Egitto: al Cairo il giorno della rabbia.
Almeno 30 morti negli scontri
Decine di migliaia di persone hanno risposto all'appello della Fratellanza a scendere in piazza per difendere la legittimità del presidente eletto. Con un vero colpo di teatro, sul palco della manifestazione davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya è comparsa la guida spirituale della fratellanza che i servizi di sicurezza egiziane avevano annunciato ieri di avere arrestato.
La giornata è stata subito segnata alle temute violenze in tutto il paese. Il bollettino delle vittime dava 17 morti e oltre 400 feriti in scontri in tutto l'Egitto fra pro e anti morsi in serata. La giornata si è chiusa con violenze nei pressi di piazza Tahrir e della televisione di Stato quando manifestanti pro Morsi si sono avvicinati al sit in degli oppositori del deposto presidente. Nel Sinai un militare e quattro agenti di polizia hanno perso la vita in agguati che hanno indotto la presidenza a imporre il coprifuoco a nord, mentre a El-Arish, nel nord del Sinai, manifestanti hanno cacciato le forze di sicurezza da un edificio governativo issando la loro bandiera.
Violenti scontri si sono registrati anche ad Alessandria fin dalla mattina, con colpi di arma da fuoco fra gli oppositori e i sostenitori di Morsi, costringendo l'esercito a interporsi con blindati, ma le violenze sono continuate in serata.
Al Cairo gli scontri più violenti sono avvenuti nei pressi dell’università e davanti alla sede della guardia repubblicana, dove i pro morsi erano convinti fosse trattenuto il presidente destituito agli arresti. Voci e smentite si sono susseguiti sul numero di vittime davanti alla sede della guardia repubblicana in un sostanziale black out televisivo delle immagini degli scontri. Secondo media internazionali l'esercito ha aperto il fuoco sui manifestanti pro Morsi uccidendo tre persone. Un portavoce militare ha smentito che le forze armate abbiano sparato sui manifestanti sostenendo che hanno usato colpi a salve e lacrimogeni. Successivamente una fonte della sicurezza ha smentito che ci siano state vittime nel tentativo di assalto della sede della guardia repubblicana.
Il presidente ad interim, Adly Mansour ha emesso il suo primo decreto presidenziale per sciogliere la camera alta del parlamento, con poteri legislativi dopo lo scioglimento della camera bassa, e per licenziare il capo dell'intelligence. Un annuncio giunto solo qualche minuto prima della comparsa di Badie sul palco della manifestazione.
Accolto come una star Badie ha detto alla sua piazza che il "golpe militare è nullo" ed ha fatto appello al sacrificio della propria vita per riavere Morsi alla presidenza. "Dopo il suo ritorno negozieremo su tutto", ha detto badie, guardando in alto verso gli elicotteri militari che hanno continuato a volteggiare sopra la piazza gremita di sostenitori di Morsi per dire: "Grande esercito torna agli egiziani, noi resteremo in piazza fino al ritorno del rais". In serata il fronte degli islamici ha incassato un primo significativo successo. La procura ha ordinato il rilascio di Saad el Katatni, capo del partito della Fratellanza, e di Rashad el Bayoumi, altro importante esponente della Confraternita.
La repubblica 6 luglio 2013
Egitto: il golpe dei militari, conseguenza dell'incapacità di governare dei Fratelli Musulmani
Di Janiki Cingoli
Faceva un certo effetto, mercoledì sera, vedere il liberale e Premio Nobel Mohamed ElBaradei festeggiare al fianco del Capo di Stato Maggiore e Ministro della Difesa, General Abdel Fattah al-Sisi, il colpo di stato che ha deposto il Presidente Mohamed Morsi, regolarmente eletto nelle elezioni del giugno 2012.
Uno strano colpo di stato, salutato da milioni di manifestanti in festa. Che gli stessi Stati Uniti non hanno voluto definire tale, per evitare immediate ripercussioni sul programma di aiuti militari al paese, che ammonta a 1,3 miliardi di dollari all’anno.
Le nuove proteste di Piazza Tahir di questi giorni hanno espresso, oltre alla mobilitazione dei gruppi di opposizione più tradizionali anche l’esasperazione di masse popolari sempre più vaste, schiacciate dalle privazioni e dalla mancanza di prospettive. Una nuova protesta saldatasi intorno al gruppo giovanile Tamarod (Ribellione).
Non è ben chiaro quale strada sceglieranno ora i Fratelli Musulmani, la formazione politica che aveva espresso il deposto presidente, i cui massimi dirigenti sono stati messi agli arresti. Essi hanno dichiarato che non prenderanno parte ai tentativi di formare un nuovo governo di unità nazionale, e hanno indetto una giornata di protesta contro l’intervento dell’esercito. Ma hanno fatto appello ad una protesta pacifica e disarmata (contrariamente ai salafiti, che hanno invece minacciato il ricorso alla lotta violenta e al terrorismo, in connessione anche con gruppi qaedisti).
Chi parla di fine dei Fratelli Musulmani, comunque, fa un conto sbagliato. Essi sono stati fuori legge per decenni, durante il periodo nasseriano e post nasseriano, ma hanno saputo radicarsi nella società, per poi riemergere come il primo partito dopo la caduta di Mubarak. Ora certamente hanno subito un duro colpo, e escono drammaticamente indeboliti dallo scontro con l’opposizione laica e con l’esercito.
La causa essenziale del loro fallimento è stata l’incapacità di governare, unita alla demagogia e alla bramosia di potere. Il crollo della lira egiziana ne è stato l’indice impietoso. Vano ogni tentativo di modificare il sistema di sostegno indifferenziato al prezzo dei generi di prima necessità, dai viveri alla benzina, che continua a drenare impietosamente le riserve valutarie: le proposte di sostituirlo con interventi rivolti solo agli strati più bisognosi della popolazione si bloccavano per il timore delle proteste, dopo tutte le promesse populiste fatte in campagna elettorale.
Parallelamente, si arenava il prestito di 4,3 miliardi di dollari del Fondo Monetario internazionale; il turismo, fonte essenziale di entrate, crollava di oltre il 20%, a causa delle condizioni generali di insicurezza determinatesi; la paralisi si estendeva gradualmente a larga parte del sistema produttivo.
D’altronde il governo non sarebbe stato comunque in grado di intervenire efficacemente su quella ampia sacca di privilegio e di strutture obsolete, che ingessa larga parte dell’economia egiziana: lo impediva tra l’altro il compromesso raggiunto da Morsi nell’agosto 2012 con i “giovani ufficiali”, in cambio della destituzione della vecchia guardia guidata dal Maresciallo Tantawi. Esso garantiva il mantenimento dei più corposi privilegi economici e sociali di cui l’esercito gode e di cui non vuole certo privarsi: esso controlla direttamente oltre il 30 per cento dell’economia del paese, e fruisce di un sistema di welfare, che va dalle abitazioni, ai circoli ricreativi e sportivi, alle ville e alle case di vacanza, ad un sistema sanitario riservato, privilegi che non costituiscono solo uno status symbol, ma garantiscono un livello di vita e un potere sulla società non facilmente rinunciabili.
Fu proprio quel compromesso, tuttavia, che permise a Morsi di insediarsi nella pienezza dei suoi poteri, segnando un punto di svolta. Egli a quel punto ritenne di poter fare a meno dell’alleanza con l’opposizione di Piazza Tahir, di cui aveva avuto bisogno fino a quel momento, per contenere le pressioni delle forze armate.
I Fratelli Musulmani si avviavano così verso un approccio sempre più esclusivo nella concezione e nella gestione del potere, testimoniato dal processo di elaborazione della nuova Costituzione, che veniva formulata da una assemblea costituente a forte predominanza islamica, elaborata con un approccio non inclusivo e imposta con un contestato referendum nel dicembre 2012, malgrado le massicce e anche violente manifestazioni della opposizione.
È da quel momento, probabilmente, che comincia il riavvicinamento tra l’opposizione laica e l’esercito, memore della eredità nasseriana, e l’inizio della parabola discendente di Morsi, conclusasi con la sua deposizione.
Dopo la nomina dell’incolore giurista Adly Mansour come presidente ad interim, si parla ora di Mohamed El Baradei come del nuovo possibile premier. Si tratta di una personalità certo non forte. Ma chiunque sarà, si troverà comunque di fronte agli stessi problemi, con la disperazione di quella popolazione che è scesa in piazza in questi giorni e che sarà alimentata, e non più contenuta, dalla rabbia e dal desiderio di rivalsa dei Fratelli Musulmani e dei gruppi salafiti. E dovrà anche fare i conti con quello stesso esercito che lo avrà insediato al potere, e continuerà come sempre a presidiare il suo feudo economico e sociale. Un esercito che si è sentito nuovamente costretto a intervenire, e ora si sente più forte e determinante: probabilmente non vorrà esercitare direttamente il potere, ma difficilmente rinuncerà nuovamente a controllare e a influire pesantemente sulle scelte pubbliche e di governo. Un esercito che è parte del problema, non ne è la sua soluzione.
Janiki Cingoli
Uffingtonpost del 5/07/2013
Editoriali
La Stampa 04/07/2013
Le Primavere fra ideali e povertà
è un approccio che ha spinto a guardare con occhio diverso, e maggiore attenzione, a partiti e fazioni fondamentaliste solo in ragione delle loro vittorie nelle urne. Ma la previsione di Al Thani ed Erdogan non si è avverata al Cairo. E questo è avvenuto non per un rifiuto ideologico dell’Islam né perché i Fratelli Musulmani hanno tentato di imporre a ritmi accelerati su una società in gran parte liberale e laica modelli culturali fondamentalisti. Il fallimento di Mohammed Morsi ha origine altrove: nell’incapacità del suo governo di dare risposte, veloci ed efficaci, alla crisi economica che sta devastando la più popolosa, antica e orgogliosa nazione del mondo arabo. Ironia della sorte vuole che un partito islamico come i Fratelli Musulmani, con la stessa vocazione per il sostegno alle fasce più povere della popolazione che accomuna Hamas a Gaza e gli Hezbollah in Libano, una volta arrivato a governare l’Egitto non sia riuscito ad evitare un aumento della povertà rispetto agli ultimi anni dell’autocrazia di Hosni Mubarak. Le esitazioni sulla trattativa con il Fondo monetario internazionale per la concessione dei prestiti, l’incapacità di evitare la fuga degli investimenti stranieri da una gestione instabile del governo, il crollo inarrestabile delle riserve valutarie, la carenza di protezione nelle strade testimoniata dalle frequenti aggressioni contro le donne e l’incapacità di impedire alle tribù beduine di spadroneggiare nel Sinai hanno trasformato i 29 mesi passati dalla caduta di Mubarak in un vortice di povertà e insicurezze che ha allontanato i turisti stranieri, polverizzato le risorse nazionali e accresciuto gli stenti di una nazione abituata a guidare il mondo arabo. E’ la desolazione delle piramidi egizie la cartina tornasole del peggioramento della crisi egiziana che ha messo in luce i gravi limiti dell’azione dei governi dei Fratelli Musulmani.
