domenica 9 novembre 2014

IL PERICOLO NASCOSTO NELLA VERITÀ NEGATA.


Corriere della Sera 09/11/14
corriere.it
La chiave sta in due righe e una foto, a galla su Internet come un messaggio in bottiglia. «Più di tre milioni di persone hanno visto questo post, non siamo soli e non lo saremo mai», scrive Ilaria Cucchi accanto all’immagine di suo fratello Stefano, sfigurato dalle botte sul tavolo dell’obitorio. Ecco. Tre milioni di persone ripescano quella bottiglia, rileggono quel messaggio, guardano il volto di quel ragazzo qualunque, un figlio, un fratello, uno di noi. 
L’effetto è quello di una chiamata generale. Così si spiega la serata delle «mille candele» ieri a Roma, in piazza Indipendenza, lanciata e rilanciata via web, cresciuta nel passaparola dei blogger e diventata infine un sussulto di rabbia reale sotto il Csm al grido di «giu-sti-zia! giu-sti-zia!». Accorrono ragazzi dei collettivi antagonisti, certo. Amici di Stefano anche da Villa Maraini, sì, dove si lotta contro la droga. Ma pure mamme, nonni, adolescenti, bimbi sulle spalle dei papà coi lumini accesi in cerca di una verità che in mattinata ha invocato persino il cardinal Bagnasco.

Si può discutere e molto sulla sentenza che manda tutti assolti per la morte di Stefano Cucchi, ma qui il punto non è di diritto. È, banalmente, di sostanza. La decisione della Corte d’appello — il pestaggio ci fu, la vittima è sotto i nostri occhi e tuttavia non ci sono responsabili — ha stappato un sentimento collettivo e popolare: per effetto della tenacia della famiglia Cucchi e del coraggio di Ilaria, di sicuro, ma anche e soprattutto dello spirito dei tempi.

«Sappiamo chi è Stato», anticipano i social network nei loro hashtag e strillano poi i cartelli in piazza. Dietro di essi si vede un’onda che monta con il moltiplicatore emotivo di Facebook e Twitter, e con la filosofia degli indignados : il sospetto che non ci sia da credere a nessuna autorità costituita, la voglia di strappare il velo a un potere che si autoassolve, alle caste e alle lobby. Con la forza di un semplice assunto, che chiunque può capire senza essere un giurista o un politologo: Cucchi è entrato in cella vivo e sulle sue gambe, ne è uscito morto e ridotto a larva.

Gli attacchi di alcuni esponenti del centrodestra al ragazzo e al suo stile di vita suonano dunque, oltre che crudeli, stonati. Un vano tentativo di buttarla in politica: perché qui non si tratta di mettere sotto accusa o di difendere un paio di carabinieri, tre agenti di custodia, qualche medico, né si discute della libertà di sballo o di spinello. Qui è morto un giovane uomo che andava aiutato. E a essere revocato in dubbio dal popolo italiano, o almeno dalla sua massa critica rappresentata in Rete, è il sistema per intero: un sondaggio di Agorà dice che il 70 per cento vorrebbe rivedere la sentenza (pure prima della Cassazione). È come se il caso Cucchi avesse svegliato con qualche ritardo una specie di grillismo giudiziario. «Cosa è giusto lo decidiamo noi!»: questo è il messaggio finale, in sé tutt’altro che rassicurante, prodotto dalla malagiustizia.

Il furto di verità fa venire in mente, a chi ha memoria, l’Italia delle stragi. Ma qui è tutto più immediato e comprensibile. La faccia pesta di quel ragazzo ogni volta che apriamo il computer è paradossalmente un memento più assillante persino delle terribili foto di un treno sventrato o di una piazza devastata, perché la nebbia di rinvii e depistaggi allora confondeva tutto, e noi tutti, nel tempo. Nell’eterno presente perpetuato in Rete, invece, la verità denegata appare affilata come il volto di Cucchi nell’ultimo scatto.

L’idea che la giustizia sia cosa di cui diffidare ha avuto per vent’anni un tratto tutto politico: Berlusconi l’ha inculcata ai suoi e ne ha fatto la propria cifra. Ma questa storia semplice ne dà un segno pre-politico e trasversale: una cosa che chi attacca la memoria di Cucchi — nel riflesso pavloviano di difendere le divise purchessia — sembra non comprendere. Tutto questo non è però gratuito. Il pericolo che milioni di italiani qualsiasi non credano più ai loro giudici è ben più devastante dell’eversione a bassa intensità proposta per due decenni dal berlusconismo. E sta qui, in definitiva, il lato più oscuro della sentenza Cucchi. Che avrà tecnicamente le migliori ragioni, ma contiene un insulto al senso comune, un nocciolo di non plausibilità: e perciò trasforma il volto martoriato di Stefano in icona plausibile per altre mille indignazioni quotidiane.




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