domenica 26 aprile 2020

Onorare i padri l'impegno per questo 25 aprile

Antonio Trebeschi 
Sindaco di Collebeato (BS)
25 aprile 2020
“Onorare i padri” è il titolo di una raccolta di scritti di protagonisti della Resistenza pubblicata dall’Associazione Fiamme Verdi “per mantenere viva la fiaccola della libertà che i nostri Padri ci hanno affidato”.
In rete si trova una bella poesia di Fulvio Marcellitti dedicata ai tanti padri e madri di un tempo, oggi nonni, che nei giorni di questa pandemia ci hanno lasciato.
“Se ne vanno. Mesti, silenziosi, come magari è stata umile e silenziosa la loro vita, fatta di lavoro, di sacrifici. Se ne va una generazione, quella che ha visto la guerra, ne ha sentito l’odore e le privazioni, tra la fuga in un rifugio antiaereo e la bramosa ricerca di qualcosa per sfamarsi. Se ne vanno… visi segnati da rughe profonde… Mani che hanno spostato macerie…
Ci lasciano, avvolti in un lenzuolo, come Cristo nel sudario… con il sudore hanno ricostruito questa nostra nazione, regalandoci quel benessere di cui abbiamo impunemente approfittato. Se ne va l’esperienza, la comprensione, la pazienza, la resilienza, il rispetto, pregi oramai dimenticati. Se ne vanno senza una carezza, senza che nessuno gli stringesse la mano, senza neanche un ultimo bacio. Se ne vanno i nonni, memoria storica del nostro Paese, patrimonio della intera umanità.
L’Italia intera deve dirvi GRAZIE e accompagnarvi in quest’ultimo viaggio con 60 milioni di carezze…”.
In questi giorni militari dell’Armata Russa [Giornale di Brescia 22/04/2020], affiancati da militari italiani con il supporto logistico degli alpini in congedo, sono entrati in azione sul territorio bresciano. Per un mese opereranno sull’intera provincia alla disinfezione delle case di riposo e delle residenze sanitarie per disabili, compresa la scuola Nikolajewka di Brescia, circostanza dal grande valore simbolico, pensando alla drammatica battaglia che gli alpini italiani combatterono nel 1943 contro i reparti dell’Armata Rossa.
Questa pandemia ha sovvertito e sta sovvertendo tante condizioni che abbiamo dato troppo spesso per scontate, acquisite per sempre – magari solo per una parte, ma la cosa non ci preoccupava più di tanto. C’è chi dice che niente potrà più essere lo stesso.
Certamente non potrà tornare chi ci ha lasciato e la crisi profonda che sta travolgendo interi settori dell’economia non sarà facile da superare.
Il blocco di gran parte delle attività ed di ogni tipo di contatto umano, la scoperta di una vulnerabilità dalla quale nessuno ha potuto ritenersi indenne, ci deve portare ad una riflessione che in questi anni di frenetica corsa abbiamo, per lo più, superficialmente accantonato.
Una riflessione sul nostro rapporto con l’ambiente e con gli altri, una riflessione sulle priorità della vita, una riflessione sul corretto uso delle risorse.
Con la consueta lucidità Papa Francesco sollecita questa riflessione.
“Le frontiere cadono, i muri crollano e tutti i discorsi integralisti si dissolvono dinanzi a una presenza quasi impercettibile che manifesta la fragilità di cui siamo fatti. Saremo capaci di agire responsabilmente di fronte alla fame che patiscono tanti, sapendo che c’è cibo per tutti? Continueremo a guardare dall’altra parte con un silenzio complice dinanzi a quelle guerre alimentate da desideri di dominio e di potere? Saremo disposti a cambiare gli stili di vita che subissano tanti nella povertà, promuovendo e trovando il coraggio di condurre una vita più austera e umana che renda possibile una ripartizione equa delle risorse? Adotteremo, come comunità internazionale, le misure necessarie per frenare la devastazione dell’ambiente o continueremo a negare l’evidenza? La globalizzazione dell’indifferenza continuerà a minacciare e a tentare il nostro cammino?”.
Penso che questa celebrazione possa essere una buona opportunità per andare a ritrovare validi riferimenti, forse dimenticati o, comunque, mai abbastanza fatti propri.
Il 25 Aprile, Festa della Liberazione, è la data che rappresenta uno spartiacque nella storia del nostro Paese. La fine della tragedia della guerra e della dittatura fascista, con la sua politica fondata su superiorità, discriminazione, separazione e autoritarismo, che faceva leva sulla minaccia, sulla paura e sulla delazione.
I valori e gli ideali che unirono le varie anime della Resistenza vennero espressi nella Carta Costituzionale dove, nella ferma volontà di tradurre in precise disposizioni le speranze e le attese per un profondo cambiamento dello Stato e della società, vennero posti tra i principi fondamentali Diritti Inviolabili e Doveri Inderogabili per ogni cittadino:
“Doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale [art. 2]; pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali [art.3]; il diritto al lavoro e il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società [art.4]; il diritto d’asilo allo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche [art. 10]”;
E ancora: “il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi [art. 17]; di associarsi liberamente [art. 18]; di professare liberamente la propria fede religiosa [art. 19]; di manifestare liberamente il proprio pensiero [art. 21]; il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro [art. 36]; al mantenimento e all’assistenza sociale per chi è inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere  [art. 38]; il diritto di sciopero [art. 40]; il sacro dovere di difendere la Patria [art. 52]; il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi e, per i cittadini cui sono affidate le funzioni pubbliche, il dovere di adempierle con disciplina e onore [art. 54]”.
Un dettato costituzionale e i suoi ideali ispiratori che non solo caratterizzano la netta cesura con il sistema di violenza e terrore nazifascista, ma costituiscono il solido riferimento del nostro sistema democratico. E a questi  contenuti dobbiamo guardare non come vessillo da sbandierare o brandire contro gli avversari politici quando fa comodo, magari senza neppure conoscerli, ma come reale fondamento per le nostre scelte.
Lionello Levi Sandri che guidò i partigiani nelle battaglie del Mortirolo e, dopo la guerra, fu consigliere comunale a Brescia, Commissario europeo e presidente del Consiglio di Stato, ai comandanti partigiani, a Bassano del Grappa nel 1984, ricordava che:
“la Resistenza e gli ideali che l’hanno ispirata possono ancora incidere ed essere vivi nella nostra società… solo se saremo capaci di alimentare ancora la nostra rivolta morale, se saremo decisi a non accettare le ingiustizie e le prepotenze e a non essere di fronte ad esse sordi ed inerti; se rimarremo ribelli ad ogni forma di ingiustizia, di sopraffazione, di iniquità, comunque essa si manifesti”.
Mentre per lo storico Pietro Scoppola:
“Il processo di liberazione non è mai compiuto: non è compiuto nelle coscienze dei singoli, non lo è nella vita sociale. La liberazione dell’uomo, di tutti gli uomini, dall’oppressione, dalla miseria, dall’ignoranza, dalla paura… è un obiettivo sempre valido, sempre necessario e sempre aperto.
Celebrare il 25 aprile significa … aprirsi alla cultura della liberazione, all’idea di traguardi più avanzati di dignità e di libertà umana, a una idea di democrazia che coniuga tensione utopica e ricerca di adeguati strumenti istituzionali; significa aprirsi alla prospettiva di una lotta per la liberazione che continua oggi e deve continuare domani”.
Pertanto se davvero vogliamo “Onorare i Padri” a 75 anni dalla Liberazione, “mantenere viva la fiaccola della libertà che ci hanno affidato”  e, soprattutto, intraprendere un serio cammino per superare la crisi della pandemia verso una condizione di maggiore equità e giustizia, dovremo essere capaci di seguire il loro insegnamento e il loro esempio.
La ricostruzione dalle macerie della guerra è stato frutto di concordia ed unità d’intenti, competenza, coraggio, lungimiranza ed anche attenzione ai più deboli.
Basta allora sterili battibecchi tra tifoserie politiche, che non guardano ai contenuti ma soltanto alla visibilità. Basta superficialità e improvvisazione. Ciascuno dia il proprio contributo in modo onesto e costruttivo. Le risorse a disposizione devono essere indirizzate alle reali necessità, attraverso valutazioni serie, guardando ad un orizzonte che vada al di là della ricerca del consenso immediato.
Il sacro dovere di difendere la Patria si dovrà tradurre nel potenziamento – finanziamenti e strategie organizzative – della ricerca, della sanità, delle politiche sociali, della scuola, del sistema di accoglienza, della messa in sicurezza di strutture e territorio. Basta muri, separazioni, discriminazioni, furbizie, evasione fiscale. Che, finalmente, il Parlamento abbia il coraggio di ridurre significativamente le spese per gli armamenti e eliminare i decreti sicurezza. Non è davvero più pensabile che si investano ogni anno decine di miliardi di euro per cacciabombardieri nucleari e altre armi da guerra e ci siano leggi che alimentano l’irregolarità e la discriminazione.
Aldo Moro nel 1944 scriveva: “Ora dobbiamo percorrere una lunga e difficile strada: dobbiamo appunto ricostruire. Cominciamo di qui. Rimettiamoci tutti a fare con semplicità il nostro dovere… Chi ha da studiare, studi. Chi ha da insegnare, insegni. Chi ha da lavorare, lavori. Chi ha da combattere, combatta. Chi ha da fare della politica attiva, la faccia, con la stessa semplicità di cuore con la quale si fa ogni lavoro quotidiano. Madri e padri attendano ad educare i loro figlioli. E nessuno pretenda di fare più o meglio di questo. Perché questo è veramente amare la Patria e l’umanità”.
Concludo con le parole pronunciate i giorni scorsi da Papa Francesco:
“Se abbiamo potuto imparare qualcosa in tutto questo tempo è che nessuno si salva da solo… Ogni azione individuale non è un’azione isolata, nel bene o nel male. Ha conseguenze per gli altri, perché tutto è interconnesso.
Questo è il tempo… che ci chiede di non conformarci né accontentarci, e tanto meno di giustificarci con logiche sostitutive o palliative, che impediscono di sostenere l’impatto e le gravi conseguenze di ciò che stiamo vivendo. Questo è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile.
Che ci trovi con gli anticorpi necessari della giustizia, della carità e della solidarietà.  Non possiamo permetterci di scrivere la storia presente e futura voltando le spalle alla sofferenza di tanti.
Non dobbiamo aver paura di vivere l’alternativa della civiltà dell’amore, che è “una civiltà della speranza: contro l’angoscia e la paura, la tristezza e lo sconforto, la passività e la stanchezza. La civiltà dell’amore si costruisce quotidianamente, ininterrottamente. Presuppone uno sforzo impegnato di tutti. Presuppone, per questo, una comunità impegnata di fratelli”.