Generata in Tunisia nel gennaio 2011 da proteste alimentari, continuata contro Mubarak e Gheddafi nella richiesta di migliori condizioni di vita, esplosa in Siria in opposizione allo strapotere economico della famiglia degli Assad, la Primavera araba continua a nutrirsi della necessità di milioni di famiglie arabe di emanciparsi dalla povertà e dal sottosviluppo come dell’aspirazione ad una vita migliore da parte delle nuove generazioni. L’interrogativo che resta senza risposta riguarda quali saranno i leader e le forze, politiche o religiose, arabe e musulmane, capaci di rispondere a tali istanze facendo prevalere la necessità concreta di premiare i bisogni delle famiglie sulle opposte ideologie che continuano a combattersi da Tangeri a Hormuz.
Egitto, “Morsi agli arresti domiciliari”
Il governo: in corso un golpe militare
L’Egitto precipita nel caos dopo che oggi è scaduto
l’ultimatum dell’esercito al presidente. Mentre gli elicotteri militari
sorvolano piazza Tahrir, la tv indipendente el Hayat ha diffuso la
notizia - che, al momento, non trova ancora conferme ufficiali - secondo
cui il presidente Mohamed Morsi è stato posto agli arresti domiciliari
dai militari nella sede della guardia repubblicana al Cairo. Le forze di
sicurezza egiziane hanno imposto il divieto di espatrio al numero uno
dei Fratelli Musulmani. il suo consigliere della sicurezza nazionale ha
detto che il golpe militare è iniziato e che si attende che l’esercito e
la polizia ricorreranno alla violenza per deporre Morsi. Anche la
polizia ha fatto sapere di essere accanto all’esercito, di sostenere la
legittimità del popolo, e che proteggerà i manifestanti pacifici e non
permetterà nessun sopruso.
La resistenza disperata
Tutto meno che la resa, e nessuna sostanziale concessione alle forze di opposizione, accusate anzi di ostruzionismo: questo in sintesi il tenore del comunicato con cui il presidente Mohamed Morsi ha cercato di giocare d’anticipo sul filo di lana rispetto alla scadenza dell’ultimatum di 48 ore, impartito l’altroieri agli ambienti politici egiziani alle Forze Armate. «La Presidenza della Repubblica», si legge nella nota, pubblicata sul proprio account FaceBook, «concepisce un governo unitario di coalizione», ma «temporaneo» e «fondato sulla partecipazione nazionale», il quale «sovrintenda alle prossime elezioni parlamentari e vigili sulla fase che si prepara». Poco dopo voci non verificate hanno iniziato a parlare di arresti domiciliari per Morsi.
Piazze piene
Al Cairo la situazione sembra poter precipitare da un momento all’altro. Carri armati sono stati schierati fuori dalla sede della tv statale egiziana. Il personale che non sta lavorando alle dirette è stato evacuato. Le piazze della rivolta sono stracolme. La presidenza egiziana ha postato sulla sua pagina facebook un comunicato nel quale ribadisce che «violare la legittimità costituzionale minaccia la pratica della democrazia». Morsi appare sempre più isolato. Le defezioni si susseguono con il passare delle ore. L’ultimo a lasciare è stato il governatore di Giza, che fa parte della grande Cairo: ha presentato le dimissioni in seguito ai sanguinosi incidenti avvenuti davanti all’università del Cairo, che hanno provocato 18 morti secondo l’ultimo bilancio.
“Meglio morire”
Per Mohamed Morsi «è meglio morire» piuttosto che «essere condannato dalla storia e dalle generazioni future»: lo ha ribadito Ayman Ali, portavoce del controverso leader islamista del quale le forze di opposizione reclamano le dimissioni. Anche gli altri attori in campo usano la retorica. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha scritto su Facebook che «l’esercito giura su Dio che sacrificherà anche il proprio sangue per difendere l’Egitto e il popolo dai terroristi e dagli idioti». Insomma: se i Fratelli Musulmani sono pronti a morire per il paese insomma, i soldati non sono da meno. Nel clima di attesa e di confusione la Jamaa Islamiya, movimento integralista che sostiene Morsi, prima ha affermato, tramite uno dei suoi esponenti più noti Tarek el Zumar, di essere favorevole ad un referendum su elezioni anticipate, per smentire poco dopo in un comunicato dell’organizzazione.
Il bilancio degli scontri
Mentre il paese tira le somme degli scontri della notte scorsa quando dopo il discorso televisivo del presidente Morsi centinaia di suoi sostenitori sono scesi in strada per “difendere con il sangue” (come aveva appena detto Morsi) la legittimità del voto, si avvicina la scadenza dell’ultimatum militare, fissata per le 16,30 di oggi. Il bilancio è di almeno 16 morti e 200 feriti e questa volta non nel remoto sud del paese ma nella capitale, davanti all’università del Cairo, dove fino a stamattina presto si sono affrontati islamisti e forze di polizia. Il movimento Tamarod (quello che ha raccolto 22 milioni di firme contro Morsi accendendo di fatto la seconda rivoluzione egiziana) ha messo su internet una sorta di clessidra, il MorsiTimer (http://morsitimer.com/), che sostituisce simbolicamente il MorsiMeter con cui nei mesi scorsi erano state valutate le promesse disattese del presidente (solo 10 dei 64 obiettivi promessi per i primi 100 giorni di mandato sono stati rispettati). In questo momento mancano poco meno di 7 ore al big bang.
I Fratelli Musulmani al capolinea
I Fratelli Musulmani fanno quadrato ma sono in difficoltà serissima. Pochi minuti dopo le parole di Morsi il suo gabinetto ha postato su Twitter una sconfessione scrivendo che se ne discostava e prendeva le parti del popolo. L’ennesima defezione dal presidente dopo l’abbandono di 13 tra segretari, portavoce e ministri, in fuga dalla nave che affonda. La piazza dal canto suo, festeggia a oltranza. Comunque finisca - anche se la violenza dovesse dilagare - la percezione è che gli odiati Fratelli Musulmani sono finiti. Tra gli attivisti circola la notizia secondo cui ieri il potente businesman Kheirat al Shater avrebbe confessato ai suoi il timore che se venissero estromessi oggi dal potere i Fratelli non lo riotterrebbero più per almeno mezzo secolo. In realtà parecchi nell’opposizione afferrano bene la contraddizione del trincerarsi dietro l’esercito che, per quanto lo neghi, procede, come nel caso di Mubarak, a colpi di golpe. Un inizio non promettente per chi sogna da liberal e accetta metodi non esattamente democratici. Ma, per ora, domani è un altro giorno.
Bachelet trionfa alle primarie in Cile. La rivincita è a un passo
L'ex "presidenta" conquista il 73 per cento dei voti nella consultazione interna alla coalizione di centrosinistra e incassa l'endorsement dei comunisti di Camila Vallejo, idolo delle proteste di piazzaHa stravinto con oltre il 73 per cento dei voti la prima battaglia, quella delle primarie dell’ex Concertación che oggi si chiama Nueva Mayoría e adesso Michelle Bachelet è già in pole position per vincere la “guerra” delle presidenziali, in programma il prossimo 17 di novembre. Cambia il nome della coalizione di centro-sinistra ma anche la sostanza visto che questa volta, a differenza di quattro anni fa, il candidato sarà socialista, la Bachelet appunto, e non un democristiano “debole” come Eduardo Frei. Inoltre non ci sarà nessuna sorpresa da sinistra come fu nel 2009 Marco Enríquez-Ominami, il socialista ribelle che si assicurò il 20 per cento dei voti, togliendoli alla Concertación ed assicurando la vittoria al destrorso Sebastián Piñera.
Certo, l’ex socialista Ominami sarà presente con il suo Partito Progressista e si candiderà, senza speranza alcuna, alla Moneda ma questa volta la dispersione di voti a sinistra sarà evitata. La vera incognita “a sinistra”, infatti, l’universitaria 25enne geografa comunista Camila Vallejo, dopo un po’ di suspence, alla fine ha fatto sapere che appoggerà Michelle. E lo farà senza se e senza ma. Anche perché quest’ultima, dopo avere inserito nel programma drastiche modifiche di un sistema educativo che si regge ancora su norme dell’epoca della dittatura di Pinochet, ha ottenuto il pieno appoggio sia del movimento guidato da Camila che del Partito comunista cileno. Una novità assoluta nel panorama politico cileno.
«L’educazione sarà un diritto sociale e non un bene di consumo», ha detto la Bachelet più volte nelle ultime settimane, parole che sono state un miele per le orecchie della Vallejo. Solo per questo questo la bella Camila, che in precedenza aveva detto «non appoggerò mai la Bachelet» ha cambiato la sua posizione, appoggiata in questo dal movimento studentesco di cui è la leader più carismatica.
Proprio per questa capacità d’inglobare gran parte del voto giovanile di protesta – che sarà decisivo per vincere il prossimo 17 novembre – oltre ad Ominami e agli altri candidati “minori”, Michelle Bachelet non dovrebbe avere soverchi problemi a farsi eleggere per la seconda volta in meno di 10 anni alla presidenza del Cile. Il suo principale avversario sarà l’ex ministro dell’Economia di Piñera, Pablo Longueira ma, dopo quattro anni di presidenza Piñera e con un gradimento crollato sotto il 30 per cento dopo il “boom” momentaneo guadagnato grazie alla visibilità offertagli dal salvataggio cinematografico dei 33 minatori di San José, la destra è oggi in enorme difficoltà.
Fallito il tentativo di incolpare la Bachelet per i ritardi nei soccorsi dopo il terribile terremoto del 27 febbraio 2010, non pervenuto il tentativo (ammesso che ci sia mai stato) di dialogare con gli studenti, scesi in sciopero i minatori scontenti per la scarsa sicurezza e aumenti salariali mai arrivati, a meno di cataclismi oggi non all’orizzonte Michelle Bachelet dovrebbe sconfiggere facilmente Longueira a novembre. Anche perché il candidato dell’Udi, l’Unione democratica indipendente, oltre ad essere un pinochettista della prima ora, non sembra possedere né il carisma né le idee della sua rivale.
La cui sfida principale sarà, una volta eletta, la riforma di quella costituzione di Pinochet che promulgata nel 1980, ancora oggi regge e regola la vita, politica e sociale, dei cileni. Anche e soprattutto per fare questa riforma storica il partito comunista appoggia in toto Michelle Bachelet. Resta da vedere se la candidata di Nueva Mayoría riuscirà a vincere la sfida più difficile per lei, che non è tornare alla Moneda ma riformare una Carta Magna “figlia” della dittatura.
Medio Oriente, l’Onu accusa Israele: “Minori palestinesi detenuti torturati”
Il comitato per la difesa dei diritti dei bambini: "Violenze e maltrattamenti. Totale impunità dei soldati riconosciuti responsabili". Il ministero degli Esteri di Tel Aviv: "Dossier stilato con fonti secondarie e non verificate"
di Luca Pisapia
Il Fatto Quotidiano 2 luglio 2013
In un rapporto del 14 giugno il Comitato dell’Onu per la difesa dei diritti dei bambini accusa lo stato di Israele di violenze e torture sistematiche nei confronti dei minori palestinesi detenuti, usati anche come scudi umani. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Ygal Palmor ha risposto che questo dossier è stato stilato “attraverso fonti secondarie, non verificate, e che non c’è stata richiesta di collaborazione”, citando poi il Rapporto dell’Unicef del marzo scorso come esempio di correttezza. Eppure, le conclusioni dell’Unicef, che ha scritto di “maltrattamenti, diffusi, sistematici e istituzionalizzati” ai danni dei minori palestinesi sono molto simili a quelle dell’Onu. E i numeri pure: si parla di almeno 7mila minori palestinesi (tra i 12 e i 17 anni, ma qualcuno anche di 9 anni) arrestati da Israele negli ultimi 10 anni.
