CLAUDIO TITO
“Berlusconi rispetti i patti prima
l’Italicum poi il Colle L’Ilva tornerà allo Stato la salviamo e
poi vendiamo”. La Camusso? «Alza i toni in vista
dello sciopero generale ». Grillo? «Il Pd lo ha rottamato».
L’articolo 18? «Bisognerebbe rileggere ciò che scrivevano
sindacalisti come Luciano Lama». Prima il Quirinale e poi le
riforme? «Non esiste e comunque il mio nome ora per il Colle resta
solo Napolitano». Prima di affrontare lo “showdown” di dicembre
che per il governo assomiglia a una corsa a tappe forzate tra
l’Italicum, il Jobs act e la legge di Stabilità, Matteo Renzi
traccia un bilancio di quel che il suo governo e il Pd hanno fatto
nel 2014. Chiede al suo partito di abbandonare la vecchia abitudine
degli «sgambetti» a Palazzo Chigi e di dar vita ad una «sinistra
moderna» senza steccati ideologici.
Al punto di annunciare il ritorno
all’intervento pubblico per risolvere una delle più gravi crisi
industriali del Paese: quella dell’Ilva. «Poco fa — è la sua
premessa — io ho detto che sono eroi gli imprenditori, gli
artigiani, tutti i lavoratori. Chi fa il proprio mestiere. Perché le
questioni vere sono queste: avere la possibilità di fare impresa e
creare posti di lavoro. Questa è la sinistra moderna. Il resto è
polemica inesistente».
Sarà pure inesistente ma il segretario
della Cgil, Susanna Camusso, l’ha attaccata pesantemente.
«Il segretario della Cgil ha la
necessità di tenere alta la tensione e i toni in vista dello
sciopero generale. È legittimo e comprensibile. Ma la mia priorità
è un’altra: tenere la discussione sul merito delle cose. Capisco
la Cgil ma nel frattempo noi dobbiamo cambiare l’Italia e quindi
non cado nella polemica».
Lei si pone l’obiettivo di cambiare
l’Italia. Ma a volte sembra che voglia farlo
contro il sindacato.
«No. Io lo faccio contro chi frena. Se
il sindacato ha voglia di cambiare e dare una mano, ci siamo. Ma se
pensano di bloccarci, si sbagliano di grosso. Il tema vero oggi è
creare lavoro, non farci i convegni. Affrontare crisi industriali
come quelle di Taranto, di Terni, quella dell’Irisbus. Dare nuove
tutele a chi lavora e non la polemica ideologica. Questo è il
governo che ha dato 80 euro a chi ne guadagna meno di 1500 al mese,
che punta sui contratti a tempo indeterminato. È semplicemente quel
che deve fare una sinistra moderna ».
Gli ultimi dati Istat sulla
disoccupazione, però, ci consegnano la percentuale di disoccupati
più alta dal 1977.
«Dopo il decreto Poletti, in sei mesi
di governo sono stati creati oltre centomila posti di lavoro. È un
primo segnale incoraggiante. Flebile ma incoraggiante. Nei sei anni
precedenti ne erano stati persi un milione. Ma c’è un elemento in
più: un sacco di gente sta tornando a iscriversi alle liste di
disoccupazione perché adesso avverte la speranza di trovarlo un
lavoro. Questo fa crescere la percentuale ma è anche un segno di
attività che prima mancava».
Lei davvero crede che il Jobs act possa
essere risolutivo?
«Risolutivo no.
Però so che quella legge dà garanzie a chi non ne aveva, come le
mamme con un contratto precario. Estende gli ammortizzatori sociali a
tutti. Annulla i co.co.co, co.co.pro e quella roba lì. Dunque, si
fa. Però non bastano le regole: l’occupazione si rilancia
scuotendo il Paese, facendo la lotta alla burocrazia, alla
corruzione, all’evasione. Semplificando l’accesso al credito.
Tutto questo è il compito di una sinistra moderna».
Anche l’abolizione dell’articolo 18
è un compito della sinistra moderna?
