Corriere della Sera 15/11/14
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Chi sa creare lessico è già a metà
dell’opera. E indubbiamente la formula dello «sciopero sociale»,
lanciata dai Cobas per la giornata di ieri, è mediaticamente
accattivante.
In più il perno della protesta di ieri erano le
otto ore di stop delle fabbriche del Nord indette dalla Fiom, un
sindacato fortemente strutturato e dotato di un leader che alle tv e
ai giornali piace tanto, al punto che gli amici e concorrenti della
Fim-Cisl sono ormai arrivati agli sfottò.
Ma messe da parte le
tecniche di comunicazione vale la pena chiedersi cosa veramente ci
sia dietro la formula del cosiddetto sciopero sociale. E la risposta
è semplice: chi da anni frequenta le piazze, come l’irrottamabile
portavoce dei Cobas Piero Bernocchi, ha capito che per creare
l’effetto protesta&caos basta sommare un corteo e un blocco dei
trasporti pubblici e il risultato è garantito. Le città moderne
sono un reticolo di micro spostamenti ed è sufficiente interromperli
per generare confusione, scandalo politico e qualche ferito. Ma non
c’è niente di sociale in questa ricetta. Anzi, si finisce per
accentuare la distanza tra chi è protagonista del blocco, del
corteo, persino dello scontro con la polizia e il popolo minuto, gli
utenti dei servizi pubblici.
Sia chiaro non c’è cinismo in
queste considerazioni. Tutt’altro. È evidente che una società,
sottoposta a uno stress di sei anni di crisi e bombardata da continue
revisioni al ribasso delle stime del Pil, andrebbe rassicurata. Ci
vorrebbe la capacità di parlare ai vari segmenti che la compongono.
Agli abitanti delle città dell’acciaio che rischiano il degrado,
alle ragazze che per un posto da Calzedonia fanno il colloquio di
prova in vetrina, alle parrucchiere italiane che devono contrastare
la concorrenza cinese a 6 euro al taglio e non sanno che pesci
pigliare, alle partite Iva che si aspettano un regime fiscale che le
aiuti a metter su un’attività e vedono solo confusione, agli
artigiani che in questi anni hanno fatto da ammortizzatori sociali e
ora si vedono costretti a tagliare il personale.
Ci vorrebbero
soggetti capaci di interloquire con questo disagio, capaci di
raccoglierlo. Ci sarebbe bisogno di una sorta di «pronto soccorso»
della crisi, un indirizzo a cui rivolgersi. Garanzia Giovani, il
programma finanziato dai soldi della Ue, poteva essere una — solo
una — di queste forme di ristoro sociale. Doveva servire a rendere
i ragazzi occupabili, a spiegar loro che l’economia è cambiata,
che lavoro dipendente e lavoro autonomo stanno quasi per toccarsi e
assomigliarsi. Doveva servire a metterli in grado di conquistare
un’occasione di lavoro. E invece purtroppo questo test di saldatura
tra alto e basso, tra istituzioni e popolo, è rimasto molto al di
sotto delle speranze. Non è casuale che nelle sue numerose
esternazioni il presidente del Consiglio eviti di parlarne. La
lingua, in questo caso, non batte dove il dente duole.
Nelle
prossime settimane andremo incontro a nuovi scioperi e va portato
rispetto a chi vi aderisce, a chi sacrifica una porzione di salario
per segnalare il suo malessere. Ma siamo sicuri che le associazioni
di rappresentanza chiamando così ripetutamente al blocco facciano la
cosa giusta? Non si comportano così prima di tutto per soddisfare le
esigenze politico-identitarie delle loro sigle e dei loro leader?
Il
dubbio è quantomeno legittimo e del resto non è un caso che le
innovazioni sociali di questi anni (il welfare aziendale e la sharing
economy) non siano scaturite dalle piattaforme dei sindacati.
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