Corriere della Sera 29/11/14
f.cavalera
David Cameron va ancora all’attacco:
taglierò il welfare ai migranti che arrivano dall’Unione Europea.
Propone, nel caso di riconferma a Downing Street, di congelare per
quattro anni i crediti d’imposta e gli aiuti sulla casa ai
lavoratori a basso reddito che arrivano dalla Ue. Ipotizza di
rispedire in patria chi non trova occupazione entro sei mesi.
Promette di rimuovere i contributi per i figli a carico se risiedono
fuori dal Regno Unito. E prefigura il blocco per i cittadini dei
nuovi paesi aderenti alla Ue se «le loro economie» non
convergeranno coi parametri europei. Le parole sono pesanti e, a
prima vista, mettono Cameron di nuovo in rotta di collisione con
l’Europa.
Ma dietro al discorso che il leader conservatore ha
fatto ieri, tutto centrato sulla necessità di disincentivare i
flussi d’ingresso attraverso la soppressione dei generosi benefici
sociali oggi previsti per la manodopera non qualificata (soprattutto
dall’Est), c’è una lunga mediazione sia con la cancelliera
Merkel, con la quale Cameron si è consultato fino a poco prima del
suo intervento, sia con il presidente della Commissione, Juncker.
Ed
è stato proprio il pressing congiunto di Berlino e Bruxelles a
mitigare i contenuti della posizione del premier britannico che
infatti ha rinunciato a porre la questione delle «quote» (il tetto
annuale alle immigrazioni), poi a riconoscere la fondatezza del
principio della «libera circolazione» delle persone nell’area
europea (cardine dei trattati), infine a ribadire che comunque
occorrerà negoziare coi partner dell’Europa, escludendo atti
unilaterali. Così il commento di Juncker è morbido: «La sua
posizione va ascoltata senza drammi».
La sortita di Cameron, in
sostanza, occorre leggerla in doppia chiave. Per quello che non dice
(ad esempio non cita provvedimenti che sarebbero incompatibili con lo
spirito dei patti europei), allineandosi con i «consigli» della
signora Merkel ed evitando di isolarsi in un angolo. E per quello che
dice, con vigore, ma che risponde tanto alla necessità di lanciare
un manifesto elettorale quanto all’esigenza di nascondere il
fallimento della sua promessa del 2010. Allora, correndo per Downing
Street e incalzando i laburisti, disse: taglierò il saldo migratorio
e lo conterrò in poche migliaia.
Sfortunatamente per Cameron i
dati, che l’Ufficio Nazionale di Statistica ha diffuso proprio alla
vigilia del suo discorso, sono una solenne bocciatura di quei vecchi
impegni. Nell’ultimo anno, dal giugno 2013 al giugno 2014, sono
stati registrati 583 mila immigrati (228 mila sono cittadini Ue) e
323 mila emigrati.
Il bilancio parla di uno squilibrio di 260
mila unità, con un più 78 mila (quasi la metà rumeni e bulgari)
rispetto ai dodici mesi precedenti. Cinque anni di coalizione fra
conservatori e liberaldemocratici hanno prodotto un risultato opposto
a ciò che era stato proclamato con enfasi. La forza lavoro di
provenienza Ue è di 1,7 milioni su 2,9 milioni complessivi di
lavoratori immigrati. Sono i numeri che spiegano gli ultimi strappi
di Downing Street.
Il leader tory deve destreggiarsi fra
l’arrembante Nigel Farage che lo accusa di avere fatto sempre
«promesse disoneste», il mondo del business che lo invita a «non
calpestare il valore europeo della libera circolazione di manodopera»
e i partner, Merkel in testa, che lo spingono a maggiore cautela.
L’intervento di ieri, forte e populista ma non di irrimediabile
rottura, è un gioco d’equilibrio e d’azzardo insieme. La cui
efficacia sarà verificata con il voto di primavera.
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