lunedì 17 novembre 2014

I bambini in gabbia ostaggi della Crisi.


Corriere della Sera 6/11/14
Maria Serena Natale
«Andiamo a fare un giro?», lo ripete spesso nell’ostinata litania dei suoi giorni in gabbia. Fotis ha vent’anni e la sindrome di Down, vive in un rettangolo di sbarre di legno con la porta chiusa a chiave. Un letto singolo, niente oggetti personali. Ce ne sono tante di «celle di sicurezza» nel centro per disabili di Lechaina, Peloponneso occidentale, poco meno di settanta pazienti, in maggioranza bambini e adolescenti abbandonati dalle famiglie. Jenny guarda il mondo dalla sua gabbia da quando le fu diagnosticato l’autismo. Aveva due anni, oggi ne ha nove. Bambini, ammalati, vittime collaterali di una guerra economica nel cuore d’Europa. Da venerdì scorso la Grecia è ufficialmente fuori dalla grande recessione dopo sei anni di tagli, misure d’austerità, monitoraggio della trojka e salvataggi internazionali. Il Pil torna a crescere ma il Paese è lacerato, il sistema sociale dissolto, i più vulnerabili lasciati alla carità dei volontari.

Nell’istituto di Lechaina, oggetto nel 2010 di un durissimo rapporto del difensore civico per i diritti dei minori rimasto inascoltato, non c’è un medico in servizio stabile, solo un’infermiera e un assistente per piano. Nel 2006 un ragazzo di quindici anni rimasto senza supervisione morì per soffocamento dopo aver ingerito un oggetto. Dieci mesi dopo la stessa sorte toccò a un sedicenne nel cui stomaco furono trovati frammenti di stoffa e bendaggi.

La direttrice Gina Tsoukala non riceve stipendio da un anno. «Certo che non dovremmo usare le gabbie — dice alla Bbc — ma alcuni pazienti hanno tendenze autodistruttive o aggressive verso gli altri, per noi è impossibile seguirli tutti con forze così ridotte». All’ora dei pasti i bambini in gabbia ricevono il cibo attraverso le sbarre. Strumenti coercitivi e restrizioni alle libertà fondamentali che ricordano i tempi bui nei quali la disabilità era oscurata, relegata ai margini, rimossa dal corpo sociale.

La regressione culturale e materiale diretta conseguenza della recessione penalizza l’infanzia in molti modi. La generazione perduta. Secondo un rapporto Unicef pubblicato lo scorso ottobre la Grecia è con l’Islanda il Paese che più ha visto crescere la povertà infantile dal 2008, raggiungendo un tasso d’indigenza dei minori del 40,5% (contro il 23% di sei anni fa). Più che raddoppiata la percentuale di nuclei familiari incapaci di garantire ai bambini un pasto con carne o pesce ogni due giorni. Lo studio dell’Unicef ha analizzato 41 Stati tenendo conto di indicatori come possibilità economiche, livelli di stress, grado generale di soddisfazione, accesso all’istruzione. E ha fotografato una spirale nella quale «sempre più famiglie in Grecia faticano a soddisfare le più elementari necessità materiali ed educative».

Gli effetti sulla crescita e la formazione dei bambini, prevede il rapporto, si faranno sentire a lungo. «C’è una fondamentale sfasatura tra la durata della crisi e le sue conseguenze sociali» avverte il sociologo Alexander Kentikelenis. In un Paese dove nei momenti di massima depressione economica si stimava una perdita di circa mille posti di lavoro al giorno e oggi la disoccupazione si aggira intorno al 25% (quella giovanile sfiora il 50%), le nuove generazioni si vedono negare gli strumenti formativi di base, quelle stesse risorse sulle quali sarebbe urgente investire per rilanciare l’intero sistema produttivo. Il piano di aiuti Ue scade a fine dicembre, quello del Fondo monetario internazionale nel 2016. «La speranza è tornata, la Grecia è tornata» ha dichiarato il primo ministro conservatore Antonis Samaras subito dopo la pubblicazione dei dati di venerdì. Per motivare il Paese, e forse anche se stesso.




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