«La nuova norma servirà a sbloccare
la paura. Molte aziende non assumono perché preoccupate di un
eccesso di rigidità. Mancava certezza nelle regole. Noi stiamo
rimuovendo gli ostacoli. È anche un elemento simbolico perché si
dimostra che l’Italia può attirare gli investimenti».
Non tutti pensano che sia proprio una
riforma di sinistra.
«Per molti è una coperta di Linus.
Bisognerebbe rileggersi un intervento di Luciano Lama del ‘78,
allora cambierebbero idea. Essere di sinistra è anche garantire agli
imprenditori di fare impresa e creare posti di lavoro. Senza steccati
ideologici».
In che senso?
«A Taranto, ad esempio, stiamo
valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico.
Rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere
l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato.
Non vivo di dogmi ideologici, non sono fautore di una ideologia
neoliberista. Il dibattito sull’articolo 18, invece, è quanto di
più ideologico. Il sindacato che non ha scioperato contro Monti e la
Fornero, lo fa adesso contro il governo che ha fissato i tetti degli
stipendi ai manager, ha dato gli 80 euro e ha tagliato i costi della
politica. Noi stiamo sul merito, non sull’ideologia: sono sicuro
che molti di loro cambieranno idea quando vedranno i decreti del Jobs
act».
Facciamo un passo indietro. Che intende
per intervento pubblico sull’Ilva?
«Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione
da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento
pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché
l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto,
preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo
sul mercato ».
È la teoria sostenuta da molti
economisti, a partire da Krugman, negli ultimi anni.
«La vera partita si gioca in Europa.
Il Piano Juncker è un primo passo ma al di sotto delle mie
aspettative. Glielo diremo al prossimo consiglio europeo. Il
paradigma mondiale dovrebbe essere la crescita. Su questo sono
d’accordo destra e sinistra: Obama e Cameron, Brasile e Cina. Al
G20 in Australia molti di noi lo hanno sostenuto, ma non tutti».
Ce l’ha con la Merkel?
«Io non ce l’ho con nessuno. Ma il
dibattito in Europa è molto più complicato rispetto a quanto accade
a livello globale».
La flessibilità non può diventare una
scusa per aumentare il deficit?
«Senza la flessibilità la politica è
finita, morta, inutile. Se governare fosse solo un insieme di regole,
potrebbero governare i robot. Se l’Europa non fosse stata
flessibile, la prima a saltare sarebbe stata la Germania del
post-muro di Berlino. Quanto al deficit, il nostro dato è uno dei
migliori al mondo. Preoccupa casomai il debito. Ma in questo caso il
problema è la crescita. Solo che la crescita non arriva senza un
programma di investimenti pubblici e privati degni di questo nome.
Fuori dalla tecnicalità: è un gatto che si morde la coda...».
Ma in questa fase serve o no più mano
pubblica nell’economia?
«Dipende. Io ad esempio non sono per
la presenza pubblica in così tante municipalizzate come accade da
noi. Non vorrei passare da un eccesso all’altro. Bisogna valutare
caso per caso».
Una cosa su cui è d’accordo con
D’Alema.
«Può accadere persino questo. Ma se
penso a come furono fatte certe privatizzazioni in passato non credo
che l’accordo reggerebbe molto. Se penso al dossier Telecom, mi
rendo conto che l’enorme debito della compagnia telefonica risale a
come fu gestita la privatizzazione di quell’azienda. Diciamo che
con D’Alema sono forse d’accordo sull’intervento pubblico,
ma sono un po’ meno d’accordo sull’intervento privato,
diciamo».
In ogni caso lo scontro con una parte
del suo partito sulla politica economica del governo e sul Jobs act
pone a lei, in qualità di segretario del Pd, un problema. Come
comporre le differenze in un partito che aspira a conquistare la
maggioranza e che per forza di cose contiene al suo interno più
anime.