giovedì 23 aprile 2020

giornata mondiale del libro

«Leggere è come pensare, come pregare, come parlare con un amico, come esporre le tue idee, come ascoltare le idee degli altri, come ascoltare musica sì, sì come contemplare un paesaggio, come uscire a fare una passeggiata sulla spiaggia.» Roberto Bolaño

mercoledì 22 aprile 2020

La cura della casa comune


Catechesi in occasione della 50ª Giornata Mondiale della Terra
Papa Francesco
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi celebriamo la 50ª Giornata Mondiale della Terra. È un’opportunità per rinnovare il nostro impegno ad amare la nostra casa comune e prenderci cura di essa e dei membri più deboli della nostra famiglia. Come la tragica pandemia di coronavirus ci sta dimostrando, soltanto insieme e facendoci carico dei più fragili possiamo vincere le sfide globali. La Lettera Enciclica Laudato si’ ha proprio questo sottotitolo: “sulla cura della casa comune”. Oggi rifletteremo un po’ insieme su questa responsabilità che caratterizza il «nostro passaggio su questa terra» (LS, 160). Dobbiamo crescere nella coscienza della cura della casa comune.
Siamo fatti di materia terrestre, e i frutti della terra sostengono la nostra vita. Ma, come ci ricorda il libro della Genesi, non siamo semplicemente “terrestri”: portiamo in noi anche il soffio vitale che viene da Dio (cfr Gen 2,4-7). Viviamo quindi nella casa comune come un’unica famiglia umana e nella biodiversità con le altre creature di Dio. Come imago Dei, immagine di Dio, siamo chiamati ad avere cura e rispetto per tutte le creature e a nutrire amore e compassione per i nostri fratelli e sorelle, specialmente i più deboli, a imitazione dell’amore di Dio per noi, manifestato nel suo Figlio Gesù, che si è fatto uomo per condividere con noi questa situazione e salvarci.
A causa dell’egoismo siamo venuti meno alla nostra responsabilità di custodi e amministratori della terra. «Basta guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un grande deterioramento della nostra casa comune» (ibid., 61). L’abbiamo inquinata, l’abbiamo depredata, mettendo in pericolo la nostra stessa vita. Per questo, si sono formati vari movimenti internazionali e locali per risvegliare le coscienze. Apprezzo sinceramente queste iniziative, e sarà ancora necessario che i nostri figli scendano in strada per insegnarci ciò che è ovvio, vale a dire che non c’è futuro per noi se distruggiamo l’ambiente che ci sostiene.
Abbiamo mancato nel custodire la terra, nostra casa-giardino, e nel custodire i nostri fratelli. Abbiamo peccato contro la terra, contro il nostro prossimo e, in definitiva, contro il Creatore, il Padre buono che provvede a ciascuno e vuole che viviamo insieme in comunione e prosperità. E come reagisce la terra? C’è un detto spagnolo che è molto chiaro, in questo, e dice così: “Dio perdona sempre; noi uomini perdoniamo alcune volte sì alcune volte no; la terra non perdona mai”. La terra non perdona: se noi abbiamo deteriorato la terra, la risposta sarà molto brutta.
Come possiamo ripristinare un rapporto armonioso con la terra e il resto dell’umanità? Un rapporto armonioso … Tante volte perdiamo la visione della armonia: l’armonia è opera dello Spirito Santo. Anche nella casa comune, nella terra, anche nel nostro rapporto con la gente, con il prossimo, con i più poveri, come possiamo ripristinare questa armonia? Abbiamo bisogno di un modo nuovo di guardare la nostra casa comune. Intendiamoci: essa non è un deposito di risorse da sfruttare. Per noi credenti il mondo naturale è il “Vangelo della Creazione”, che esprime la potenza creatrice di Dio nel plasmare la vita umana e nel far esistere il mondo insieme a quanto contiene per sostenere l’umanità. Il racconto biblico della creazione si conclude così: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Quando vediamo queste tragedie naturali che sono la risposta della terra al nostro maltrattamento, io penso: “Se io chiedo adesso al Signore cosa ne pensa, non credo che mi dica che è una cosa molto buona”. Siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore!
Nel celebrare oggi la Giornata Mondiale della Terra, siamo chiamati a ritrovare il senso del sacro rispetto per la terra, perché essa non è soltanto casa nostra, ma anche casa di Dio. Da ciò scaturisce in noi la consapevolezza di stare su una terra sacra!
Cari fratelli e sorelle, «risvegliamo il senso estetico e contemplativo che Dio ha posto in noi» (Esort. ap. postsin. Querida Amazonia, 56). La profezia della contemplazione è qualcosa che apprendiamo soprattutto dai popoli originari, i quali ci insegnano che non possiamo curare la terra se non l’amiamo e non la rispettiamo. Loro hanno quella saggezza del “buon vivere”, non nel senso di passarsela bene, no: ma del vivere in armonia con la terra. Loro chiamano “il buon vivere” questa armonia.
Nello stesso tempo, abbiamo bisogno di una conversione ecologica che si esprima in azioni concrete. Come famiglia unica e interdipendente, necessitiamo di un piano condiviso per scongiurare le minacce contro la nostra casa comune. «L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune» (LS, 164). Siamo consapevoli dell’importanza di collaborare come comunità internazionale per la protezione della nostra casa comune. Esorto quanti hanno autorità a guidare il processo che condurrà a due importanti Conferenze internazionali: la COP15 sulla Biodiversità a Kunming (Cina) e la COP26 sui Cambiamenti Climatici a Glasgow (Regno Unito). Questi due incontri sono importantissimi.
Vorrei incoraggiare a organizzare interventi concertati anche a livello nazionale e locale. È bene convergere insieme da ogni condizione sociale e dare vita anche a un movimento popolare “dal basso”. La stessa Giornata Mondiale della Terra, che celebriamo oggi, è nata proprio così. Ciascuno di noi può dare il proprio piccolo contributo: «Non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo. Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente» (LS, 212).
In questo tempo pasquale di rinnovamento, impegniamoci ad amare e apprezzare il magnifico dono della terra, nostra casa comune, e a prenderci cura di tutti i membri della famiglia umana. Come fratelli e sorelle quali siamo, supplichiamo insieme il nostro Padre celeste: “Manda il tuo Spirito e rinnova la faccia della terra” (cfr Sal 104,30).

50 anni

 
In un momento come questo, tutto sembra rallentare intorno a noi. Tutto tranne lei.
La nostra Terra, che continua a girare, quasi ignara del fatto che noi ci siamo fermati, se non per il fatto che, grazie a questo nostro fermo, lei ha ripreso a respirare.

