ILVO DIAMANTI
La Repubblica 2/11/14
Il partito di Renzi Dopo un anno cambia
l’elettorato, con un leader che strizza l’occhio al centrodestra
e conquista lavoratori autonomi ma anche operai
Il controcanto fra la Leopolda e Piazza
San Giovanni: sembra non finire mai. Le polemiche, nell’ultima
settimana, si sono moltiplicate. Trainate da diversi protagonisti, di
entrambe le parti. Camusso e Renzi. Picierno e Landini.
Interpreti e comprimari di una
rappresentazione che ha fatto parlare di una frattura profonda. Fra
due sinistre. Fra il Pd di Renzi e un nuovo partito. Alla sua
sinistra. Tuttavia, il distacco fra la Cgil e il Pd di Renzi, il Pdr,
non è recente. Non si è prodotto nelle ultime settimane. Si è
consumato molto prima. A causa di un reciproco risentimento, fra la
base della Cgil e i vertici del Pdr. Renzi, infatti, ha
ri-posizionato il suo PD prendendo le distanze dalle tradizioni della
sinistra comunista. Ma anche post-comunista. Da cui proviene la Cgil.
In parte, però, questi contrasti
sembrano voluti dallo stesso Renzi, per ragioni di mercato
elettorale. Il Pdr, infatti, si è definito di Sinistra e ha aderito
al Partito del Socialismo Europeo. Ma si è orientato al centro.
Volgendo lo sguardo più in là. A Centro-destra. La polemica con la
Cgil riflette questa strategia di marketing politico. Alimentata
dalle politiche sul lavoro condotte dal governo, in particolar modo
attraverso la revisione dell’articolo 18. Simbolo di una stagione
politica e sociale caratterizzata dalla mobilitazione sindacale e
dalla concertazione. Alla quale Matteo Renzi ha posto fine
definitivamente, dichiarando che “il posto fisso non esiste più”.
E che, dunque, hanno poco senso anche le organizzazioni dei
lavoratori “a tempo indeterminato”. I sindacati, appunto, con cui
ha stabilito relazioni di reciproca diffidenza. E “senza
concertazione”.
Naturalmente, Renzi ha scelto un
bersaglio indebolito da anni di declino, nella percezione sociale. Il
sindacato. Dal 2009 ad oggi, negli ultimi 5 anni, la fiducia verso
Cisl e Uil, tra i cittadini, è scesa dal 26% al 16%. Nei confronti
della Cgil: dal 35% al 22%. Così, Renzi ha fatto della Cgil il
simbolo della sinistra della nostalgia, che si accontenta del 25%. E,
anche per questo, è finita ai margini del PD di Renzi. Oggi,
infatti, fra gli elettori del Pd, i simpatizzanti della Cgil sono
circa il 25%. Poco più della media. Ma nel 2012 erano il 53%. Oltre
il doppio. E nel 2009 oltre il 60%. Questa tendenza rispecchia,
dunque, il reciproco distacco, fra il Pdr e la Cgil. A Renzi non
piace la Cgil. E viceversa.
Tuttavia, la “caduta” della fiducia
nella Cgil fra gli elettori del Pd (come ha osservato, fra gli altri,
Lorenzo Pregliasco, di Quorum) costituisce anche un indice (e una
conseguenza) dei cambiamenti avvenuti nella base elettorale del Pd.
Che, coerentemente con le intenzioni del leader, si è allargata
verso il centro e il centrodestra. Ha, infatti, assorbito Scelta
Civica, l’Udc. Ma anche Ncd. Inoltre, ha intercettato frazioni
significative di Forza Italia. Aree politiche che hanno scarsa
sintonia con il sindacato e, soprattutto, con la Cgil.
Altrettanto evidente e profondo è il
cambiamento, avvenuto in pochi mesi, nella base sociale del Pdr. Alle
elezioni politiche del 2013, infatti, circa il 20% degli operai aveva
votato per il Pd. Alle elezioni europee del 2014 questa componente
era salita al 34%. Oggi, dopo le polemiche sull’articolo 18, si è
ridimensionata al 28%. Comunque, più che al tempo del Pd di Bersani.
Perché è da tempo, ormai, che gli operai non votano più per il Pd.
Parallelamente, il peso degli imprenditori e dei lavoratori autonomi
è cresciuto in modo sensibile e progressivo: dal 13% alle politiche
del 2013 al 28% alle Europee, fino al 40% oggi.
Il Pd(R), in altri termini, oggi è più
forte fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi — ma anche fra i
dirigenti, gli impiegati e i liberi professionisti — che fra gli
operai. E se il suo peso, fra gli studenti, è cresciuto (oggi è il
40%), la categoria sociale che garantisce al Pd i maggiori consensi
resta quella dei pensionati: 58%.
Anche la fiducia nel governo Renzi,
peraltro, risulta molto elevata fra i pensionati, gli imprenditori e
i lavoratori autonomi. Mentre appare decisamente bassa fra gli operai
e, soprattutto, i disoccupati.
È come se Renzi avesse, davvero,
spezzato i legami della “sua” sinistra con il passato. Con la
sinistra storica, rappresentata dal Pci, dalla Cgil. E con il
riferimento sociale — simbolico — da cui ha tratto senso e
radicamento. Il lavoro — dipendente. La classe operaia. E, inoltre,
con gli “esclusi” (dal mercato del lavoro). Già da tempo,
d’altronde, la sinistra, in Italia (e non solo) ottiene i maggiori
consensi fra i pensionati e i dipendenti pubblici. Fra le professioni
“intellettuali”. Gli operai sembrano, invece, sempre più
attratti dalla Lega di Salvini e dal M5s. Mentre il PdR ha
intercettato il voto del lavoro “in-dipendente”. Degli
imprenditori — grandi e, ancor più, piccoli. Quelli che, per
riprendere il mantra di Renzi, non conoscono “posto fisso”.
Il problema, però, è che, così,
anche il futuro politico di Renzi e del Pdr rischia di divenire
instabile e precario. Come il lavoro. Come le organizzazioni e le
identità politiche del passato. Dissolte, insieme ai vecchi partiti.
Così non resta che correre, alla continua ricerca di nuove parole,
nuovi luoghi, nuovi alleati e nuovi nemici. Senza fermarsi mai. Una
professione che Renzi, fino ad oggi, ha saputo esercitare abilmente.
Ma che nessuno, intorno a lui, è in grado di svolgere con
altrettanta efficacia. Correre senza sosta e, in fondo, senza mèta.
Detto così, più che una missione sembra una condanna.
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