Corriere della Sera 02/11/14
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La sentenza di assoluzione è il nuovo
anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi,
non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in
Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte
d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte
contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta)
e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo
un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di
un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in
corsa.
Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane
entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato
rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto
processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state
giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009.
Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono
in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì,
prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.
Nel
verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era
«nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»;
peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che
l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena
stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori.
Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il
modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza
preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin
dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò
l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora
risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure
da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo.
Incredibile,
ma vero. Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il
prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo
avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori
l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la
perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà
che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non
c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però,
Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno
d’ufficio.
Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi
è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo
grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i
responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che
sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però — che
certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima
di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava
regolarmente — non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai
tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato
i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica
giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli
aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per
evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario
del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un
policlinico.
Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno
contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i
genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il
permesso del giudice — e siccome c’era di mezzo il fine
settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte —, ma
per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di
salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era
impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che
dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia
penitenziaria.
In quei giorni di isolamento — con papà e
mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo
di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché
nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva
muovere dal letto — Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo
avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che
frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso
dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario
clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le
cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in
cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore
sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era
morto.
Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti,
e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo
disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano
Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria,
nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella
fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo — o
non solo — l’ultima sentenza.
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