Il nostro grande esodo dal deserto del fascismo

Discorso di Aldo Moro pronunciato a Bari per il trentennale della Resistenza
(21 dicembre 1975)
L’Italia rivive cosi una drammatica ma esaltante esperienza ed approfondisce la sua identità nazionale. Quella identità nazionale appunto che si rivela in momenti di svolta, destinati ad esercitare una decisiva influenza nella storia dei popoli.
La Resistenza fu uno di questi momenti. Ad essa dunque, ancora oggi, facciamo riferimento. Ad essa ci rivolgiamo come al luminoso passato, sul quale è fondato il nostro presente ed il nostro avvenire.
La Resistenza fu lo scatto ribelle di un popolo oppresso, teso alla conquista della sua libertà. Ma essa non fu solo un moto patriottico-militare contro l’occupante tedesco, destinato, perciò, ad esaurirsi con la fine del conflitto mondiale. La Resistenza viene da lontano e va lontano. Affonda le sue radici nella storia del nostro Stato risorgimentale. E’ destinata a caratterizzare l’epoca della rinnovata democrazia italiana. Un dato storico è da mettere in rilievo: alla Resistenza parteciparono, spontaneamente, larghe forze popolari, e non solo urbane, ma della campagna e della montagna. Furono coinvolti ad un tempo il proletariato di fabbrica, che difendeva gli strumenti essenziali del suo lavoro, e la realtà contadina. Alle azioni gloriose delle formazioni partigiane e del nostro corpo di liberazione, schierati in battaglia, si accompagnò un’infinità di episodi spontanei, il più delle volte oscuri o poco noti, che rappresentarono l’immediata risposta delle popolazioni alle sopraffazioni delle brigate nere o dell’esercito nazista, una risposta data anche fuori dai centri urbani, nei più sperduti paesi rurali, nelle zone collinari e pedemontane. Questa Resistenza più ramificata e diffusa, che non è stata classificata tra le operazioni delle divisioni partigiane direttamente impegnate nello scontro armato, si è collegata molto spesso al ricordo delle lotte lunghe e tenaci che le leghe, contadine avevano condotto in tante regioni: dal Veneto alla Toscana, all’Emilia, alle Puglie, contro lo squadrismo agrario e le violenze nazionalistiche o fascistiche degli anni venti e anche oltre. Ma non era mero ricordo, bensì un dato vitale, una sorta di impegno civile, che ha immesso nella Resistenza fattori sociali connessi con la storia delle grandi masse popolari, a lungo escluse dalla partecipazione alla vita dello Stato unitario. La Resistenza supera cosi il limite di una guerra patriottico-militare, di un semplice movimento di restaurazione prefascista, come pure da talune parti si sarebbe allora desiderato. Diventa un fatto sociale di rilevante importanza.
A lungo si è ripetuto che alla piena esplicazione della Resistenza ha nociuto il peso negativo rappresentato dal Mezzogiorno, che non ha compiuto l’esperienza della lotta partigiana del Nord Italia. Gli storici tendono ora a correggere questa visione dualistica, di un Nord, proiettato verso una peraltro indefinita rivoluzione, e un Sud, ancora una volta “palla al piede” dello sviluppo italiano. Il rapporto tra Mezzogiorno e Resistenza è complesso. Non va dimenticato, nello sfondo, ciò che pagarono le campagne del Mezzogiorno al fascismo. E’ vero, fu avviata una politica di bonifiche che consentì in un secondo tempo la formazione di ceti agrari più progrediti, meno attaccati alla esclusiva conservazione della rendita. Ma quel poco che si fece sotto il fascismo per il Sud, ebbe come corrispettivo il blocco dell’emigrazione interna, una politica di bassi salari, sperequazioni tributarie e pesanti vincoli contrattuali nelle campagne. Il programma fascista di un’Italia rurale ed eroica portò in realtà ad un eccesso di popolazione contadina, costretta a vivere entro strutture economiche rimaste arcaiche e statiche e perciò prive, di impulsi creativi. Crollato il fascismo e liberato il Mezzogiorno dalle truppe alleate, non per caso ancora una volta furono le campagne a muoversi. Si trattava della lotta al latifondo e della riforma agraria, cioè di una delle esperienze più significative di questo dopoguerra, che ha consentito lo svilupparsi di un grande movimento contadino nel Sud ed ha impegnato i governi in un notevole sforzo, nel suo insieme positivo. Ma, tornando agli anni cruciali che vanno dalla fine del ’43 a tutto il ’45, non ci sembra si possa dire che il Mezzogiorno fu una remora alla realizzazione degli ideali della Resistenza. Non vanno dimenticati gli intellettuali meridionali schierati sul fronte della libertà. Eppoi parlano le cose. Il Sud ha dato con profonda convinzione il suo apporto alla guerra di liberazione e ai primi atti dei governi della coalizione antifascista; ha contribuito al crollo degli eserciti nazifascisti, facilitando l’avanzata di quelli alleati; ha visto la nascita e l’affermarsi delle prime libere manifestazioni politiche dei partiti antifascisti; ha scritto con la insurrezione napoletana una tra le pagine più belle della Resistenza. (…)
Si è anche talvolta affermato che la Resistenza sarebbe stata tradita nel suo significato più autentico e che il graduale ritorno alle vecchie strutture dello stato prefascista avrebbe sancito una continuità statale di vecchio tipo. Se la polemica non fa velo, credo possa apparire evidente a tutti il grande salto di qualità che si è compiuto passando dallo Stato prefascista a quello nato dalla Resistenza sotto il profilo sia della struttura sia dei fini istituzionali. Non sono differenze di superficie, ma di sostanza, che riguardano anzitutto il processo di formazione e articolazione della volontà politica nazionale attraverso i partiti di massa, la consistenza democratica di base dello Stato, il suo ruolo di propulsione e di guida nella vita economica e sociale. Se vi furono aspetti di restaurazione, se vi furono remore e momenti anche di arresto nella realizzazione delle premesse ideali della Resistenza, ciò non può farci dimenticare il progresso compiuto e il senso storico-culturale della opzione politica in favore della democrazia che fu alle origini della fondazione del nuovo Stato. (…)
Con tutte le cautele e le gradualità imposte dalle esigenze della strategia alleata e dalla crescente diffidenza che divise ben presto le potenze occidentali dall’Unione Sovietica, la Resistenza fu indubbiamente molto di più di una operazione patriottico-militare. Essa agì in profondità nella vita politica del nostro Paese, dando una nuova dimensione allo Stato, arricchendo la vita democratica e creando una originale mentalità antifascista, la quale superò quella formale e parlamentaristica che aveva in certo modo caratterizzato in precedenza la opposizione al fascismo.
Lo Stato al quale i partiti democratici hanno dato vita è lo Stato che lo spirito della Resistenza e le circostanze oggettive hanno reso possibile in una valutazione globale di tutti gli interessi del Paese, interessi nazionali ed internazionali, immediati e in prospettiva. E certo occorreva uno Stato nel quale si riconoscesse il maggior numero possibile di cittadini, che fosse capace, su questa base, di ricostruire l’Italia, dandole un assetto stabile di libertà e di giustizia.
Sono questi, che ho appena ricordati, momenti della nostra vicenda trentennale sui quali è ancora aperto il giudizio storico, aperta la valutazione politica. Credo tuttavia che, pur partendo da punti di vista diversi e nella comprensibile divergenza d’opinioni sulle strade seguite e sulle soluzioni date in alcuni stretti passaggi della nostra vicenda nazionale, una cosa si possa dire e cioè che i partiti i quali si richiamano alla Resistenza e si riconoscono nella Costituzione repubblicana, ciascuno secondo la propria responsabilità ed il proprio ruolo, hanno guardato alle istituzioni democratiche, da presidiare ed accreditare nella coscienza del Paese. Via via, nel corso di questi trent’anni, un sempre maggior numero di cittadini e gruppi sociali, attraverso la mediazione dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa che animano la vita della nostra società, ha accettato lo Stato nato dalla Resistenza. Si sono conciliati alla democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie e chiusure classiste. Ma, soprattutto, sono entrati a pieno titolo nella vita dello Stato ceti lungamente esclusi. Grandi masse di popolo guidate dai partiti, dai sindacati, da molteplici organizzazioni sociali, oggi garantiscono esse stesse quello Stato che un giorno considerarono con ostilità quale irriducibile oppressore. Se tutto questo è avvenuto nella lotta, nel sacrificio, è merito della Resistenza, di un movimento cioè che si è mosso nel senso della storia, mettendo ai margini l’opposizione antidemocratica e facendo spazio alle forze emergenti e vive della nuova società.
Certo, l’acquisizione della democrazia non è qualche cosa di fermo e di stabile che si possa considerare raggiunta una volta per tutte. Bisogna garantirla e difenderla, approfondendo quei valori di libertà e di giustizia che sono la grande aspirazione popolare consacrata dalla Resistenza.
Il nostro antifascismo non è dunque solo una nobilissima affermazione ideale, ma un indirizzo di vita, un principio di comportamenti coerenti. Non è solo un dato della coscienza, il risultato di una riflessione storica; ma è componente essenziale della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa, sul terreno sociale come su quello politico, conservazione e reazione.
Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico.
In questo ambito ed in questo spirito è responsabilità politica dei partiti l’effettuare quelle scelte di indirizzi, di contenuti e di schieramenti ritenuti meglio rispondenti agli interessi del Paese.
Trent’anni fa, uomini di diversa età ed anche giovanissimi, di diversa origine ideologica, culturale, politica, sociale; provenienti sovente dall’esilio, dalla prigione, dall’isolamento; ciascuno portando il patrimonio della propria esperienza, hanno combattuto, per restituire all’Italia l’indipendenza nazionale e la libertà.
Questo è stato il nostro grande esodo dal deserto del fascismo; questa è stata la nostra lunga marcia verso la democrazia.