Nel rapporto l’Onu esprime “profonda preoccupazione circa i maltrattamenti e le torture ai bambini palestinesi arrestati, processati e detenuti da parte della polizia e dei militari israeliani”. E descrive una vera e propria odissea della violenza. Innanzitutto i minori, spesso fermati nei territori occupati con l’accusa di aver lanciato pietre contro i soldati israeliani o i coloni, rischiano pene fino a 20 anni di carcere. I minori arrestati sono circa 2 al giorno e, una volta fermati, “sono ammanettati in maniera violenta e sono loro bendati gli occhi, poi vengono trasferiti in luoghi sconosciuti a genitori e parenti” scrive l’Onu. E a quel punto “le accuse nei loro confronti sono lette in ebraico, una lingua che ovviamente non conoscono, e sono loro fatte firmare confessioni scritte, anche queste in ebraico”, senza rispettare la Convenzione dei diritti del fanciullo, che Israele stesso ha ratificato nel 1991.
“Metodi violenti che sono perpetrati dal momento stesso dell’arresto, passando per la fase del trasferimento e gli interrogatori – continua l’Onu – con lo scopo di ottenere una confessione, anche in maniera del tutto arbitraria”, aggiungendo che ad ammetterlo sono stati diversi soldati israeliani. Secondo il rapporto, che utilizza i numeri del rapporto dell’Unicef del marzo scorso, oggi si trovano nei centri di detenzione militare 236 minori palestinesi: 44 dei quali con meno di 16 anni. Oltre a minacce di morte, sia nei loro confronti che di specifici membri dello loro famiglie, questi minori sono anche oggetto di “umiliazioni, come l’impedire di andare in bagno per lunghi periodi”, e di “prolungate deprivazioni di cibo e di acqua”. Poi il resoconto dell’Onu si fa scioccante quando, a proposito di ragazzini e ragazzine spesso non ancora adolescenti, è scritto che “subiscono sistematiche violenze fisiche, verbali e anche sessuali”.
Più in generale, il rapporto dice che ai bambini palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania è negata la registrazione dell’atto di nascita, l’accesso al sistema giudiziario, a scuole decenti, e anche l’accesso all’acqua potabile. Un altro aspetto sottolineato dall’Onu è la totale impunità dei soldati israeliani riconosciuti responsabili comportamenti violenti nei confronti dei minori. Alcuni militari israeliani che sono stati ritenuti colpevoli di avere utilizzato un bambino di 9 anni per fargli aprire una valigetta, che sospettavano contenesse esplosivo, sono stati sospesi solo per tre mesi. Mentre non avrebbero ricevuto alcuna punizione molti dei soldati che utilizzano bambini come scudi umani, o legandoli sui carri armati dell’esercito, o per entrare in edifici potenzialmente pericolosi: di questi, 14 casi sono stati segnalati solo tra gennaio 2010 e marzo 2013.
La Stampa 01/07/2013 -
il paese ripiomba nell’incubo del febbraio 2011
L’ultimatum dell’esercito a Morsi
“48 ore per dare risposte al popolo”
AP
Gli egiziani sono tornati a protestare in piazza Tahrir
Obama: “Aiuti solo se cessa la violenza”. Gli attivisti chiedono elezioni anticipate. Arrestate
15 guardie del corpo del numero
due della Fratellanza musulmana
15 guardie del corpo del numero
due della Fratellanza musulmana
In una dichiarazione letta alla televisione di stato, il comando generale dell’esercito ha ribadito la richiesta che le “domande della popolazione sianno soddisfatte” e ha concesso (a tutti i partiti) «due giorni di tempo, come ultima possibilità, per assumersi la responsabilità delle circostanze storiche che il Paese sta vivendo». Quella che finora è stata una calma tesa ha fatto salire il livello di preoccupazione anche all’estero. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha rivolto un appello «a tutte le parti» affinché diano «prova di moderazione». Poi ha precisato che gli aiuti all’Egitto arriveranno solo se sarà rispettata la legge, se il governo ascolterà l’opposizione e se non sarà usata la violenza.
TORNA LA TENSIONE
L'Egitto si infiamma ancora, folla oceanica
contro il presidente Morsi. Lui: «Non vado via»
Piazza Tahrir cuore della manifestazione per chiedere le dimissioni del presidente egiziano. Nel Paese scontri da giorni
Un manifestante a piazza Tahrir (Afp/Guercia)
Oramai una c'è una folla oceanica a piazza Tahrir al Cairo, dove decine di migliaia di persone hanno raggiunto le migliaia di altri che vi hanno trascorso la notte in vista della grande manifestazione organizzata dal movimento popolare Tmarod (ribelle) per chiedere le dimissioni del presidente Mohammed Morsi, sventolando il cartellino rosso, simbolo della necessità di cacciare il capo dello Stato. Altri manifestanti si preparano a marciare verso il palazzo presidenziale. I sostenitori di Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, sono invece riuniti da sabato sera davanti ad una grande moschea nella parte orientale della capitale egiziana. La manifestazione di oggi, nel primo anniversario delle elezione di Morsi, rappresenta il culmine di una campagna di opinione che è andata crescendo negli ultimi giorni, con scontri che hanno già causato sette morti (e in cui è stato ucciso un ragazzo americano). P
roteste anti-Morsi sono già cominciate anche ad Alessandria, nelle città del delta del Nilo (Menuf, Mahalla), in quelle sul Canale di Suez, a Port Said, e anche nella città natale di Morsi, Zagazig. La polizia e i soldati sono schierati vicino ai principali edifici e il ministero della Sanità ha preannunciato che gli ospedali sono in allerta. Fonti della sicurezza hanno reso noto inoltre che in tutto il Paese sono state fermate 413 persone armate che volevano infiltrarsi nelle manifestazioni. Al grido di «Morsi, vattene», in vari punti del Cairo sono partite le marce dirette a piazza Tahrir e al palazzo presidenziale. Nella capitale intanto è salito a 46 il numero delle persone armate arrestate. Terminata la giornata lavorativa e affievolita la calura, è andato via via aumentando il numero di egiziani nelle strade di tutto il Paese: gli organizzatori - che considerano la giornata un momento decisivo per le sorti del Paese- sperano che, entro la serata siano milioni le persone nelle strade. Intanto Morsi si mostra per nulla intimidito: «Ci possono essere dimostrazioni ma non si può mettere in discussione la legittimità costituzionale di un presidente eletto», ha detto il presidente egiziano in una lunga intervista al quotidiano britannico The Guardian, una delle rare concesse a un media straniero.
IL PRESIDENTE ACCUSA L'ANCIEN REGIME - «Se cambiassimo qualcuno eletto secondo la legittimità costituzionale, ci sarà qualcuno che si opporrà anche al nuovo presidente e una settimana o un mese dopo chiederanno anche a lui di dimettersi», ha detto il primo presidente dei Fratelli musulmani al Guardian. «Non c'è spazio di discussione su questo punto. Ci possono essere manifestazioni e le persone possono esprime la loro opinione ma il punto cruciale è l'applicazione della Costituzione», ha insistito. Morsi ha quindi accusato «i resti dell'ancien regime» per le violenze dei giorni scorsi, che hanno preso di mira sedi della Fratellanza. «Hanno i mezzi, che hanno ottenuto con la corruzione e li usano per pagare teppisti e così scoppia la violenza». «È stato un anno difficile, molto difficile e penso che gli anni a venire lo saranno ancora, ma spero di fare sempre il mio meglio per soddisfare i bisogni del popolo egiziano», ha concluso Morsi.
22 MILIONI DI FIRME - Gli organizzatori di Tamarod hanno annunciato di aver raccolto 22 milioni di firme per la destituzione di Morsi, otto milioni in più dei voti ottenuti dal presidente al voto dello scorso anno. «Sentiamo di aver raggiunto un'impasse, con il Paese che sta crollando. Questo non perché il presidente appartenga alla Fratellanza Musulmana, o perché sia una sola fazione a governare, quanto perché il regime è stato un completo fallimento», ha sintetizzato Mohammed el Baradei, uno dei leader dell'opposizione, in un messaggio video diffuso nella notte. «La gente ha votato per Morsi, ma ora dice di voler tornare alle urne», ha aggiunto l'ex capo dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea), esortando gli egiziani a scendere in strada per protestare.
Editoriali
La Stampa 30/06/2013
Perché Putin lancia la sfida a Obama
La lunga sosta nell’area di transito di
Sheremetyevo di Edward Snowden – responsabile delle clamorose
rivelazioni del “Datagate” - ha palesemente esasperato Washington, già
irritata per la sospettata complicità di Pechino con la mancata risposta
delle autorità di Hong Kong alla richiesta di estradizione di quello
che per il governo americano è oggi un traditore da catturare e
giudicare.
Il superamento della Guerra Fredda, per gli americani uno storico successo da preservare, viene oggi messo in dubbio da tutta una serie di episodi che fanno emergere un atteggiamento di aperta e spesso aggressiva sfida russa alla politica e agli interessi degli Stati Uniti.
Mosca continua ad appoggiare e rifornire di armi Assad, collabora solo parzialmente con le sanzioni occidentali all’Iran, continua ad opporsi con molta intransigenza ai piani americani per lo schieramento di un sistema antimissile in Europa, ha bloccato, dopo denunce di maltrattamenti ai minori, le adozioni di bambini russi da parte di coppie americane. E non mancano le polemiche a livello politico-ideologico, con aspre critiche di Putin e di alti esponenti governativi alla pretesa americana di giudicare la politica interna russa e in particolare di fornire sostegno a Ong indipendenti, oggi obbligate da nuove disposizioni di legge a registrarsi come «agenti stranieri».
No, la Guerra Fredda non sta ritornando. Mancano alcuni presupposti fondamentali: la contrapposizione di due ideologie globali; la forza militare dell’Unione Sovietica; la sua proiezione a livello mondiale ivi inclusa la capacità di stabilire alleanze «anti-imperialiste» con i rivoluzionari dei Paesi in via di sviluppo.
Eppure quello che sta accadendo è importante, significativo e certo non superficiale. Dietro alle odierne contrapposizioni e polemiche vi sono fattori profondi che hanno a che vedere tanto con la politica interna russa che con le relazioni internazionali. Sono fattori che hanno preso corpo fin dalla prima fase della Russia post-sovietica, di quel periodo che in un diffuso sentire popolare sono gli umilianti anni di Eltsin: un periodo caratterizzato non solo dal virtuale collasso delle strutture dello Stato (con pesanti fenomeni di caos economico, miseria diffusa e insicurezza per i cittadini) ma anche dalla accettazione di una storica sconfitta, con il corollario di un passivo riconoscimento dell’egemonia americana. Mi colpì, nei colloqui che ebbi a Mosca nel 2000 con esperti di politica internazionale, il tono esasperato, quasi rabbioso, con cui – parlando di quel periodo umiliante – mi si ripeteva: «mai più».
Alla fine degli Anni 90 Vladimir Putin si è proposto, ed è stato accettato da un’ampia maggioranza dei cittadini, come il dirigente capace di riaffermare ordine interno e dignità internazionale attraverso un progetto politico che vede queste due dimensioni come profondamente legate. L’autodefinizione usata dagli ideologi del «putinismo», democrazia sovrana, appare al riguardo molto significativa nella misura in cui lega in modo originale (e inquietante per chi ha a cuore il pluralismo e teme il nazionalismo autoritario) assetto politico interno e proiezione internazionale. Sovranità dello Stato-nazione nel mondo, ma anche del Potere nel Paese.