«Dal punto di vista culturale la
diversità aiuta e stimola il dibattito. Dal punto di vista
organizzativo invece c’è un gruppo di lavoro guidato dal
presidente Orfini. Quando poi ci sarà il premio alla lista servirà
una gestione diversa dei processi decisionali. Come si vive la
disciplina e la libertà di coscienza nel partito del ventunesimo
secolo? Come tenere insieme l’idea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria con quello bersaniano che voleva un partito
diverso dalla tradizione novecentesca ma più solido?».
E come si fa?
«Ne stiamo discutendo ma questa è la
sfida interna del nuovo gruppo dirigente Pd».
Intanto c’è chi le chiede di
anticipare il congresso.
«Chi usa strumentalmente questo tema
dimentica che alle europee abbiamo preso il 40,8%, abbiamo recuperato
4 regioni su 4 e governiamo l’Italia cercando faticosamente di
cambiare linea all’Europa. Il congresso è fissato per il 2017. Se
Zoggia o D’Attorre pensano di fare meglio potranno dimostrarlo tra
tre anni come prevede lo Statuto. Nel Pd c’è una gestione
unitaria. Non è che possiamo fare il congresso perché loro si
annoiano».
Veramente c’è chi minaccia anche la
scissione.
«Nel Pd ci sta chi ne ha voglia. Chi
minaccia la scissione un giorno sì e un giorno pure, deve chiarirsi
solo le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola
dello sgambetto al governo non funziona più».
Lei però deve decidere se il Pd può
avere al suo interno tutta la sinistra.
«Una parte di sinistra radicale ci
sarà sempre. Ma quando si va a votare, proprio il popolo della
sinistra che è già provato da quel che è accaduto in passato, ci
penserà due volte a votare per la sinistra radicale rischiando di
consegnare il paese a Matteo Salvini. Perché poi si sceglierà tra
noi e la destra lepenista. Tra la nostra riforma del lavoro e quella
della Troika».
Ha detto Salvini e non Grillo.
«Il Pd lo ha rottamato. Le europee
hanno segnato la fine del grillismo. Loro usavano la rabbia, noi
abbiamo risposto con un progetto. Ora si tratta di capire come si
muoverà la diaspora Cinque stelle. Alcuni di loro sono molto seri,
hanno voglia di fare».
Li sta reclutando?
«Non sono per fare campagne acquisti,
ma sulla lotta alla burocrazia, la semplificazione fiscale, la
scuola, secondo me ci sono i margini per fare qualcosa con una parte
di loro. Dovranno decidere se buttare via i tre anni e mezzo che
rimangono di legislatura o dare una mano al Paese».
Le ultime regionali hanno rottamato il
M5S ma sono state un segnale anche per lei.
«Perché l’astensionismo alle
regionali dovrebbe essere messo sul conto del governo? Anche l’idea
che ci sarebbe stato lo spaesamento dei lavoratori cozza con la
realtà. E allora perché non hanno votato per Sel? Avevano pure la
scusa che stava nella coalizione con Bonaccini».
Sarà altrettanto duro con Berlusconi?
Al Corriere ha detto che prima si concorda e si elegge il presidente
della Repubblica e poi si approva l’Italicum.
«Non esiste. L’Italicum è in aula a
dicembre. Lui si è impegnato con noi a dire sì al pacchetto con la
riforma costituzionale entro gennaio. Io resto a quel patto».
Berlusconi spesso cambia idea.
«Io no».
Nel frattempo le ha fatto sapere che
per il Quirinale vorrebbe Giuliano Amato.
«Io ho un unico nome: Giorgio
Napolitano. Non apro una discussione finché il capo dello Stato è
al suo posto. I nomi si fanno per sostenerli o per bruciarli. È
sempre la stessa storia dal 1955. La corsa è più complicata del
palio di Siena. E i cavalli non sono nemmeno entrati nel canapo».
Va bene, ma poiché il problema si
aprirà, lei pensa di indicare almeno un metodo?
«È bene che il presidente della
Repubblica si elegga con la maggioranza più ampia possibile. E dico
“possibile”. Ma non voglio discuterne adesso, sarebbe
irriguardoso nei confronti di Napolitano e segno di scarsa serietà
verso i cittadini».
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