Convegno Bachelet 27 maggio


di Stefano Ceccanti

Il professor Lanchester ci chiede come abbiamo vissuto il sacrificio di Vittorio Bachelet nel 1980 per condividere alcuni elementi di memoria.
Quello era il mio ultimo anno di liceo e l’omicidio di Bachelet veniva dopo anni tormentati; in particolare era ancora dentro di noi il terribile ricordo dei cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro e della sua uccisione.
Quel cognome mi era noto per due degli ambienti che allora con alcuni altri coetanei frequentavo assiduamente: il Movimento Studenti di Azione Cattolica e il gruppo locale Jacques Maritain federato alla Lega Democratica di Pietro Scoppola, Achille Ardigò e Paolo Giuntella.
Dal primo avevo imparato il senso non intimistico della cosiddetta scelta religiosa implementata pochi anni prima da Bachelet, che portava con sé la necessità di conoscere approfonditamente i documenti del Concilio e la Costituzione, distinguendo ma unendo in una doppia fedeltà il ruolo di credenti e quello di cittadini.
Dal secondo, soprattutto dallo splendido libro di Pietro Scoppola “La proposta politica di De Gasperi”, uscito nel 1977, avevamo colto alla luce del passato il senso degli anni della solidarietà nazionale: la collaborazione resistenziale era durata troppo poco, lacerata allora dalla Guerra Fredda, e c’era bisogno di un lavoro comune, non solo di Governo, ma anche molecolare, per dare spessore a una base condivisa, emersa positivamente nel riconoscimento di tutte le principali forze politiche della collocazione atlantica e di quella europea, che consentisse l’alternanza. Quella che Scoppola chiamava la “cultura dell’intesa”. Nel 1979 ad Arezzo si era svolto il convegno della Lega democratica su “La terza fase e le istituzioni” che aveva prospettato anche l’esigenza di accompagnare la possibile alternanza con riforme della Seconda Parte della Costituzione.
Il senso di parole come distinzione, mediazione (nel doppio significato verticale, tra principi e realtà, e orizzontale, tra posizioni diverse), che segnano come spiegava Scoppola la liberazione umana come processo aperto, dialogico si pensi alle belle pagine del volumetto successivo sul 25 aprile), non era però del tutto condiviso. Proprio nel 1977 si era sviluppato un eterogeneo movimento di protesta, che portava con sé esigenze ambigue, alcune positive in chiave libertaria contro gli eccessi delle culture doveristiche tradizionali che avevano strutturato il Paese, altre però distruttive che avevano portato consenso alle frange terroristiche residue. Gruppi che si ispiravano alla cultura della Rivoluzione, intesa come un punto fisso di arrivo, da raggiungere a tutti i costi per via di imposizione, l’esatto contrario del processo aperto di liberazione. Come ha spiegato Micheal Walzer in “Esodo e rivoluzione” ci sono due modelli politici e teologici diversi a seconda che si consideri la terra promessa da raggiungere come pura, o, viceversa, da scegliere solo perché migliore di quella presente, senza pretesa di perfezione. La violenza tendeva a opporre la Rivoluzione agli uomini che col proprio riformismo incarnavano davvero la possibilità di Liberazione. Negando la Liberazione dentro il sistema si illudevano di imporre la Rivoluzione. All’idea di Costituente incompiuta, di un Governo delle forze popolari troppo presto interrotto nel 1947 e da riprendere trent’anni dopo per consentire un’alternanza non traumatica si opponeva il mito della Resistenza tradita che poteva compiersi solo con la Rivoluzione di una parte che si imponeva all’altra.
In qualche modo, però, la contestazione alle idee di distinzione, di mediazione, di doppia fedeltà era contestata anche nella Chiesa. Quel cattolicesimo impersonato da Moro e Bachelet ad alcuni sembrava datato, troppo elaborato, e non nel senso scontato in cui ovviamente nessuna eredità non può essere solo passivamente ripetuta. Cosicché quando qualche settimana dopo l’omicidio, per l’appunto a Pisa, il 24 e 25 maggio, esattamente quarant’anni fa, in un convegno nazionale dei giovani della Lega Democratica che presero il nome della “Rosa Bianca”, l’allora presidente della Fuci Giorgio Tonini usò come parole chiave “mediazione culturale”, si ingenerò una dura polemica ecclesiale sull’opportunità o meno di archiviare per intero quell’eredità in nome di un approccio più immediato all’opzione religiosa, teso a svalutare anche la stagione della solidarietà nazionale e l’appartenenza comune alla Costituzione.. Come nella contestazione terroristica riviveva la teoria della “Resistenza tradita” e la polemica estremista contro le forze di sinistra che avevano progressivamente accettato la collocazione europea ed atlantica, così nella Chiesa rivivevano alcune delle pulsioni intransigenti che si erano manifestate al momento dell’approvazione della Costituzione, vista come un cedimento ad altre impostazioni, delle elezioni municipali di Roma del 1952 con la cosiddetta operazione Sturzo, nelle dure opposizioni al primo centro-sinistra e nelle riserve verso lo stesso Concilio. Giacché i piani sono distinti, ma la connessione è sempre forte.
Due opposizioni del tutto diverse, niente affatto assimilabili, ma entrambe tese a polarizzare, a privilegiare l’immediatezza sulla mediazione, la propria Rivoluzione alla Liberazione comune, la propria esperienza religiosa come contrapposta alla cittadinanza comune.
A tanti anni di distanza credo si possa legittimamente rivendicare che invece quella via di Liberazione, nel segno della mediazione e del riformismo, fosse l’unica portatrice di futuro, al netto della capacità di ciascuno di noi di saperla rinnovare costantemente.