Nell’ultimo secolo non sono certo mancati in Russia profondi rivolgimenti: dallo zarismo al comunismo alla democrazia pluripartitica; dalla rivoluzione del 1917 alla fine dello Stato, e del sistema, sovietico nel 1991. Ma la continuità nel modo di concepire il potere è piuttosto impressionante e si vede oggi, ad esempio, come il problema del rispetto dei diritti umani in Russia non dipendesse esclusivamente dal comunismo.
Putin ha dato certamente priorità all’ordine interno – fra l’altro «spezzando le reni» agli oligarchi non allineati – ma nello stesso tempo deve costantemente dimostrare che, anche dopo la fine del bipolarismo Usa/Urss, la Russia conta, la Russia deve essere ascoltata, la Russia deve essere rispettata. Visto che non è probabile che l’America riconosca la Russia come interlocutore paritario, allora creare problemi all’America è il modo più efficace per ottenere comunque il riconoscimento di uno status non secondario.
Tutto ciò ha anche una valenza di politica interna, nella misura in cui l’affermazione della «diversità russa» anche dopo l’allineamento con il capitalismo permette di mantenere un’orgogliosa rivendicazione di identità fatta di tradizione, compresa quella religiosa. Vedere in televisione Vladimir Putin con una candela in mano in occasione della celebrazione della Pasqua ortodossa dà la misura dell’importanza di questa componente. E va aggiunto che anche per chi non ha rimpianti per la fine del comunismo la fine dell’Urss, grande potenza avversaria e interlocutrice dell’America, ha lasciato la bocca amara a molti cittadini russi. Questo spiega sia la per noi incomprensibile impopolarità di Gorbaciov sia un antiamericanismo diffuso, e non solo di regime.
Chi scrive ha trascorso a Mosca, negli Anni 70, quattro anni – anni in cui quello che colpiva era la straordinaria popolarità dell’America presso la gente comune. I primi due appartamenti sovietici dove sono entrato, quello di uno studente e quello di un’anziana babysitter, avevano ciascuna una sola immagine sulla parete: lo studente aveva una foto di Ernest Hemingway e la babysitter la copertina di una rivista americana con l’immagine di John Kennedy. Non aspettiamoci oggi di trovare nelle case russe ritratti di personalità americane..
Non sarà certo facile per Washington affrontare il «problema Russia». Lo potrà fare soltanto con una sua inclusione, nella questione siriana ma non solo, e un suo riconoscimento non certo incondizionali ed indulgenti verso le derive autoritarie, ma sì rispettosi di un Paese e un popolo che – indipendentemente dalla natura del regime e dei suoi vertici – non possono rassegnarsi alla marginalità.
La Guerra Fredda non tornerà, ma a patto di evitare profezie catastrofiste, che tendono ad autorealizzarsi, e le pretese ormai oggettivamente insostenibili di egemonia unilaterale.
Il superamento della Guerra Fredda, per gli americani uno storico successo da preservare, viene oggi messo in dubbio da tutta una serie di episodi che fanno emergere un atteggiamento di aperta e spesso aggressiva sfida russa alla politica e agli interessi degli Stati Uniti.
Mosca continua ad appoggiare e rifornire di armi Assad, collabora solo parzialmente con le sanzioni occidentali all’Iran, continua ad opporsi con molta intransigenza ai piani americani per lo schieramento di un sistema antimissile in Europa, ha bloccato, dopo denunce di maltrattamenti ai minori, le adozioni di bambini russi da parte di coppie americane. E non mancano le polemiche a livello politico-ideologico, con aspre critiche di Putin e di alti esponenti governativi alla pretesa americana di giudicare la politica interna russa e in particolare di fornire sostegno a Ong indipendenti, oggi obbligate da nuove disposizioni di legge a registrarsi come «agenti stranieri».
No, la Guerra Fredda non sta ritornando. Mancano alcuni presupposti fondamentali: la contrapposizione di due ideologie globali; la forza militare dell’Unione Sovietica; la sua proiezione a livello mondiale ivi inclusa la capacità di stabilire alleanze «anti-imperialiste» con i rivoluzionari dei Paesi in via di sviluppo.
Eppure quello che sta accadendo è importante, significativo e certo non superficiale. Dietro alle odierne contrapposizioni e polemiche vi sono fattori profondi che hanno a che vedere tanto con la politica interna russa che con le relazioni internazionali. Sono fattori che hanno preso corpo fin dalla prima fase della Russia post-sovietica, di quel periodo che in un diffuso sentire popolare sono gli umilianti anni di Eltsin: un periodo caratterizzato non solo dal virtuale collasso delle strutture dello Stato (con pesanti fenomeni di caos economico, miseria diffusa e insicurezza per i cittadini) ma anche dalla accettazione di una storica sconfitta, con il corollario di un passivo riconoscimento dell’egemonia americana. Mi colpì, nei colloqui che ebbi a Mosca nel 2000 con esperti di politica internazionale, il tono esasperato, quasi rabbioso, con cui – parlando di quel periodo umiliante – mi si ripeteva: «mai più».
Alla fine degli Anni 90 Vladimir Putin si è proposto, ed è stato accettato da un’ampia maggioranza dei cittadini, come il dirigente capace di riaffermare ordine interno e dignità internazionale attraverso un progetto politico che vede queste due dimensioni come profondamente legate. L’autodefinizione usata dagli ideologi del «putinismo», democrazia sovrana, appare al riguardo molto significativa nella misura in cui lega in modo originale (e inquietante per chi ha a cuore il pluralismo e teme il nazionalismo autoritario) assetto politico interno e proiezione internazionale. Sovranità dello Stato-nazione nel mondo, ma anche del Potere nel Paese.
Nell’ultimo secolo non sono certo mancati in Russia profondi rivolgimenti: dallo zarismo al comunismo alla democrazia pluripartitica; dalla rivoluzione del 1917 alla fine dello Stato, e del sistema, sovietico nel 1991. Ma la continuità nel modo di concepire il potere è piuttosto impressionante e si vede oggi, ad esempio, come il problema del rispetto dei diritti umani in Russia non dipendesse esclusivamente dal comunismo.
Putin ha dato certamente priorità all’ordine interno – fra l’altro «spezzando le reni» agli oligarchi non allineati – ma nello stesso tempo deve costantemente dimostrare che, anche dopo la fine del bipolarismo Usa/Urss, la Russia conta, la Russia deve essere ascoltata, la Russia deve essere rispettata. Visto che non è probabile che l’America riconosca la Russia come interlocutore paritario, allora creare problemi all’America è il modo più efficace per ottenere comunque il riconoscimento di uno status non secondario.
Tutto ciò ha anche una valenza di politica interna, nella misura in cui l’affermazione della «diversità russa» anche dopo l’allineamento con il capitalismo permette di mantenere un’orgogliosa rivendicazione di identità fatta di tradizione, compresa quella religiosa. Vedere in televisione Vladimir Putin con una candela in mano in occasione della celebrazione della Pasqua ortodossa dà la misura dell’importanza di questa componente. E va aggiunto che anche per chi non ha rimpianti per la fine del comunismo la fine dell’Urss, grande potenza avversaria e interlocutrice dell’America, ha lasciato la bocca amara a molti cittadini russi. Questo spiega sia la per noi incomprensibile impopolarità di Gorbaciov sia un antiamericanismo diffuso, e non solo di regime.
Chi scrive ha trascorso a Mosca, negli Anni 70, quattro anni – anni in cui quello che colpiva era la straordinaria popolarità dell’America presso la gente comune. I primi due appartamenti sovietici dove sono entrato, quello di uno studente e quello di un’anziana babysitter, avevano ciascuna una sola immagine sulla parete: lo studente aveva una foto di Ernest Hemingway e la babysitter la copertina di una rivista americana con l’immagine di John Kennedy. Non aspettiamoci oggi di trovare nelle case russe ritratti di personalità americane..
Non sarà certo facile per Washington affrontare il «problema Russia». Lo potrà fare soltanto con una sua inclusione, nella questione siriana ma non solo, e un suo riconoscimento non certo incondizionali ed indulgenti verso le derive autoritarie, ma sì rispettosi di un Paese e un popolo che – indipendentemente dalla natura del regime e dei suoi vertici – non possono rassegnarsi alla marginalità.
La Guerra Fredda non tornerà, ma a patto di evitare profezie catastrofiste, che tendono ad autorealizzarsi, e le pretese ormai oggettivamente insostenibili di egemonia unilaterale.
Egitto
La piazza chiede le dimissioni di Morsi
INTERNAZIONALE 28 giugno 2013
Una manifestazione contro il presidente Morsi al Cairo, il 30 marzo 2013. (Mohamed Abd el Ghany, Reuters/Contrasto)
In Egitto è sempre più alta la tensione tra il governo e le forze
d’opposizione, che hanno organizzato una grande manifestazione per
domenica 30 giugno, per chiedere le elezioni anticipate e le dimissioni
del presidente Mohamed Morsi.
L’esercito ha avvertito che potrebbe intervenire se scoppieranno
violenze. Il governo è sotto accusa anche per l’uccisione di quattro
sciiti il 23 giugno a Giza, attaccati da una folla di migliaia di
persone.
Il governo ha contribuito ad alimentare le tensioni, fa notare Egypt Independent.
Scegliendo di non rispondere alle richieste dei manifestanti, ha
versato benzina sul fuoco. Ma la situazione attuale è anche frutto delle
decisioni sbagliate del passato. Un esempio tra tutti, il decreto costituzionale del 21 novembre 2012 del presidente Morsi, con il quale voleva rafforzare i suoi poteri sottraendosi al controllo del potere giudiziario.
L’opposizione però, aggiunge Egypt Independent, non è in grado di
presentare una valida alternativa al governo dei Fratelli musulmani e
continua a fare leva sull’indignazione popolare invece di proporre
riforme.
Un paese spaccato. Gli egiziani sono divisi e la
maggioranza non è soddisfatta del governo di Mohamed Morsi, ma allo
stesso tempo non ha fiducia nell’opposizione. Lo rivela un sondaggio
dell’istituto statunitense Zogby, scrive l’agenzia Inter Press Service.
L’indagine è stata condotta tra più di cinquemila
egiziani, tra aprile e maggio del 2013. Solo il 30 per cento degli
intervistati ha detto di aver fiducia nei due principali partiti
islamici, quello dei Fratelli musulmani e il partito salafita Al Nur.
Egitto, incendiata sede Fratelli Musulmani.
Quattro morti, uno è cittadino americano
Scontri per tutta la giornata nella seconda città del Paese e in altri centri. Una delle vittime è un insegnante statunitense. L'opposizione ha indetto per domenica una manifestazione per chiedere elezioni anticipate e le dimissioni di Morsi
IL CAIRO - E' alta la tensione in Egitto, dove oggi si sono registrate manifestazioni e scontri tra oppositori e sostenitori del presidente egiziano Mohammed Morsi in diverse località del Paese. La situazione è particolarmente critica ad Alessandria, dove tre persone sono morte e oltre 140 sono rimaste ferite: una delle vittime è un insegnante americano, rendono noto fonti mediche e della sicurezza, morto per una coltellata al petto. Si tratterebbe di Andrew Victor, 21 anni, che lavorava per il Centro culturale Usa nella città egiziana e stava facendo delle riprese video. Nel quartiere di Sidi Gaber la sede dei Fratelli musulmani è stata data alle fiamme.In occasione della festività settimanale del venerdì, molte migliaia di persone sono tornate in strada per dimostrare rispettivamente contro oppure a favore del presidente. Si sono registrate manifestazioni anche a Il Cairo e incidenti in diverse città del Delta del Nilo.
