Corriere della Sera 22/11/14
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Ancora una volta l’uso politico
dell’«onestà». Non l’onestà che si richiede a tutti, la
precondizione dell’agire politico, risorsa che nessuno schieramento
può pretendere di monopolizzare. Ma l’«onestà» come arma
contundente, il tic del dare del «disonesto» all’avversario
politico. Malgrado le smentite, resta nel sospetto di «disonestà»
lanciato ieri da Landini sui sostenitori di Renzi il retrogusto di un
luogo comune avvelenato molto diffuso negli anni agonici della Prima
Repubblica e nel cuore della Seconda: la pretesa della propria
superiorità morale, la condanna nel girone infernale della
«disonestà» del Nemico considerato antropologicamente portato
all’immoralità. Una pretesa sempre meno fondata e credibile, tra
l’altro, vista l’universalità trasversale di comportamenti
eticamente discutibili. Nessuno è più autorizzato a scagliare la
prima pietra.
È una corrente sotterranea che esonda e invade le
piazze. Prima il «popolo dei fax», poi quello del «post it», poi
i girotondi che si stringono non attorno a una fabbrica, luogo del
lavoro e della sinistra del lavoro, ma attorno a un tribunale, luogo
della legge e dell’ordine, ma soprattutto tempio dei magistrati che
come angeli vendicatori rappresentavano per quel popolo là fuori il
surrogato della lotta politica, la casta in toga deputata a ripulire
la Nazione dai «disonesti» che la politica dei partiti, dei voti,
della democrazia non riusciva a cacciar via. Una storia antica, una
pretesa antica.
All’inizio degli anni Ottanta il dibattito
politico italiano ruotò intorno al surreale quesito se i comunisti
fossero da considerarsi veramente moralmente superiori agli altri
oppure no. Una pretesa assurda ma che fu presa sul serio da tutti. La
«questione morale» agitata da Enrico Berlinguer era questo: il
dogma della propria diversità, il presupposto che tutti fossero
cattivi, malvagi, ladri, disonesti, lottizzatori tranne i comunisti.
La dicotomia di un mondo pulito e incorrotto, quello del Pci e di ciò
che gli ruotava attorno, e di uno impuro, peccaminoso, immerso nel
Male, quello che si identificava con tutti gli altri partiti.
Il
povero Aldo Moro, prima di essere rapito e ammazzato con la sua
scorta, invano in Parlamento assicurava che la Dc non si sarebbe
fatta «processare» nelle pubbliche piazze. E invece la Democrazia
Cristiana (con gli altri partiti di governo) si è fatta eccome
processare nelle pubbliche piazze oltreché nei tribunali. Erano i
«forchettoni» bersagliati dal Togliatti che nel frattempo faceva
affluire nelle casse del Pci rubli a dismisura. Ma i «forchettoni»
erano sempre gli altri. Nelle parole di Landini, certamente eccessive
nella foga tipica del personaggio, e poi attenuate, parla
inconsciamente questa tradizione. La stessa tradizione che portò un
qualche «popolo» eterodiretto a circondare il Raphael, rifugio
dell’Orco, dell’Arcinemico, Bettino Craxi e a umiliarlo in favor
di telecamera con sprezzanti monetine: «Rubati anche queste». Non
era forse il campione della Disonestà da linciare in piazza prima
ancora che un tribunale ne decretasse l’eventuale colpevolezza?
Ma
c’è sempre a sinistra uno più puro che ti epura, sosteneva Pietro
Nenni, memore delle degenerazioni del giacobinismo che sfociò nel
Terrore e nella mistica della ghigliottina tanto cara al Robespierre
che veniva infatti glorificato come l’«Incorruttibile» (ma dopo
averne mozzate tante, anche lui ebbe infine la testa mozzata). E
anche nella Seconda Repubblica accadde che una setta dei puri,
capitanata da Antonio Di Pietro, diventasse la casa di tutti gli
epuratori. Per la verità non è che l’Italia dei Valori, con Razzi
e Scilipoti, abbia richiamato sempre intransigenti seguaci
dell’incorruttibilità alla Robespierre. E nei partiti che
erediteranno la storia del Pci la pretesa tardo-berlingueriana di
essere i portabandiera della «questione morale» non è stata
accompagnata sempre da visibili applicazioni pratiche di quegli
austeri princìpi. Era parso che il sindacato, aduso a ben altri
impegni a difesa del lavoro, non si fosse fatto contaminare dai
cascami velenosi del giustizialismo forcaiolo. Ma le parole (per
quanto poi frenate) di Landini smentiscono questa convinzione. Noi
onesti, loro disonesti appare ancora oggi una retorica facile da
usare.
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