lunedì 20 aprile 2020

La politica indichi come ripartire


Guido Bodrato
19 aprile 2020

Tra pochi giorni, ricorderemo il 25 aprile, festa della Liberazione, "costretti" in casa da quasi due mesi. Per chi ha la mia età, scrivono i quotidiani, questa "condanna" potrebbe trasformarsi "a vita"..Stiamo frenando il dilagare del contagio, ma non vincendo questo Virus.. Il Coronavirus sembra invincibile, siamo in guerra. La linea che quotidianamente ha registrato l'andamento dei contagi (e delle morti) dopo aver raggiunto "il picco" ha iniziato a scendere; ma la discesa è rallentata negli ultimi giorni; ed è cresciuto il timore che un ritorno alle attività, anche se graduale, possa favorire un riaccendersi del contagio..
E si è riaccesa la polemica tra Regioni e governo, prima sulle responsabilità dei "ritardi", e subito dopo sulla decisione da assumere sulla "riapertura" Su questa decisione si è delineato un contrasto tra Nord e Sud, tra Confindustria e sindacati.
Eppure chi ha la responsabilità di decidere, dovrà farlo, sapendo che in ogni caso si sbaglia: dovrà mettere al primo posto la salute, ma dovrà anche correre i rischi per una apertura graduale delle fabbriche..Dovrà decidere questa strategia chi ha la responsabilità del governo, dovrà decidere il parlamento..ed è già evidente che su questa questione l'opposizione cerca di fare implodere la maggioranza; Salvini e Meloni considerano più importante tagliare la testa a Conte, il resto verrà...
Questa situazione dice che il "Dopo" sarà caratterizzato da un conflitto per il potere più aspro di quello che abbiamo sperimentato; che l'appello di Mattarella per un'unità che permetta di affrontare in modo più efficace questa straordinaria ed imprevista crisi, mettendo al primo posto l'Italia, resterà un auspicio. E' tramontata ogni speranza?
Bisogna ascoltare gli scienziati e investire di più sulla sanità pubblica e sulla ricerca, ma non si potranno scaricare sui "consulenti" i limiti delle scelte compiute nella prima e nella seconda fase di questa difficilissima vicenda.
Ed è sbagliato avviare processi sulle responsabilità, è sbagliato ed inaccettabile, come ha giustamente e ripetutamente scritto Mattia Feltri su La Stampa, cercare un capro espiatorio; e chi li fa' si assume una pesante responsabilità Come chi soffia sul fuoco, sulla protesta, mentre sta emergendo una comprensibile stanchezza nell'opinione pubblica, mentre cresce il numero di chi è senza lavoro, senza reddito, ed è spinto alla disperazione dal protrarsi dell'emergenza e dalle incertezze di chi ha la gestione sociale e politica della crisi.
Un'altra linea di tensione riguarda i rapporti con l'Unione Europea:
anche in questo caso, si è riproposto, in termini sempre più radicali lo scontro tra europeisti e sovranisti. Eppure dovrebbero essere evidenti due questioni: la prima, che la crisi economica che stiamo attraversando, per la sua natura e per la sua dimensione, richiede per l'Italia e per l'Europa, una strategia quale quella delineata da Draghi; la seconda, che questa strategia si fonda su un rilancio dell'europeismo, non su una uscita dall'Europa. Dove porterebbe i paesi europei, la disgregazione dell'Unione' ? Sbagliano gli egoisti del Nord, sbagliano i sovranisti dell'Est, Dobbiamo, con tenacia rilanciare i valori del federalismo europeo: quella storia non è finita. E' incomprensibile, in questo orizzonte, l'opposizione pregiudiziale al Mes, quando i finanziamenti disponibili per le infrastrutture sanitarie non comportano alcuna condizione...
Tutti riconoscono l'eroismo delle persone che contrastano, in prima linea e con grande generosità, il virus: medici, infermieri, forze dell'ordine e volontari; tutti dovrebbero riconoscere che nella guerra alla pandemia l'arma più importante è l'isolamento del visus. E quest'arma è nelle mani di tutti i cittadini: sono i loro comportamenti a decidere l'esito dello scontro..
Però se queste questioni reali diventano "pretesti" per assaltare il Palazzo d'Inverno, per fare cadere il governo, dobbiamo chiederci: dove porta questa "rivoluzione", dov'è il nuovo Lenin ?
Anche questa volta, è l'imprevisto a condizionare la politica, Ed in politica, per la rinascita della politica dopo la notte dell'antipolitica, diventa sempre più importante avere un progetto, un'idea della società che dobbiamo ricostruire, rendere evidenti i valori cui ispirarsi: solidarietà e responsabilità, generosità e coraggio.

venerdì 17 aprile 2020

Ai giovani


"La mia è la generazione che ha costruito sulle macerie, ed erano macerie materiali e morali. Ma proprio come tra le macerie il costruttore deve essere capace di distinguere tra cosa può ancora essere utilizzato per realizzare il nuovo edificio e cosa invece vada definitivamente abbandonato, così la storia del nostro Paese ci insegna che anche nella vita delle nostre istituzioni non sempre ci sono state la sufficiente capacità o l’adeguata volontà di distinguere tra le pietre davvero utilizzabili e quelle ancora fin troppo legate ad un catastrofico passato.
Cosa si poteva e si doveva fare? Cosa si può e si deve fare il giorno dopo la catastrofe? Credo sia importante pensare al terzo giorno, perché questo è già «in nuce» nel modo in cui si sceglie fra le macerie durante il primo e nel modo in cui si comincia a costruire durante il secondo…
Io da vecchissimo quale sono credo che anche oggi i giovani abbiano di fronte a sé la disponibilità di diffuse macerie dentro le quali distinguere il materiale da scartare e le pietre da riutilizzare. E credo che davvero per le giovani generazioni ci sia gloria e posto per tutti nella costruzione non tanto di un astratto «Diritto dopo la catastrofe», quanto di una città concreta. La loro città”.
Grazie ancora, Cesare.

Ora progettiamo il mondo dopo


Walter Veltroni
Corriere della Sera 17 aprile 2020
Come sarà il mondo dopo? Non è ora, proprio ora, il momento di immaginarlo e progettarlo?
Sanchez ha riaperto la Spagna da martedì scorso, Macron ha annunciato che l’11 maggio la Francia riparte e altrettanto ha fatto la Merkel. Tutti Paesi in cui l’epidemia è arrivata almeno due settimane dopo che da noi.
In Italia ci si dibatte tra commissioni pletoriche — più di 200 membri — e ovviamente in conflitto, tra regioni che si sentono Stati, tra polemiche interne alla maggioranza e all’opposizione. La verità è una sola: oggi un lavoratore o un imprenditore, in Italia, non sanno quando ricominceranno a vivere la loro vita.
Sono passate quasi sette settimane dai primi lockdown e il governo, dopo varie contorsioni, ne ha annunciate altre tre.
Bisogna rivendicare con orgoglio che il Paese ha mostrato, in questo tempo e fin qui, un’incredibile serietà e compattezza. Si smetta di dire il contrario, per favore. Nei giorni di Pasqua sono stati effettuati controlli, solo a Roma e Milano, a decine di migliaia di persone e le contravvenzioni registrate sono state meno di mille. Gli italiani hanno rispettato le regole, hanno tenuto chiusi i loro negozi, in molti hanno perduto il lavoro, in troppi fanno fatica a pagare il cibo o l’affitto.
Le città sono deserte, spettrali. Ma non sono più belle, così. Le città sono belle se le attraversa la vita, se si sente il suono delle parole e il rumore degli incontri. E la vita deve tornare, con le prudenze e le avvertenze necessarie. Senza una ripartenza, che tenga ovviamente conto delle esigenze primarie della salute, il Paese si sfarinerà. Nessuno meglio di una figura come Colao ne può essere consapevole. Anche perché noi, che eravamo già agli ultimi posti per crescita del Pil prima del virus, siamo più esposti di altri, come dimostra il pericoloso avvitamento verso l’alto dei rendimenti dei titoli.
Si dica chiaramente cosa bisogna fare. Poche avvertenze, chiare e non contraddette quotidianamente com’è avvenuto fin qui a proposito di mascherine, test, reagenti, tempi di incubazione del virus, terapie e vaccini. Gli italiani hanno, dopo tre mesi, solo tre certezze: che bisogna stare a casa, lavarsi le mani e mantenere le distanze necessarie se si esce. Ci si aspetta qualcosa di più.
Smettiamo di parlare — dopo ventimila morti, la strage degli anziani nelle Rsa, un indice di letalità superiore alla media mondiale, e una previsione di calo del Pil del 9,1 — delle magnifiche sorti e progressive del modello italiano. Definizione autodifensiva che non rende giustizia al generoso sforzo di medici, scienziati, ministri, amministratori, poliziotti, insegnanti, infermieri, volontari che hanno cercato, in un eccessivo caos, di affrontare un’emergenza spaventosa e, almeno per una parte, imprevedibile.
Ma in questo momento ciò che più manca è un pensiero nitido, in primo luogo della politica e del governo, che immagini e progetti il «mondo dopo».
Ora abbiamo bisogno di pensieri lunghi. Non di tatticismo e polemiche. L’illusione del ritorno alla normalità è, per chi lo coltiva, un sogno impossibile
Ciò che è accaduto, centinaia di migliaia di mor ti e miliardi di persone segregate nelle case in città vuote, non passerà senza lasciare un solco nella storia dell’umanità. Non torneremo a lavorare, consumare, viaggiare come prima. E ora bisogna mettere bene a fuoco, oltre l’emotività, ciò che questo può significare, in termini di collasso dell’esistente e, al tempo stesso, di possibilità di rigenerazione.
Poniamoci alcune domande. Il mondo sarà globalizzato come prima? O le difficoltà di viaggio e di scambio genereranno il bisogno di riscoprire una dimensione locale?
Il locale, il contrario del localismo, è la dimensione in cui, da sempre, la rete delle esperienze sociali e umane si radica e si apre all’esterno. Identità e apertura sono gemelle. Essere cittadini del mondo o europei non significa rinunciare alla dimensione ultima e definitiva delle proprie radici. Non c’è nulla di regressivo in questo. È in una dimensione locale, fatta di cooperative e associazioni, che ad esempio è nato il movimento democratico.
Si potrà essere davvero Glocal. Si dovranno inventare forme di lavoro e commercio che agiscano vicino a sé. Non si potrà più conoscere il frenetico pendolarismo di questi anni, gli autobus strapieni e le metropolitane con la gente schiacciata, i manager che attraversano il mondo per portare, fisicamente, le loro parole ad altri. Ma, al tempo stesso, la digitalizzazione consentirà di sentirsi parte di un mondo e non fortino impaurito, comunità afflitta da un localismo che diventa prigione. La vita tenderà a strutturarsi in quartieri che dovranno possedere tutte le funzioni, comprese quelle espulse ormai da anni dalle comunità locali. Penso, per fare solo un esempio, alla dimensione sanitaria che non potrà essere più riassunta nell’ospedalizzazione esasperata, ma necessiterà di una rete di filtro a livello di base, con l’obiettivo di riservare il ricovero alla necessità di alto specialismo.
Così come, ne ha parlato Macron, dovremo abituarci alle nuove condizioni del mercato globale e dunque a riaprire filiere produttive che garantiscano l’autosufficienza del proprio Paese.
Qui sta la grandezza dell’opera politica che va compiuta: dovremo, al contempo, rafforzare tutti gli strumenti di cooperazione e integrazione sovranazionale. Come il virus dimostra, il mondo non si governa con i muri ma con la cooperazione. Chi si lamenta dell’egoismo altrui, in questa crisi, in realtà si lamenta delle idee che ha contribuito in questi anni a seminare. Il sovranismo degli altri, che ci appare giustamente egoista, è fratello di quello che si predica. Il tempo che verrà ha invece bisogno di forme di decisione globale, di ricerca scientifica coordinata, di coordinamento di politiche finanziarie. Se l’Europa non lo capirà, a partire dal prossimo consiglio del 23, se gli Usa non si renderanno conto che non sarà dallo sgretolamento del nostro continente che si rafforzeranno, l’esito di questa crisi potrà essere davvero grave.
Dovremo immaginare nuove forme di lavoro, di trasporto, di consumo culturale, di apprendimento, di cura personale. Non è poco. Muteranno i mercati finanziari, la gestione del debito, le strategie del lavoro e quelle dell’accoglienza. Bisognerà disegnare il rapporto tra la necessaria ripresa di un ruolo pubblico nell’economia e la salvaguardia del tessuto delle piccole e medie imprese che è il senso storico, non solo la peculiarità, dell’economia italiana. E definire forme di governo che esaltino la prossimità, il ravvicinamento della decisione politica alla vita dei cittadini.
Finirà, si dice. Ma, ad ora, nessuno scienziato ci sa dire se il virus potrà tornare, magari al riaffiorare del freddo. Allora, siccome non si può immaginare di chiudere i cittadini del mondo in casa per un anno intero, sarà bene definire modalità certe di rilevazione della estensione reale del contagio e di delimitazione del raggio di azione di chi può infettare, non dell’umanità intera.
E insieme, ma questo spetta a politica e cultura, disegnare e plasmare il mondo nuovo. Almeno immaginarlo.
«Il giorno entra nella notte», ha scritto Borges. Facciamo in modo che avvenga .