La tensione è stata ulteriormente inasprita dall'uccisione, la notte scorsa, di un altro sostenitore di Morsi, il quinto nell'arco di meno di una settimana secondo i Fratelli Musulmani, cui fa riferimento lo stesso capo dello Stato. Ad Alessandria, seconda città del Paese, almeno 36 dimostranti sono rimasti feriti nei tumulti tra fazioni avverse, che hanno visto coinvolte anche le forze di sicurezza.
L'opposizione laica e secolarista ha organizzato per domenica una manifestazione con l'intento di reclamare elezioni anticipate e costringere Morsi a dimettersi. La situazione è diventata talmente grave
Il Sudafrica che sogna un Mandela eterno
per continuare a vivere unito e in pace
Le grandi contraddizioni di un Paese tenuto insieme da un incantesimo, quello che la figura di Madiba getta intorno a sé, e che teme che la sua scomparsa distrugga definitivamente il patto sociale che ha tenuto insieme ricchezza e povertà estreme. Cnn e Cbs: "Viene tenuto in vita artificialmente"
dal nostro inviato PIETRO VERONESEJOHANNESBURG - A vedere le cose da Sandton, lussuosa zona residenziale e commerciale a nord di Johannesburg, Nelson Mandela è già morto. Secondo grandi network come Cnn e Cbs, viene tenuto in vita artificialmente. Il presidente Zuma ha annullato il viaggio in Mozambico.
A Sandton Madiba, come tutti lo chiamano con affetto qui, è irrigidito in un monumento di dimensioni e stile nordcoreani, anche se offerto in segno d'amicizia dalla Svezia. Sorride da sei metri d'altezza in uniforme da ergastolano, in mezzo a un concentrato di boutique esclusive, di gioiellerie e negozi di hi-tech, insomma del più scintillante shopping mall che l'Africa si possa concedere.
Poco lontano, alle sue spalle, c'è il nuovo edificio della Borsa, costruito nel 2000; a un chilometro e mezzo di distanza in linea d'aria, ma dalla parte opposta, seminascosto in un grande avvallamento, l'agglomerato di baracche di Alexandra, uno dei più poveri della vastissima area metropolitana di Johannesburg. Non c'è forse luogo in tutto il Sudafrica che meglio illustri il patto sociale proposto dal ventennio di governo dell'African National Congress: si arricchisca chi può, all'ombra benedicente di un Mandela ridotto a un'icona ai cui piedi si combinano affari miliardari.
Il patto sociale oggi si sta sgretolando: si sono arricchiti in troppo pochi. A Sandton ci sono le concessionarie dell'Aston Martin e della MacLaren; ad Alexandra ci sono sempre le baracche. E Nelson Mandela, a 95 anni quasi compiuti, sta combattendo la sua ultima battaglia nel Mediclinic Heart Hospital di Pretoria, un ricovero che dura dall'8 giugno, con i bollettini che negli ultimi quattro giorni sono passati da "grave ma stabile" a "in condizioni critiche".
È una miscela che impasta e fa lievitare lo scontento collettivo. Se ne annuncia una manifestazione plateale per dopodomani, quando Barack Obama sbarcherà in Sudafrica per una visita di Stato di tre giorni e sarà accolto da una marcia contro l'ambasciata americana a Pretoria, al grido di "NObama!". Il principale organizzatore è la potente confederazione sindacale Cosatu, oltre due milioni di iscritti, alleata del partito di governo; accanto alla Cosatu il Partito comunista, anch'esso alleato dell'African National Congress, con dei ministri nel gabinetto presieduto dal presidente Jacob Zuma.
Obama sarà dunque al tempo stesso ospite di Stato e bersaglio della protesta orchestrata da forze legate a doppio filo al governo. Un goffo tentativo di spostare la colpa delle promesse economiche non mantenute dall'inefficacia della politica governativa all'"imperialismo" dell'economia globalizzata.
È questa coincidenza - il rinnovarsi di segnali allarmanti sull'umore profondo del Paese e l'ineluttabile allontanarsi di Mandela dalla vita - che può forse spiegare l'atteggiamento contraddittorio dei sudafricani."Lasciamolo andare", è giusto così, dicono in tanti; ma poi esprimono voti per il suo "pronto ristabilimento". "Guarisci, tata", scrivono in molti chiamandolo "papà" sui bigliettini che lasciano davanti all'ospedale o alla sua casa vuota di Johannesburg. Anche se è sempre più chiaro a tutti che la guarigione dai suoi malanni polmonari e dalle ricorrenti crisi respiratorie non ci sarà.
"Mi rattrista molto che non lo si voglia lasciare riposare", ha detto a Repubblica Mamphela Ramphele, in questi giorni la donna più in vista del Sudafrica, che fu la compagna di Steve Biko, martire della lotta anti-apartheid, e oggi a 65 anni, dopo una luminosa carriera accademica e alla Banca Mondiale, ha deciso di fondare un nuovo partito per combattere "la corruzione, il nepotismo e il clientelismo" di cui accusa l'African National Congress. "Ha dato al Paese tutto quello che poteva dare. Ci stiamo comportando come dei figli avidi, che non vogliono lasciar riposare il padre".
L'invito a "lasciar andare" Mandela è stato formulato, fin dall'indomani di questo suo ultimo ricovero, da un suo vecchio amico e compagno di lotta e di prigionia, Andrew Mlangeni, 86 anni. La sua intervista fece la prima pagina del Sunday Times sudafricano ed è stata poi più volte citata. La questione non è affatto banale, perché - come ha spiegato molto bene la giornalista della Bbc Pumza Fihlani - questa decisione morale è profondamente radicata nella cultura tradizionale. "Siyakukhulula tata", "ti lasciamo andare, padre", è la formula in lingua xhosa con la quale si sciolgono gli anziani ammalati dai loro vincoli terreni. Una specie di permesso di morire, una liberatoria con la quale i vivi assolvono il morente dai suoi residui obblighi. Una frase che nessuno osa ancora pronunciare per il vecchio, sofferente Madiba.
Per questo l'arcivescovo emerito Desmond Tutu ha scritto di essere "preoccupato perché non ci stiamo preparando, come nazione, per quando accadrà l'inevitabile". Per questo ancora due giorni fa l'onnipotente ministro della Pianificazione Trevor Manuel si è sentito in dovere di rassicurare gli investitori internazionali e le Borse che "non c'è da preoccuparsi per quando Mandela non ci sarà più".
Il Sudafrica non appare ancora pronto a "lasciarlo andare". Anche se è un uomo di 95 anni, sfinito da una vita meravigliosa, difficile, enorme, che già da 15 anni è lontano da ogni impegno pubblico, fuori da tutto. Eppure il suo incantesimo è vivo; ed è come se i sudafricani temessero che, scomparso lui, svanisca anche l'incantesimo che contro ogni profezia di sventura ha tenuto il loro Paese unito e prospero fino ad oggi.
Bosnia-Erzegovina: La primavera di Sarajevo
Internazionale 20 giugno 2013
Luca Bonacini
Internazionale 20 giugno 2013
Luca Bonacini
Il caso della bimba che non ha potuto essere curata
all’estero per un problema giuridico ha fatto nascere un movimento
civile che supera le divisioni etniche. Per il paese potrebbe aprirsi
una nuova stagione.
La pressione dal basso e la volontà politica dall'alto: forse questa è la soluzione per quadrare del cerchio bosniaco. Il movimento di protesta civile
che si è diffuso di recente in Bosnia-Erzegovina, associato a
un'evoluzione positiva della situazione nella regione, potrebbe
provocare dei cambiamenti determinanti nel paesi più complesso dell'ex
Jugoslavia [la Bosnia-Erzegovina è organizzata sul principio della
distinzione etnica ed è composta dalla Federazione croato-musulmana e
dalla Repubblica serba di Bosnia].
All'inizio di giugno alcune centinaia di cittadini di Sarajevo sono
scesi in piazza per esprimere il loro malcontento nei confronti di
un'aberrazione prodotta dagli accordi di Dayton [che nel 1995 hanno
messo fine alla guerra con la divisione etnica della Bosnia-Erzegovina].
Il caso di una neonata malata è stata la goccia che ha fatto traboccare
il vaso. Infatti la piccola Belmina Ibrisević non ha potuto andare a
farsi curare in Germania perché i politici del paese non sono riusciti a
mettersi d'accordo sul numero di identificazione nazionale. In assenza
di questo numero non è stato possibile consegnare il passaporto.
Dal 12 febbraio nessun neonato ha potuto ottenere un numero di
immatricolazione amministrativo. In segno di protesta i cittadini si
sono raccolti davanti al parlamento del governo centrale e lo hanno
circondato. In questo modo sono riusciti a obbligare i loro
rappresentanti a consegnare il passaporto alla bambina malata attraverso
una procedura d'urgenza. Ormai a Sarajevo si parla di "Beboluzione" (la
rivolta dei bebè). Dall'11 giugno decine di migliaia di persone hanno
bloccato il traffico a Sarajevo per chiedere la soluzione del problema
dei numeri di identificazione e più in generale un'apertura del paese
all'Europa.
Nonostante il divieto di manifestare, a Banja Luka [la capitale della
Repubblica serba di Bosnia] sono stati gli studenti universitari a
scendere in piazza per difendere i loro diritti. Gli studenti hanno
protestato anche a Mostar. In un paese profondamente diviso dal punto di
vista etnico, sta nascendo un movimento civico. Nel frattempo si
assiste a dei cambiamenti storici tra i vicini della Bosnia-Erzegovina:
la Croazia è sul punto di aderire all'Unione europea [il 1° luglio sarà
membro dell'Ue], mentre i serbi rinunciano al progetto della Grande
Serbia. I nazionalisti di Belgrado hanno fatto un enorme passo in avanti
firmando lo storico accordo sulla normalizzazione del Kosovo.
Vatican Insaider 21/06/2013
Brasile, la Chiesa abbraccia la protesta
La nota dei vescovi: "Solidarietà ai manifestanti, ma condanna di qualunque violenza"
GIACOMO GALEAZZI
CITTA' DEL VATICANO
CITTA' DEL VATICANO
La Chiesa brasiliana condivide le proteste di piazza. I vescovi del
paese latino americano, in una nota pubblicata ieri, si sono espressi
con queste parole: "Dichiariamo la nostra solidarietà e sostegno alle
manifestazioni, quando pacifiche, che hanno portato per le strade la
gente di tutte le età, soprattutto giovani. Si tratta di un fenomeno che
coinvolge il popolo brasiliano e risveglia una nuova coscienza.
Richiede attenzione e comprensione per identificare i loro valori e
confini, sempre con l'obiettivo di costruire la società giusta e
fraterna che desideriamo".Per i vescovi si tratta di manifestazioni giuste, nate
spontaneamente, soprattutto fra i giovani e sostenute dalla rete. E’ una
reazione di risveglio di fronte a problemi non risolti e non
affrontati, come "la corruzione, l'impunità e la mancanza di
trasparenza".
Il messaggio dei prelati conferma la posizione della chiesa: No alla
violenza! No alle manifestazioni e proteste violente e no alla violenza
contro i manifestanti e contro i giovani.
