciuto Andreotti da ragazzo, nella Fuci del futuro papa Montini. Era più anziano di lui di appena tre anni, insieme avevano scalato tutti i gradini del potere. Lo odiava, racconta chi ha conosciuto i pensieri dello statista democristiano, Moro non si sarebbe mai potuto dare pace a sapere che lui era morto ammazzato in un covo di terroristi mentre il suo rivale gli sarebbe sopravvissuto per più di tre decenni. E il fantasma di Moro ha continuato a tormentare Andreotti, come intuito artisticamente da Paolo Sorrentino nel film "Il Divo" (2008). Fino a oggi.
Il Divo è morto questa mattina di pioggia nella sua Roma, ma sembrava scomparso da tempo. Si era già, consapevolmente o meno, affidato all'eternità della sua immagine, della sua leggenda nera. Orecchie da pipistrello, gobba crescente, occhi stretti come fessure di un salvadanaio dietro le lenti, labbra sottili, dita lunghe e affusolate. L'immagine dell'immortalità del regno democristiano. Il potere per il potere, che logora chi non ce l'ha. Il volto nascosto della Balena Bianca. La volpe machiavellica travestita da innocente colomba.
Avevano cominciato a chiamarlo Belzebù quando sarebbe stato impensabile vederlo sotto processo per mafia. Il primo a farlo fu Craxi nel maggio 1981. Craxi parlava del venerabile maestro della loggia P2 Licio Gelli come di Belfagor, un demonio minore, che per agire doveva avere alle spalle un mandante, un protettore, Belzebù. E tutti pensarono ad Andreotti. All'esistenza del diavolo, il sette volte presidente del Consiglio ci credeva davvero. A dirla tutta: nominava nei suoi interventi più il diavolo di Dio. Quasi un'ossessione, tipica di una certa religiosità tutta paura dell'Inferno et indulgentia plenaria. Nel 2000 scrisse una lunga lettera al Diavolo Capo, per il mensile "Lettere", con una chiusa beffarda: «Se, non si offenda, si arrivasse a concludere che davvero Lei è un'invenzione, ne riporterei personalmente un beneficio. Taluni miei avversari, pubblici o privati, la smetterebbero finalmente di chiamarmi Beelzebub».
Nel corso degli anni Andreotti era diventato Belzebù. Il Grande Vecchio. Il Male assoluto. Sempre associato a tante cattive compagnie: il maresciallo di Salò Rodolfo Graziani con cui ci fu il leggendario "abbraccio" di Arcinazzo, il generale Raffaele Giudice, Gelli, i banchieri Calvi e Sindona, il direttore di "Op" Mino Pecorelli. Morti avvelenati, morti ammazzati. L'uomo dei dossier e dell'Archivio, che si sussurrava contenesse i segreti nazionali. L'Armadio Andreotti, in cui nell'immaginario trovavano posto tutti gli scheletri d'Italia. Quando poi fu consegnato all'Istituto Sturzo in 3500 faldoni, conservati in un sotterraneo del cinquecentesco palazzo Baldassini, si vide che dentro c'era di tutto: documenti, ritagli, lettere, videocassette, nastri sonori, litografie, foto. Perfino, avvolta in una elegante confezione rossa, una tavoletta di cioccolato reperita chissà quando in un albergo di Cap Ferrat, in Costa Azzurra. Il Divo l'aveva pure assaggiata, prima di archiviarla: l'impronta del morso diventerà una reliquia dell'andreottismo, culto che ha dominato inconfessabilmente la vita della Prima, della Seconda e di tutte le Repubbliche.
Parole sferzanti. Moro aveva conosciuto Andreotti da ragazzo, nella Fuci del futuro papa Montini. Era più anziano di lui di appena tre anni, insieme avevano scalato tutti i gradini del potere. Lo odiava, racconta chi ha conosciuto i pensieri dello statista democristiano, Moro non si sarebbe mai potuto dare pace a sapere che lui era morto ammazzato in un covo di terroristi mentre il suo rivale gli sarebbe sopravvissuto per più di tre decenni. E il fantasma di Moro ha continuato a tormentare Andreotti, come intuito artisticamente da Paolo Sorrentino nel film "Il Divo" (2008). Fino a oggi.
Il Divo è morto questa mattina di pioggia nella sua Roma, ma sembrava scomparso da tempo. Si era già, consapevolmente o meno, affidato all'eternità della sua immagine, della sua leggenda nera. Orecchie da pipistrello, gobba crescente, occhi stretti come fessure di un salvadanaio dietro le lenti, labbra sottili, dita lunghe e affusolate. L'immagine dell'immortalità del regno democristiano. Il potere per il potere, che logora chi non ce l'ha. Il volto nascosto della Balena Bianca. La volpe machiavellica travestita da innocente colomba.
Avevano cominciato a chiamarlo Belzebù quando sarebbe stato impensabile vederlo sotto processo per mafia. Il primo a farlo fu Craxi nel maggio 1981. Craxi parlava del venerabile maestro della loggia P2 Licio Gelli come di Belfagor, un demonio minore, che per agire doveva avere alle spalle un mandante, un protettore, Belzebù. E tutti pensarono ad Andreotti. All'esistenza del diavolo, il sette volte presidente del Consiglio ci credeva davvero. A dirla tutta: nominava nei suoi interventi più il diavolo di Dio. Quasi un'ossessione, tipica di una certa religiosità tutta paura dell'Inferno et indulgentia plenaria. Nel 2000 scrisse una lunga lettera al Diavolo Capo, per il mensile "Lettere", con una chiusa beffarda: «Se, non si offenda, si arrivasse a concludere che davvero Lei è un'invenzione, ne riporterei personalmente un beneficio. Taluni miei avversari, pubblici o privati, la smetterebbero finalmente di chiamarmi Beelzebub».
Nel corso degli anni Andreotti era diventato Belzebù. Il Grande Vecchio. Il Male assoluto. Sempre associato a tante cattive compagnie: il maresciallo di Salò Rodolfo Graziani con cui ci fu il leggendario "abbraccio" di Arcinazzo, il generale Raffaele Giudice, Gelli, i banchieri Calvi e Sindona, il direttore di "Op" Mino Pecorelli. Morti avvelenati, morti ammazzati. L'uomo dei dossier e dell'Archivio, che si sussurrava contenesse i segreti nazionali. L'Armadio Andreotti, in cui nell'immaginario trovavano posto tutti gli scheletri d'Italia. Quando poi fu consegnato all'Istituto Sturzo in 3500 faldoni, conservati in un sotterraneo del cinquecentesco palazzo Baldassini, si vide che dentro c'era di tutto: documenti, ritagli, lettere, videocassette, nastri sonori, litografie, foto. Perfino, avvolta in una elegante confezione rossa, una tavoletta di cioccolato reperita chissà quando in un albergo di Cap Ferrat, in Costa Azzurra. Il Divo l'aveva pure assaggiata, prima di archiviarla: l'impronta del morso diventerà una reliquia dell'andreottismo, culto che ha dominato inconfessabilmente la vita della Prima, della Seconda e di tutte le Repubbliche.
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