L’endorsement di Obama

Mario Del Pero 16 Aprile 2020
Scontato, ma non banale, l’endorsement di Obama a Joe Biden è infine giunto. Un po’ in anticipo sui tempi, a dire il vero, accelerato sia dal ritiro di Sanders dalle primarie, e quindi dalla certezza che sarà Biden a sfidare Trump, sia dalla terribile crisi sanitaria ed economica provocata dal Covid19.
Oltre che a ricordarci – al netto di tutte le simpatie e le antipatie politiche – di quale monumentale scarto vi sia tra la retorica ricca e articolata di Obama e quella ruvida e binaria del suo successore, l’endorsement è stato significativo per almeno tre elementi.
Il primo è che Obama ha celebrato l’importanza della scienza, della conoscenza, dell’expertise. Un affondo, indiretto ma potente, a un Presidente che nella bufera della pandemia ha speso preteso d’imporre la voce sua su quella degli esperti e dei suoi stessi consiglieri scientifici: minimizzando il rischio portato dal virus, magnificando i poteri di medicinali non ancora testati, proponendo avventate riaperture di un paese che, il peggio, deve ahimè ancora vederlo.
Il secondo elemento, quello politicamente più rilevante, è stato rappresentato dall’apertura forte alla sinistra democratica. Obama, più fonti lo hanno confermato, è intervenuto nel processo delle primarie, convincendo diversi candidati moderati a uscire precocemente dalla contesa per far convogliare tutti i voti su Biden, l’unico in grado di fermare la corsa di Sanders. Ha giocato insomma un ruolo cruciale e forse decisivo. Ora si tratta però di rimettere assieme i cocci di un elettorato progressista diviso, evitando che i tanti sostenitori disillusi di Sanders disertino le urne in novembre. Tra questi un segmento decisivo è costituito dai giovani, quegli under-30 che hanno massicciamente preferito a Sanders a Biden, e che dalla moderazione di quest’ultimo difficilmente possono essere conquistati (tanto per intenderci, nel fondamentale voto del South Carolina, che rilanciò Biden dopo le iniziali sconfitte in Iowa, New Hampshire e Nevada, l’ex vice di Obama sconfisse Sanders 64 a 11 nel voto degli over-65, perdendo però 43 a 26 quello degli under-30). Obama questi giovani li ha menzionati direttamente. E soprattutto ha sottolineato come dalla sanità alla diseguaglianza, il programma di Biden sia, e debba essere, il più progressista di sempre. Più di quello di Obama del 2008, che i tempi e le sfide sono diversi, molti dei progetti obamiani debbono ancora essere completati e – non detto, ma chiaro – alla Casa Bianca siede un Presidente pericoloso e finanche eversivo.
Questo invito ad andare più a sinistra è stato integrato, in modo contraddittorio, dal terzo e ultimo elemento, un classico della retorica obamiana: l’enfasi sull’interesse e il bene comune; la necessità di superare divisioni e spaccature. Con un rimando a passaggi nodali della storia e della cultura statunitense, e con un riferimento dalle matrici religiose,  Obama ha invocato un nuovo “grande risveglio” contro una politica caratterizzata da “corruzione, disinteresse, egoismo, disinformazione, ignoranza” e, talora, “semplice follia”. Nessuna menzione dell’attuale Presidente, ovviamente, ma anche qui era fin troppo semplice immaginare a chi, e cosa, Obama alludesse.
Una pia illusione, quella di riunire un paese polarizzato e lacerato in forme estreme e di certo non ricomponibili, a maggior ragione in un anno elettorale e con un avversario come Trump. Ma l’obiettivo di Obama e dei democratici non è oggi quello di sottrarre voti alla controparte e forse nemmeno di convincere i pochi indecisi, quanto piuttosto di mobilitare appieno un elettorato democratico che sarebbe strutturalmente maggioritario nel paese, ma che rimane assai meno coeso, unito e omogeneo di quello repubblicano.