L’invito della Conferenza Episcopale si rivolge a tutti perché “la
soluzione dei problemi del popolo brasiliano è possibile solo con la
partecipazione di tutti”. “Tutti, anche nella protesta, devono
rispettare l'ordine, il bene comune, i beni di tutti e la pace, ma il
grido del popolo deve essere ascoltato!”, conclude la nota
In particolare secondo il vescovo ausiliare di Belo Horizonte Joaquim
Mol, presidente della Commissione episcopale per l’educazione e la
cultura “occorre identificare i valori evangelici sottostanti le
manifestazioni ed esplicitarli nel loro aspetto propulsivo per un mondo
migliore”.
João Carlos Petrini, vescovo di Camaçari e presidente della
commissione Vita e Famiglia sostiene che le manifestazioni “aprono la
strada ai nuovi evangelizzatori” poiché evidenziano le speranze di
cambiamento che trovano la loro risposta in Gesù Cristo.
Luiz Majella Delgado, vescovo di Jataí e presidente della regione
Centro Ovest, insiste affinché la parola della Chiesa arrivi alle
parrocchie e alle comunità nelle messe di fine settimana.
Intanto la vittoria contro i rincari delle tariffe dei trasporti
pubblici non ferma gli indignados brasiliani. Una doppia vittoria per i
manifestanti scesi nuovamente in strada per far sentire la propria voce
anche contro le faraoniche spese per le opere dei Mondiali di calcio del
2014 e gli altri grandi eventi sportivi che hanno tolto risorse vitali a
settori storicamente arretrati come sanità, istruzione e trasporti. Se è
vero che la prima vittoria degli indignados brasiliani è stata forse la
più piccola, essa ha certamente un altissimo valore simbolico. In un
Paese dove il popolo non scendeva in strada dalla fine della dittatura,
nel 1985, e dall'impeachment del presidente Fernando Collor de Mello,
nel 1992, quei 20 centesimi - come si leggeva in un cartello esposto dai
manifestanti nel primi giorni delle proteste - "sono come gli alberi
del Gezi Park di Istanbul".
Il Movimento Passe Livre, che si batte per l'abolizione del biglietto
sui mezzi pubblici, ha convocato attraverso i social network nuove
manifestazioni di piazza in una ottantina di grandi e piccole città del
gigante sudamericano alle quali hanno già aderito su Facebook oltre un
milione di persone. Il malcontento dei brasiliani non si placa dunque,
come era prevedibile, solo con la riduzione di 20 centesimi del
biglietto di bus, metro e treni nelle grandi metropoli come San Paolo e
Rio de Janeiro, e in decine di altre città minori, che hanno risposto
prontamente all'appello lanciato dalla presidente Dilma Rousseff ad
«ascoltare la voce della protesta».
Appello lanciato dopo le imponenti manifestazioni di lunedì scorso
che hanno visto l'occupazione simbolica del parlamento nazionale a
Brasilia e assalti a colpi di molotov e bastoni ai parlamenti statali di
Rio e San Paolo. La prima, simbolica vittoria sembra aver dato nuovo
slancio alla protesta, che sta canalizzando il malcontento popolare in
piazza anziché nelle sezioni di partito o nelle sedi dei sindacati. Un
fenomeno nuovo per il Brasile, che ha colto di sorpresa anche il governo
progressista di Dilma, che sta cercando di correre ai ripari. Il
presidente nazionale del Partito dei lavoratori (Pt, di sinistra) di
Dilma e del suo predecessore Lula, Rui Falcao, ha infatti annunciato a
sorpresa che scenderà in piazza con i manifestanti a San Paolo. «Non
abbiamo paura del popolo nelle strade, stiamo consigliando ai nostri
iscritti di unirsi alla manifestazione», ha detto Falcao, fingendo di
ignorare che il movimento di protesta rifugge da qualsiasi etichetta
politica e scende in piazza anche per denunciare la corruzione dei
partiti, compreso il Pt. Falcao sa di rischiare, ma non intende
desistere: «Andiamo per dialogare», assicura.
La leggenda del pianista sulla piazza di Istanbul
Dopo le prime note di ,
la signora Guler, madre di Ezgi, una bellissima studentessa appena
laureata in Pedagogia all’Univesità di Istanbul, inizia a piangere in
silenzio. Le lacrime bagnano la mascherina bianca ancora sulla bocca.
Poi, quando suona l’ultima strofa della
canzone pacifista più famosa del mondo, tre poliziotti rimasti
incantati dall’apparizione del musicista italo-tedesco , mettono a terra i fucili caricati con pallottole di gomma.
ImagineDavide Martellonel bel mezzo di piazza Taksim sotto assedio
“Davide
Martello rimarrà per sempre nei miei ricordi come il vero eroe della
nostra protesta”, dice con gli occhi lucidi Ayge, una trentacinquenne
con un master in economia, mentre il marito Damon, un afroamericano che
insegna inglese in un liceo privato, annuisce con un gran sorriso:
“Quest’uomo, assieme alla mamma di mia moglie e a tutte le altre madri
che sono venute a sostenere i loro figli invece di supplicarli di
lasciare Gezi e tornare a casa, come aveva consigliato loro Erdogan, ci
hanno salvati. Davide e queste signore sono i nostri eroi ma quel che ha
fatto questo giovane uomo è incredibile sotto tutti gli aspetti”. Quel
che ha fatto il pianista italo-tedesco, un ragazzone nato a Costanza da
genitori originari di Caltanissetta, è stato caricare il pesante
pianoforte a coda sul suo furgone e guidare no stop dalla Germania alla
Turchia per portare solidarietà con la sua musica ai manifestanti di Occupygezi.
Sembra la trama di un film fantasy o una canzone ironica e malinconica
di Paolo Conte. E infatti quando Davide era comparso con il suo
pianoforte l’altra notte sembrava un miraggio. Qualcuno si domandava se
oltre ai gas lacrimogeni e agli spray al peperoncino, la polizia non
avesse usato anche qualche sostanza “stupefacente” o un gas sconosciuto
in grado di scatenare un’allucinazione collettiva.
Altri invece si
domandavano se quindici notti insonni passate in tenda e sotto la
pioggia, sommate al terrore che la polizia ripetesse ciò che aveva fatto
due sere prima nell’attigua piazza Taksim, non gli avessero dato al
cervello. “Davide e il suo pianoforte sembravano irreali, era come se un
alieno fosse sceso in mezzo a noi per portare un po’ di pace in questo
mondo ingiusto e ci è riuscito. Eravamo tutti terrorizzati, compresa mia
mamma che era venuta con tante altre a sostenerci, ma quando ha
iniziato a suonare ci ha calmati e dopo qualche minuto ci sentivamo
sollevati”, ricorda Bulent, uno studente del liceo linguistico che
presta servizio volontario nella libreria allestita a Gezi dai
manifestanti. Perché Davide Martello ha suonato tutta la notte, compresa una versione swingata di Bella Ciao,
la colonna sonora di questi quindici giorni che hanno mostrato il lato
oscuro della Turchia di Erdogan. “Dopo aver visto le immagini di queste
persone pacifiche, di questi ragazzi che lottano per la libertà e per la
natura, attaccate così brutalmente, ho sentito il bisogno di stargli
vicino come so fare. Con la musica”.
Sudafrica, ucciso in una sparatoria
il sindacalista che difendeva i minatori
Sale
nuovamente la tensione nella miniera di platino Marikana in Sudafrica
Aggredito
con un collega a Marikana da un commando di uomini armati
Un
responsabile del sindacato minatori sudafricano Num è stato ucciso ed un altro
ferito in un attacco di uomini armati a Marikana, teatro nell’agosto scorso di
violenti incidenti in cui la polizia uccise 34 minatori. «Uno dei nostri membri
è stato attaccato a colpi di arma da fuoco in un nostro ufficio nella miniera
Lonmin della Western Platinum», ha detto un portavoce della Num aggiungendo che
l’uomo è morto in seguito alle ferite riportate. L’altro è ricoverato in
ospedale.
La Stampa 04062013
Turchia,
fine di un’epoca
Bernard Guetta: giornalista francese esperto di politica
internazionale
Internazionale 3 giugno
2013
Le rivoluzioni arabe e le manifestazioni in Turchia
sono fenomeni molto diversi. Non stiamo assistendo a una “primavera di
Istanbul”, ma l’esplosione del malcontento nei confronti della maggioranza
islamica costantemente al potere dal 2002 rappresenta comunque un segnale
inquietante per il governo.
Non si tratta della crisi di un regime, perché la
Turchia è una repubblica parlamentare e nessuno contesta la regolarità delle
tre elezioni che hanno permesso al Partito per la giustizia e lo sviluppo
(Akp), di assumere e mantenere il controllo del paese. Inoltre l’economia turca
è in pieno boom, e la crescita del paese è paragonabile a quella della Cina. In
dieci anni il reddito medio è triplicato, e la fiducia nel futuro è talmente
alta che i figli dell’emigrazione del dopoguerra partono dalla Germania, dalla
Francia e dall’Olanda per tornare in patria, dove riescono a trovare lavoro più
facilmente che nei paesi dell’Unione europea grazie alle loro competenze e al
loro multilinguismo.
In Turchia, infatti, la disoccupazione dei giovani
diplomati non è affatto un’emergenza, diversamente da quanto accadeva (e accade
ancora) nei paesi arabi, dove è stata una delle principali cause delle
rivoluzioni. Ma allora perché il progetto di un centro commerciale in un parco
di Istanbul ha provocato una reazione così forte in tutto il paese?
La risposta è semplice: la Turchia (quella delle
città, ma non solo) è un paese infinitamente più moderno e progressista di
quanto non lo sia l’Akp del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. Prodotto
dell’islamismo, il partito ha saputo ottenere il sostegno della maggioranza
della popolazione mettendo da parte ogni tentazione teocratica e accettando la
laicità scolpita nella costituzione da Kemal Atatürk negli anni venti, quando
il governo ha addirittura vietato il velo nelle amministrazioni e nelle scuole.
Contemporaneamente l’Akp ha cavalcato l’aspirazione nazionale di entrare a far
parte del’Unione europea e in questo modo, oltre alle classi sociali più basse,
ha conquistato anche gli industriali, sedotti dal suo liberalismo economico, e
una parte della classe media rivolta all’Europa, che nel partito ha visto un
mezzo per sbarazzarsi del potere politico dell’esercito.
In passato l’Akp e la Turchia hanno vissuto una luna
di miele, ma ora le cose sono cambiate. Gli “islamo-conservatori”, infatti,
hanno accettato la democrazia e la separazione tra religione e stato, ma non
hanno rinunciato al loro conservatorismo estremo e all’autoritarismo incarnato
dall’attuale primo ministro. Il dialogo e la consultazione sono concetti
sconosciuti a Erdoğan, convinto di poter fare ciò che vuole perché eletto dal
popolo. L’Akp pensa ancora che la sua missione sia quella di restituire alla
religione il ruolo che ha perduto e di ripristinare le vecchie usanze
combattendo l’aborto, il consumo di alcol e l’interdizione del velo.
Questo approccio però non rispecchia i desideri di una
società giovane, europea e in gran parte laica. La vicenda del parco
sacrificato al cemento ha scatenato lo scontro, mostrando improvvisamente una
rabbia collettiva che unisce i giovani e tutte le opposizioni nella lotta
contro l’autoritarismo, il puritanesimo e lo strapotere del denaro.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Iraq, è stato un maggio di sangue:
più di 1.000 morti, record dal 2008
Il bilancio tiene conto di civili, poliziotti e militari, ma non di terroristi e insorti. La provincia di Baghdad la più colpita. L'allarme delle Nazioni Unite ai leader iracheni: "Agire in fretta". Smantellata cellula di al Qaeda, produceva e contrabbandava armi chimiche
BAGHDAD - Maggio in Iraq è stato il
mese più sanguinoso dal 2008. Secondo le Nazioni Unite, 1.045 persone
sono state uccise e 2.397 ferite in 560 casi di attentati o attacchi di
insorti. Un'ondata di violenza inaudita che non si registrava
dall'aprile del 2008, quando erano morte oltre 700 persone e le truppe
Usa erano ancora sul terreno.
La provincia di Baghdad risulta la più colpita, con 532 morti e 1.285 feriti. A rendere così drammatico il bilancio, che include vittime civili, poliziotti e militari, ma non terroristi o insorti, hanno contribuito le violenze esplose lo scorso dicembre con le proteste della comunità sunnita contro il governo sciita di Nouri al-Maliki.
Nella maggior parte dei casi responsabili degli attentati sono i miliziani di al-Qaida e altri gruppi terroristici sunniti. Ma una serie di attcchi alle moschee sunnite nelle ultime settimane, in cui sono morte oltre 100 persone, dimostrano che anche gli sciiti stanno imboccando la strada della violenza. Un segnale poco incoraggiante per un Paese che ancora non riesce a tornare alla normalità dopo anni di guerra e dimostra quanto sia fragile la pace raggiunta.
Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Iraq, Martin Koppler, ha fatto appello a tutti i leader politici iracheni perché "agiscano in fretta per fermare questo spargimento di sangue insopportabile". Per far fronte alla drammatica situazione, le autorità hanno imposto il blocco completo delle licenze temporanee per le automobili a Baghdad, nella speranza di limitare l'utilizzo di macchine imbottite di esplosivo e hanno chiuso al traffico alcune strade della Capitale.
Armi chimiche per attentati in Europa e Usa. Il ministero della Difesa iracheno ha inoltre annunciato che le forze di polizia hanno smantellato un gruppo di al Qaeda che stava fabbricando armi chimiche per attentati in Europa e in Nord america. Il gruppo, composto da cinque persone, era formato da due cellule, una delle quali si occupava di produrre i veleni, mentre l'altra forniva le istruzioni e coordinava il lavoro per contrabbandare le armi chimiche all'estero.
La provincia di Baghdad risulta la più colpita, con 532 morti e 1.285 feriti. A rendere così drammatico il bilancio, che include vittime civili, poliziotti e militari, ma non terroristi o insorti, hanno contribuito le violenze esplose lo scorso dicembre con le proteste della comunità sunnita contro il governo sciita di Nouri al-Maliki.
Nella maggior parte dei casi responsabili degli attentati sono i miliziani di al-Qaida e altri gruppi terroristici sunniti. Ma una serie di attcchi alle moschee sunnite nelle ultime settimane, in cui sono morte oltre 100 persone, dimostrano che anche gli sciiti stanno imboccando la strada della violenza. Un segnale poco incoraggiante per un Paese che ancora non riesce a tornare alla normalità dopo anni di guerra e dimostra quanto sia fragile la pace raggiunta.
Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Iraq, Martin Koppler, ha fatto appello a tutti i leader politici iracheni perché "agiscano in fretta per fermare questo spargimento di sangue insopportabile". Per far fronte alla drammatica situazione, le autorità hanno imposto il blocco completo delle licenze temporanee per le automobili a Baghdad, nella speranza di limitare l'utilizzo di macchine imbottite di esplosivo e hanno chiuso al traffico alcune strade della Capitale.
Armi chimiche per attentati in Europa e Usa. Il ministero della Difesa iracheno ha inoltre annunciato che le forze di polizia hanno smantellato un gruppo di al Qaeda che stava fabbricando armi chimiche per attentati in Europa e in Nord america. Il gruppo, composto da cinque persone, era formato da due cellule, una delle quali si occupava di produrre i veleni, mentre l'altra forniva le istruzioni e coordinava il lavoro per contrabbandare le armi chimiche all'estero.
Usa, Francia e Israele avevano chiesto alla Russia di bloccare la fornitura
Siria, Assad: «Arrivati i missili dalla Russia»
Il presidente: «Arrivato il primo carico di S-300. Presto altra fornitura». Israele: «Pronti a intervenire»
La Siria ha ricevuto il primo carico relativo a un avanzato sistema di difesa aerea russo e riceverà presto i restanti missili S-300. Lo ha detto lo stesso presidente siriano Bashar al-Assad, citato da un quotidiano libanese. «La Siria ha ricevuto il primo carico di razzi anti-aereo russi S-300», ha detto Assad, secondo il giornale al-Akhbar, in un'intervista video al canale tv al-Manar - emittente del movimento sciita libanese Hezbollah. La Russia aveva reso noto che avrebbe consegnato il sistema missilistico al governo siriano nonostante le obiezioni occidentali, affermando che l'iniziativa avrebbe contribuito a stabilizzare la regione. Usa, Francia e Israele avevano chiesto alla Russia di bloccare la fornitura.ISRAELE: PRONTI A RISPOSTA - Secondo le autorità israeliane, i missili S-300 potrebbero raggiungere il territorio dello Stato ebraico e minacciare anche i voli da e per Tel Aviv. Martedì il ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon, ha definito una minaccia il piano di Mosca di fornire questo tipo di armi alla Siria e aveva suggerito che Israele sarebbe pronto a usare la forza per fermare la consegna.
CONFERENZA INTERNAZIONALE - Mosca, alleata del governo di Assad, sembra aver assunto una posizione sempre più provocatoria dopo che la Ue, nei giorni scorsi, ha abbandonato l'embargo sulle armi, aprendo così alla possibilità di rifornire i ribelli che cercano di abbattere il regime. Secondo il giornale libanese, Assad pensa di partecipare alla conferenza internazionale sulla Siria, patrocinata da Stati Uniti e Russia per una soluzione politica al conflitto siriano, anche se non è molto convinto della sua utilità, e dice che comunque continuerà a combattere contro la guerriglia. Per la conferenza, ha però sottolineato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, «non c’è ancora una data stabilita».
HEZBOLLAH - Il presidente Assad ha anche sottolineato i legami tra le proprie forze e i militanti Hezbollah che combattono apertamente sia sul territorio siriano che al confine tra Siria e Libano. «Siria e Hezbollah fanno parte dello stesso asse», ha detto Assad, rispondendo alle critiche della comunità internazionale. Una presenza condannata dal Dipartimento di Stato americano, che ne ha chiesto il ritiro immediato in quanto «estremamente pericolosa».
Premiato a Cannes film palestinese "Omar"
il regista Hani Abu Assad sposta il racconto dell'occupazione dall'iconografia più tradizionale al territorio invisibile dell'animamartiri però. Così sparano a un soldato israeliano e lo ammazzano provocando soltanto repressione.Gli israeliani gli stanno addosso e arrestano Omar, lo torturano con violenza, sigarette sui genitali, coltelli, lui resiste ma si fa scappare un «io non confesserò mai» al compagno di cella che ovviamente è il capo degli israeliani. A quel punto per non restare tutta la vita in galera ha una sola possibilità: uscire e consegnargli colui che credono essere l'assassino del soldato ma facendo il doppio gioco. Omar ha un punto debole, Nadia, la ragazza che ama più di ogni cosa, e l'amore in quella realtà è molto pericoloso.
Hany Abu Assad, rivelato da Paradise Now, fa parte di quella generazione
di cineasti palestinesi che cercano di confrontarsi col conflitto
mediorientale da prospettive eccentriche e mai scontate Accadeva nel
primo suo film, Paradise Now appunto, in cui due amici passano la sera
insieme prima di compiere un attentato suicida a Tel Aviv, finendo per
rigettare il fondamentalismo, e accade in questo Omar (Certain Regard,
si è guadagnato il premio della giuria) dove il racconto
dell'occupazione si sposta dall'iconografia più «tradizionale», al
territorio invisibile dell'anima.
Cosa è il quotidiano di vive
nel recinto di un muro, con gli slogan gridati nelle orecchie, qualcuno
che dispone della tua vita e la necessità di mostrarsi eroi? Basta meno
per diventare pazzi, e difatti Omar impazzisce. L'amata sedotta con i
versi lo lascia per Ahmjad perché lui è un traditore - come è riuscito
infatti a farsi liberare dagli israeliani? E poi è pure incinta
dell'altro, che tiene gli occhi bassi e a sua volta ha tradito ma chi
tradisce chi sembra essere una specie di catena senza scampo. A questa
strategia della paranoia è dedicato il film, rivelata attraverso il
progressivo spaesamento del personaggio Omar, la cui vita finirà per
essere
manipolata dagli israeliani che gli mettono sotto la pelle
persino una sonda che ne segue i movimenti. È questa forma di controllo,
subdolo, quasi introiettato, manipolato dal fondamentalismo, sembra
diventare per Assad una delle ragioni primarie della sconfitta
palestinese.
Almeno in quel progetto politico di leggerezza rivoluzionaria che negli
anni si è appesantito di ideologie del controllo - un po' come Omar che
non riesce più a saltare dall'altra parte sul muro. La Palestina aperta
di sensibilità avanzata degli anni settanta non c'è più distrutta da
Israele che ne ha ammazzato i suoi leader e dalle divisioni interni,
fino al trionfo di un pensiero macho dell'onore da difendere, che
impedisce di guardare oltre. Se Omar perde la sua donna è perché non ha
la capacità di una visione oltre le apparenze della verità. Quella che
fa comodo per far credere al paradiso, o a qualcosa di simile, poco
rivoluzionaria, molto pericolosa. Nena News
il Manifesto 28 maggio 2013
il Manifesto 28 maggio 2013
Nasrallah: "Hezbollah combatte in Siria.
Se cade Assad, Israele invaderà il Libano"
Il leader della milizia sciita conferma quanto già rilevato sul campo: la presenza della guerriglia libanese al fianco delle truppe regolari siriane contro gli "estremisti islamici"
BEIRUT - Il leader del gruppo
libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha detto che i suoi militanti non
resteranno inattivi mentre il suo alleato, la Siria, è sotto attacco.
Nasrallah ha dichiarato che i membri di Hezbollah stanno combattendo in
Siria contro estremisti islamici che costituiscono un pericolo per il
Libano. E' la prima volta che il leader conferma pubblicamente che i
suoi uomini stanno combattendo in Siria. Ha detto che decine di migliaia
di estremisti islamici da tutto il mondo sono stati mandati in Siria
per combattere il regime, ma Hezbollah invia "pochi" combattenti ed è
accusata di intervenire nel conflitto.
Nasrallah ha detto di avere "contattato il presidente siriano Assad e membri dell'opposizione per trovare una soluzione, ma Assad ha accettato, mentre l'opposizione ha detto no". "I Takfiri (cioè I 'fanatici religiosi', ndr) sono la componente prevalente nell'opposizione", ha sostenuto Nasrallah, accusando gli Usa di sostenerli. "Parte dell'opposizione all'estero ha una visione ed è pronta al dialogo, mentre altri lavorano agli ordini del Pentagono". Hezbollah "non può rimanere fermo", ma deve aiutare la Siria che è il suo "principale sostenitore": "se la Siria cade nelle mani dei fanatici religiosi (gli insorti Takfiri) e degli Usa, Israele entrerà in Libano".