giovedì 16 aprile 2020

Il mondo che verrà

Stefano Zamagni
16 aprile 2020
Sulle pagine dell'Osservatore Romano di oggi l'intervista al presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali sul dopo coronavirus, che includerà "nemici" importanti, a partire dal neoliberismo, ma anche e soprattutto un'epoca migliore
di Marco Bellizi
Nel “nuovo mondo” del dopovirus il nemico numero uno sarà il liberismo. E insieme ad esso, almeno in Italia, la burocrazia, l'ostinazione nel rifiutare il principio di sussidiarietà, la resistenza alle opportunità che la tecnologia ha dimostrato di poter fornire. Nonostante questo compito impegnativo all'orizzonte, secondo Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali, il futuro comunque sarà migliore del passato. L'Europa, per esempio, sarà più forte e i sovranismi, nell'immediato, saranno costretti ad arretrare. Perché tutto questo accada, però, occorrono iniziative tempestive, coraggiose e lungimiranti. In Italia, per esempio, servirebbe un think tank, un gruppo di esperti  politicamente indipendenti e  desiderosi di dare una mano al loro paese, in grado di elaborare nel termine di poche settimane un vasto progetto con cui ripartire, quando si avvierà finalmente la famosa “fase 2”.
Professor Zamagni, prima di tutto mi permetta una domanda ineludibile: lei è favorevole alla riapertura in Italia, in tempi brevi, delle attività produttive, anche correndo qualche rischio, o preferisce attendere il via libera degli scienziati?
R. - Il punto è delicato e richiede una risposta articolata. Circola uno studio recente realizzato da un team di esperti dell'Università di Alicante, istituzione piuttosto attendibile, secondo il quale in Italia e in Spagna il 24 aprile sarà  la data di un deciso cambio di rotta, in positivo, dell'epidemia. Se questo è vero  ha un senso riaprire. Altri studi però mostrano scenari diversi. Ci sono pareri discordanti anche a livello scientifico: questo va detto. I police makers, i governanti, sono costretti a basarsi su questi dati, che non sono concordi. Purtroppo, negli anni passati, quando era possibile farlo, gli istituti scientifici non sono stati messi nella condizione di effettuare studi che adesso sarebbero preziosi. Bisogna dire con chiarezza, però, che non si muore solo di virus: se entro due mesi la situazione non si risolvesse si potrebbe cominciare  a morire anche per denutrizione, per cattiva alimentazione, per insufficiente assistenza sanitaria. I modi per riaprire gradualmente ci sono. Occorre iniziare con le attività che producono valore aggiunto: le partite di calcio, tanto per intendersi, non sono fra queste.  Fino ad ora, durante questa crisi, abbiamo solo redistribuito valore, senza produrlo. E' chiaro che così non possiamo reggere. E qui devo dire che le autorità italiane non hanno mostrato di voler valorizzare i tanti organismi del cosiddetto “terzo settore” che potrebbero fare un mondo di bene. Ho sottoscritto, assieme ad altri, un appello per avviare il servizio civile universale. Ci sono 80000 giovani che in base agli ultimi bandi sono pronti a lavorare gratuitamente per un anno. Lo stesso vale per molte fondazioni sanitarie. Sarebbe un vero e proprio esercito pronto a scendere in campo. Parliamo di circa 360 mila organizzazioni. Il problema è che ci sono alcuni settori che sono contrari al principio di sussidiarietà. C'è troppo dogmatismo e poca cultura. Prendiamo il tema della fragilità e della vulnerabilità, di cui si parla molto in questi giorni. Sfugge una distinzione fra queste due categorie. Noi in questi giorni siamo intervenuti a favore dei più fragili, di chi si trova in condizione di bisogno. Ed era giusto farlo. Ma la vulnerabilità è la condizione di chi, con una percentuale di probabilità superiore al 50 per cento, entro un determinato lasso di tempo potrebbe trovarsi fra quelli che oggi vengono  definiti fragili.
In questi giorni abbiamo sentito molti pareri, anche diversi, in merito agli effetti che il lockdown avrà sull'economia italiana e su quella mondiale. Si può dire ormai, almeno a grandi linee, quali saranno le principali emergenze che si dovranno affrontare nell'immediato?
R. - In primo luogo bisogna passare dal Welfare State alla Welfare Society: ammettere anzitutto che la salute non è un bene privato ma pubblico. Questo virus ce lo sta dimostrando chiaramente: se io mi ammalo finisco con il fare ammalare anche gli altri. Diventa un problema comune. Poi occorre passare dal modello  della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” alla “convergenza scuola-lavoro”, perchè i due mondi non sono alternativi. Nei progetti educativi bisogna introdurre il termine “conazione” (conoscenza e azione). Il sapere va usato in senso trasformativo. Oggi le imprese hanno fame di conoscenza eppure non riescono a impiegare chi la possiede. Naturalmente ciò comporta riscrivere l'architettura filosofica che è alla base della scuola. E' lo stesso concetto attorno al quale ruota il progetto educativo che il Papa ha inteso promuovere e che verrà rilanciato nei prossimi mesi. Un altro punto fondamentale è quello della deburocratizzazione. Nessuno ha l'onestà di dire che la burocrazia c'è per colpa di tutti i partiti politici, e sottolineo tutti,  che l'hanno creata a colpi di leggi a partire dagli anni '80 del secolo scorso in poi (il miracolo economico precedente si è potuto verificare proprio in assenza di questo genere di ostacoli). La burocrazia la si tiene in vita in virtù di quella che viene definita la rentseeking: non è altro che uno strumento per mantenere o estrarre rendita. Ecco, bisogna far partire una lotta senza quartiere contro le posizioni di rendita che si annidano nella burocrazia. Anche perché per mantenere il burocrate, per giustificare il suo stipendio, l'unico modo è fargli produrre carte su carte, in un processo autorigenerativo. Altro punto fondamentale è quello del tasso di imprenditorialità, che in Italia è calato molto: muoiono molte più imprese di quante ne nascano, e quando dicono “muoiono” mi riferisco anche a quelle che passano di mano ad aziende francesi o tedesche pur mantenendo il marchio formalmente invariato. C'è differenza fra imprenditorialità e managerialità. In Italia ci sono tanti bravissimi manager, abbiamo ottime e numerose business school. Il problema è che mentre il manager ha bisogno di tecnica, l'imprenditore ha bisogno di cultura, di alta cultura. E qui le nostre università hanno delle colpe, sfido chiunque a dimostrare il contrario. Infine c'è la questione della “tassazione promozionale”, quella che gli inglesi definiscono Optimal taxation theory: le tasse le deve pagare soprattutto chi ha rendita, non chi produce valore. Se questo facesse parte di un programma elettorale scommetto che la gente lo voterebbe in massa. Mi piacerebbe sapere cosa hanno da dire su questo punto i grandi fautori della meritocrazia...Se si fosse realmente meritocratici si dovrebbe essere d’accordo. Ma bisogna intervenire subito. Serve un think tank composto da esperti indipendenti, liberi da vincoli partitici, che  abbiano a cuore le sorti del paese e che nel termine di tre mesi siano in grado di elaborare un progetto.
Cosa ci ha insegnato, ci sta insegnando, questa pandemia, sotto il profilo dei rapporti economici e sociali?
R. - La lezione principale è che il modello liberista è il nemico numero uno. Fino a qualche tempo fa c'era chi ancora inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva il globalismo con la globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose molte diverse. È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto quelle piccole, la teoria secondo la quale in economia c'è sempre una mano invisibile che aggiusta  tutte le cose. C'è voluto il Papa con la Evangelii Gaudium a fare presente che non è così. Oggi chi ancora sostiene le posizioni neoliberiste o è un incompetente o lo fa in cattiva fede. La pandemia di questi giorni somiglia tanto  alla “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph Schumpeter  nel 1912, quella che viene considerata la componente fisiologica del capitalismo, la cui ontologia ruota attorno appunto al principio darwiniano  del far morire per ricreare. Secondo l'economista austriaco, non c'è niente che si può fare per evitarlo. Il problema è che dalla dimensione economica questo principio si è spostato a livello sociale. E i più poveri, i più fragili, sono quelli che pagano. Lo vediamo in questi giorni, anche a livello sanitario, con la drammatica scelta di chi curare. Questo meccanismo va domato: la dimensione del creare deve prevalere su quella distruttiva, in modo che la prima possa compensare gli effetti della seconda. Ma sono certo che questo accadrà, perchè la gente sta aprendo gli occhi. Vede, bisogna distinguere sempre fra capitalismo ed economia di mercato. Dire che bisogna accettare il primo per salvare il secondo è una grande falsità. Dovremmo cambiare anche i libri di economia in uso all'università, che finora hanno insegnato questo. Poi naturalmente occorre continuare a lavorare anche sull'eccessiva finanziarizzazione dell'economia, che del resto è già entrata in crisi da tempo...
Didattica a distanza, smart working, telelavoro, ecommerce: meno tempo sprecato, meno inquinamento, maggiore efficienza. Sarà davvero questa l'eredità positiva che il virus lascerà al mondo o fatalmente si tornerà indietro?
R. - Se non fosse accaduto quello che è accaduto ci sarebbero voluti anni per convincerci ad andare in questa direzione. Ora, se non altro, possiamo dire che se dopo l'emergenza un'azienda non si adatta allo smartworking o al telelavoro la colpa è solo sua: la tecnologia, come si è visto, c'è e funziona senza particolari problemi. Purtroppo anche qui è ben presente la mentalità di cui si parlava prima, quella della rendita di posizione, del timore di usare criteri di valutazione diversi. Una trasformazione del genere farà cambiare anche i meccanismi di contrattazione collettiva e le relazioni industriali. Anche il mondo sindacale potrebbe venirne rinvigorito, a patto che i suoi esponenti ne siano all'altezza. Si dovrà essere pagati non in base al tempo di lavoro, ma in base ai progetti, imparare a valutare l'outcome, non l'output, il risultato finale, non il mero prodotto quotidiano.
Al momento comunque rimangono alcune note dolenti. O quanto meno alcune criticità. A suo parere come si sta comportando l'Europa? E' davvero a un bivio, come osservano in molti? Come ne uscirà?
R. - Ne uscirà rafforzata. Anche i paesi più ricchi della comunità si renderanno conto che occorre riscrivere i trattati, da quello di Maastricht a quello di Dublino. Di fronte a situazioni come quelle che stiamo vivendo, occorre prendere coscienza che non ci si può fermare all'unione monetaria ma occorre andare avanti. Torna anche qui il concetto di vulnerabilità: a un certo punto l'Europa si è sentita forte, meno fragile. Ma rimane al momento estremamente vulnerabile. Credo però, come già sta accadendo in questi giorni,  che gli antieuropeisti e i sovranisti, inevitabilmente, verranno messi a tacere. Almeno per qualche tempo.  I nazionalisti pretendono di essere interpreti del bene della nazione e degli interessi del popolo. La realtà ci dice invece che la salvezza è nella cooperazione.
Questo a livello europeo. In scala mondiale alcuni dei paesi più influenti o emergenti  sono guidati però da leader che nel passato si sono dimostrati un po' refrattari all'idea della cooperazione...
R.- In effetti, a livello mondiale sono un po' meno ottimista. La colpa anche qui è tutta occidentale. Siamo noi che abbiamo permesso che certi stati diventassero dei giganti economici, potenti ma fondati su linee di sviluppo così lontane da quelle proprie delle nostre democrazie e soprattutto così noncuranti dei diritti umani...Bisogna cambiare registro. E per  questo occorre un'Europa forte. Le potenzialità per primeggiare ci sono, ci sarebbero tutte. Eppure continuiamo ad azzannarci fra noi, a insistere su politiche di austerità che tra l'altro non hanno alcun vantaggio scientificamente fondato.
Quanto l'economia civile, l'economia verde, la microeconomia possono realmente costituire un'occasione concreta di sviluppo?
R. - L'economia civile è un paradigma teorico che viene rifiutato forse anche perché nasce in ambienti cattolici. Le sue caratteristiche sono semplici: non esclude nessuno dal mercato; afferma che il fine dell'agire economico è il bene comune, non il bene totale; afferma che l'ordine sociale è il frutto dell'interazione fra stato, mercato e società civile; non accetta il principio del “Noma”, dei Non-overlapping magisteria (la teoria secondo qui scienza e religione avrebbero aree di indagine diverse e non sovrapponibili, ndr). Quest'ultima è una teoria antica. Se ne può trovare origine sin dal  1829, quando Richard  Whatley, arcivescovo anglicano e professore di economia a Oxford, affermava che l'economia è una scienza neutrale che deve essere separata dall'etica e dalla politica. Un concetto antico ma assolutamente inaccettabile.
Chi a suo parere può assumere la leadership nel guidare questi processi innovativi?
R.- Questo è un falso problema. È l'uso che dà il metodo, secondo l'epistemologia: è una delle poche affermazioni di Kant sulle quali sono d'accordo. Prima di cercare il leader devi creare le coscienze. A quel punto il leader verrà fuori. Bisogna che la gente cambi, come dire, il mindset. Fece lo stesso anche Gesù, in fondo, affidandosi agli analfabeti, Pietro per primo, ed esortandoli ad andare in giro a convincere gli altri. Quando nelle persone inietti il desiderio del cambiamento, si è già a buon punto.

domenica 12 aprile 2020

"La profezia di Pasqua"

Le feste cristiane conservano, anche in una società largamente laica, il potere di commuovere gli animi e predisporre ad una considerazione più attenta delle cose. La Pasqua evoca la redenzione dell’uomo, che è in fondo la meta di ogni sforzo morale e di ogni impegno politico. Se la redenzione è l’affermazione di un valore fuori discussione e perciò, in sé, perfetta e compiuta, molti disegni di vita individuale e sociale sono invece in via di faticosa attuazione ed incontrano difficoltà gravi e talvolta insuperabili. Ma il principio resta, illuminante e stimolante. Il significato di questa giornata è nel riscontrare che in modo mirabile e misterioso, vi sono oggi, vi sono ora tutte le condizioni, perché l’uomo sia salvo, salvo per tutta intera l’estensione dell’esperienza umana. E’ un giorno di gioia, perché la salvezza è alla nostra portata. Ma è anche un giorno di preoccupazione, di critica e di ripensamento nel raffronto tra l’enorme possibilità offerta ed il ritardo, la limitatezza, la precarietà di ogni conquista umana: tra il bene dell’armonia e della pace, il quale contrassegna la pienezza della vita, e la realtà delle divisioni che separano l’uomo dall’uomo e lacerano il mondo.

La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente della salvezza e dalla speranza. E non parlo naturalmente solo di salvezza e di speranza religiosa. Parlo, più in generale, di salvezza e di speranza umane che si dischiudono a tutti coloro che hanno buona volontà. La gioia pasquale, della redenzione dell’uomo, della pienezza dell’uomo, della comune dignità e concordia degli uomini che sono chiamati a vivere insieme, non lascia nessuno indifferente, proprio perché essa corrisponde ad una esperienza più larga e costituisce il simbolo altamente emotivo della generale vocazione per andare al di là comunque di se stessi e a dare senso più pieno ed autentica dignità alla vita. L’esperienza politica, come esigenza di realizzare la giustizia nell’ordine sociale, di superare la tentazione del particolare, per attingere valori universali, è coinvolta dunque nello sforzo di fare, mediante il consenso e la legge, l’uomo più uomo e la società più giusta. Il che vuol dire perseguire, con gradualità e limiti certo inevitabili, la salvezza annunciata, ad un tempo luminosamente certa e paurosamente lontana.

Questo può essere forse un rasserenante richiamo in una giornata come questa. Tutto quello che si muove nel mondo, sia nel chiuso insondabile delle coscienze sia nella grande arena del collettivo e dell’esterno, ha la stessa difficoltà che lo mette alla prova, lo stesso sforzo e sacrificio che lo contrassegna, la stessa nobiltà di un traguardo esaltante. Possiamo tutti insieme, dobbiamo tutti insieme sperare, provare, soffrire, creare, per rendere reale, al limite delle possibilità sul piano personale come su quello sociale, due piani appunto che collegano e s’influenzano profondamente, un destino irrinunciabile che segna il riscatto dalla meschinità e dall’egoismo. In questo muovere tutti verso una vita più alta, c’è naturalmente spazio per la diversità, il contrasto, perfino la tensione. Eppure, anche se talvolta profondamente divisi, anche ponendoci, se necessario, come avversari, sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto. La diversità che c’è tra noi non c’impedisce di sentirti partecipi di una grande conquista umana.

Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino: ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà e di rispetto e di dialogo. La pace civile corrisponde puntualmente a questa grande vicenda del libero progresso umano, nella quale rispetto e riconoscimento emergono spontanei, mentre si lavora, ciascuno a proprio modo, ad escludere cose mediocri, per fare posto a cose grandi.

Il motivo che più amareggia ed offusca la speranza di questi giorni è la constatazione non tanto della divisione, quanto di una divisione sottolineata e difesa dalla forza brutale ed ingiusta: della violenza aperta e di quella paurosamente tramata nell’ombra e non per contrastare altra violenza cristallizzata e potente ma proprio per contestare la libertà, nella quale si cammina verso il superamento di un passato finito e l’apertura di nuovi e più ampi orizzonti. C’è, soprattutto in questi giorni, del male personale e sociale da sradicare e del bene, visibile o, com’è più probabile, non visibile, da esaltare. Ma c’è, in tutta evidenza, lo squallido spettacolo della violenza, sempre meno episodico, purtroppo sempre più finalizzato alla degradazione ed all’imbarbarimento della vita, di fronte al quale è nostro dovere prendere posizione. Ne sono corrose le basi della convivenza civile ed è messo in causa lo Stato.

Restaurare lo Stato, rispettoso dei diritti ma intransigente contro ogni violazione e specie quelle che toccano la vita democratica, è un’inderogabile esigenza politica, da attuare con il minor numero possibile di parole ed invece con fatti stringati, come i tempi stringenti richiedono. Si chiamano in causa utili convergenze delle forze politiche sulle quali è doveroso portare l’attenzione con grande serietà e responsabilità. Ma tutto questo non sarebbe appropriatamente evocato nel giorno di Pasqua, mentre la gioia della liberazione è fortemente attenuata da incredibili contestazioni dei valori della convivenza, se si trattasse solo di un fatto politico che richieda un attento ripensamento nel suo proprio ambito.  Ma c’è di più, che siamo posti dinanzi ad un fatto allarmante che va cancellato essenzialmente nel nostro spirito: un segno vistoso di quella inammissibile vecchiezza, di quella insopportabile stortura, di quell’offesa all’umanità, per sradicare le quali, tra l’altro, è stato pagato un così alto riscatto e reso possibile un consolante annuncio di salvezza, di dignità, di libertà e di pace.

Aldo Moro