Nasrallah ha detto di avere "contattato il presidente siriano Assad e membri dell'opposizione per trovare una soluzione, ma Assad ha accettato, mentre l'opposizione ha detto no". "I Takfiri (cioè I 'fanatici religiosi', ndr) sono la componente prevalente nell'opposizione", ha sostenuto Nasrallah, accusando gli Usa di sostenerli. "Parte dell'opposizione all'estero ha una visione ed è pronta al dialogo, mentre altri lavorano agli ordini del Pentagono". Hezbollah "non può rimanere fermo", ma deve aiutare la Siria che è il suo "principale sostenitore": "se la Siria cade nelle mani dei fanatici religiosi (gli insorti Takfiri) e degli Usa, Israele entrerà in Libano".
Attacco a Kabul, gravissima una funzionaria italiana
La donna è una dipendente dell'Organizzazione internazionale per le Migrazioni. Nell'attacco dei talebani finora hanno perso la vita tre persone
Sono “molto critiche” le condizioni della funzionaria italiana
ferita negli attacchi di stamattina nel centro di Kabul. Dopo la
Farnesina, che in primo tempo aveva invece parlato di una situazione non
grave, lo ha confermato il coordinamento italiano di Emergency, nel cui
ospedale nella capitale afgana la donna è stata trasportata e
ricoverata.
«A noi risulta che le condizioni della ferita italiana sono molto
critiche», ha dichiarato a Tgcom24 un componente del coordinamento
ufficio umanitario di Emergency, Rossella Miccio, «Non presenta ferite
da armi da fuoco ma ustioni».
La funzionaria è una dipendente dell’Oim, l’Organizzazione
internazionale per le Migrazioni, ha annunciato da Ginevra un portavoce
dell’organizzazione. Feriti anche «tre nepalesi incaricati della
sicurezza hanno riportato ferite lievi causate da lanci di granate”, ha
dichiarato il portavoce dell’organnizzazione Chris Lom, che non ha
saputo dire se fosse proprio l’Oim l’obiettivo dell’attacco.
Il centro di Kabul è stato colpito da un attacco senza precedenti da
un anno a questa parte. Un gruppo di ribelli talebani ha fatto esplodere
un’autobomba prima di asserragliarsi – armi in pugno – in una zona dove
si trovano le sedi di organizzazioni internazionali, tra cui appunto
l’Oim. Le autorità hanno finora segnalato la morte di tre ribelli, un
kamikaze e due uomini armati uccisi dalle forze governative. Si ritiene
che siano sei o sette i ribelli ancora barricati.
Sì di Assad alla conferenza per la pace
Damasco accetta di sedere al tavolo di Ginevra per una soluzione politica
E l’opposizione siriana rimane divisa
Millimetro dopo millimetro, fra mosse tattiche e segnali di fumo diplomatici, si iniziano a intravedere i possibili contorni della Conferenza di pace che Usa e Russia hanno deciso di convocare a Ginevra in giugno per porre fine al bagno di sangue siriano.
Il governo di Damasco, ha annunciato oggi Mosca, in linea di principio è pronto a partecipare a “Ginevra 2”. L’opposizione, sempre divisa, si orienta a sua volta a essere presente. D’altronde non ci sono alternative, a meno di lasciare spazio all’avversario. A Istanbul la Coalizione nazionale siriana, formata prevalentemente da forze islamiche e considerata da diversi paesi occidentali e islamici la componente principale dell’opposizione, è riunita fino a domani per decidere come procedere. La Coalizione per ora esprime riserve, e chiede che la conferenza di Ginevra parta con un mandato negoziale che preveda come preliminare a una fase di transizione l’uscita di scena di Assad. Il presidente siriano però negli ultimi giorni ha nuovamente escluso di lasciare prima delle presidenziali del 2014, sfidando l’opposizione al confronto nelle urne.
«Finiremo con l’andare a Ginevra», ha previsto senza entusiasmo oggi a Istanbul un delegato. Una opinione condivisa da Burhan Ghaliun, considerato uno dei favoriti nell’elezione del nuovo presidente, domani, in sostituzione del dimissionario Moaz al Khatib. A conferma delle sempre forti divisioni interne non ha raccolto consensi a Istanbul la proposta di piano per una transizione da portare a Ginevra avanzata dal moderato al Khatib.
Il presidente uscente ieri ha offerto un salvacondotto a Assad se lascerà il Paese cedendo il potere al vicepresidente Faruk al Shara o al premier Wael al Halki, che dovrebbero gestire per 100 giorni la prima fase di transizione. Quella di al Khatib «è solo una sua personale opinione», è sbottato Louay al Safi, candidato alla presidenza con l’attuale leader ad interim George Sabra e l’attivista Ahmed Tumeh Kheder. La linea intransigente in vista di Ginevra della Coalizione è criticata da Randa Kassis, uno dei leader dell’opposizione laica, presidente del Movimento della società pluralista. «Non si può andare a un negoziato dicendo all’altra parte discuto solo la tua uscita o la tua morte», avverte, sottolineando che Assad «è ancora forte». Per Kassis la Coalizione è condizionata dall’esigenza di non essere scavalcata dai capi militari che combattono sul terreno.
Il segretario di stato Usa John Kerry e il capo della diplomazia russa Sergei Lavrov si vedranno lunedì a Parigi per aggiungere nuovi tasselli al precario mosaico di Ginevra. Mentre l’Iran oggi ha avvertito attraverso il suo ambasciatore ad Ankara Alireza Bikdeli che se «l’opportunità storica» di Ginevra 2 fallirà, la Siria rischia di diventare un «nuovo Afghanistan». Sempre lunedì a Bruxelles i ministri degli Esteri Ue parleranno dell’embargo sulle armi all’opposizione. Oxfam ha diffidato l’Europa dal revocarlo: sarebbe «irresponsabile», ha avvertito, «avrebbe «conseguenze devastanti» per la popolazione civile.
Sul terreno intanto si combatte sempre la “madre di tutte le battaglie” attorno alla città strategica di Qusayr, fra Damasco, la “regione alawita” e il Libano. I ribelli sono in difficoltà davanti ai governativi appoggiati dagli Hezbollah. La riconquista di Qusayr sarebbe una dimostrazione di forza di Damasco prima di Ginevra 2. Mentre i ribelli hanno denunciato oggi per l’ennesima volta l’uso di armi chimiche da parte del regime che, a loro dire, avrebbe attaccato con i gas la cittadina di Adra, nella periferia di Damasco, causando 4 morti e 50 intossicati. Denuncia che non è possibile verificare con fonti indipendenti.
la Stampa 24 maggio 2013
L’Iraq rischia una nuova guerra
22 maggio 2013 La Stampa
“A dieci anni dall’invasione statunitense del paese, sciiti, sunniti e curdi non sono riusciti ancora a trovare una soluzione politica stabile e condivisa per amministrare il paese. La violenza è fuori controllo”, scrive Reuters.
Il rischio di una nuova guerra. “È stata una primavera violenta in Iraq, secondo le Nazioni Unite sono morte 712 persone solo ad aprile, che è stato il mese più cruento dal 2008. Anche se nessuno rivendica gli attentati e le bombe, la preoccupazione è che la guerra civile in Siria abbia riacceso il conflitto tra sciiti e sunniti anche in Libano e in Iraq”, commenta Time. Ma le bombe in Iraq hanno soprattutto un valore politico e denunciano l’incapacità del governo sciita di trovare un accordo con la comunità sunnita. A tutto ciò si aggiungono le tensioni tra le autorità di Baghdad e la regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel nord del paese. Secondo il quotidiano panarabo Al Hayat le proteste contro il governo di Al Maliki potrebbero finire in due modi: “O con la formazione di nuove province autonome o con una guerra”.
Le ambiguità di Al Maliki sulla Siria. Per
Foreign Policy uno dei problemi del paese è il realismo politico del primo
ministro Nuri Al Maliki che in politica estera ha posizioni ambigue,
soprattutto verso il regime di Bashar Al Assad. “Dopo la fine dell’occupazione
statunitense, l’Iraq ha cercato di ritagliarsi un ruolo strategico nella
regione, bilanciando politica estera e questioni interne. Il suo rapporto con
la Siria e con l’Iran non è slegato alle questioni di politica interna”. Al
Maliki teme che se in Siria dovessero vincere le forze dell’opposizione il
conflitto potrebbe spostarsi anche fuori dei confini siriani e coinvolgere
anche il suo paese. “Armare i ribelli siriani è come dichiarare guerra
all’Iraq, perché in qualche modo quelle armi arriverebbero in Iraq”, ha
dichiarato il ministro dei trasporti iracheno a febbraio del 2013.
Immigrazione Usa, primo sì alla legge di Obama
In Commissione Senato passa il progetto di riforma, a giugno il voto in aula poi l'esame dei depatati. Su questa legge il presidente ha basato molto della sua campagna per la rielezione, ottenendo il consenso della comunità ispanica. Undici milioni di immigrati illegali potranno chiedere la cittadinanza
Il presidente della commissione del Senato Patrick Leahy (D) con Chuck Schumer (D) e Dianne Feinstein (D) prima del voto (ap)
TAG Usa immigrazione, Riforma immigrazione, senato usa, barack obama WASHINGTON - La riforma dell'immigrazione ha superato negli Stati Uniti il primo grande ostacolo dell'iter legislativo con l'approvazione a grande maggioranza del testo da parte della Commissione Giustizia del Senato di Washington. Un voto che apre la strada all'esame del provvedimento in aula. Il Senato dovrebbe iniziare il dibattito sul testo a partire dai primi di giugno. I 18 membri della Commissione hanno approvato con 13 voti a favore e 5 contrari il testo del progetto di legge.
La legge spiana la strada verso la regolarizzazione di 11,5 milioni di clandestini residenti negli Stati Uniti, in maggioranza messicani, a condizione di pagare una multa, di non pesare sui servizi sociali e di non essere responsabili di reati gravi. Al termine di 13 anni potranno chiedere la naturalizzazione. Obama ha puntato molto su questa riforma durante la campagna per la rielezione alla Casa Bianca, e ha ottenuto il 70% del voto della comunità ispanica, ritenuto decisivo per la sconfitta di Romney.
Tre dei 10 senatori repubblicani presenti in commissione giustizia si sono uniti ai democratici nell'approvare il testo, versione emendata del progetto presentato ad aprile da di otto senatori dei due partiti. Dopo il voto nell'aula del Senato, che potrebbe arrivare a giugno, il testo passerà alla Camera dei rappresentanti, a maggioranza repubblicana, che discuterà la riforma per poi votarla entro l'estate.
Gerusalemme,
Israele caccia l'Unesco
Ieri a
sorpresa le autorità israeliane hanno cancellato la visita del team Onu,
accusando l'ANP di voler politicizzare la missione, trasformandola in
un'inchiesta.
di Emma
Mancini
Gerusalemme, 21 maggio 2013, Nena News –
Gerusalemme, 21 maggio 2013, Nena News –
La visita
della delegazione dell'Unesco a Gerusalemme non è nemmeno iniziata. Ieri, poco
prima dell'arrivo del team delle Nazioni Unite nella Città Santa, Israele ha
stracciato l'accordo stretto qualche settimana fa con cui permetteva l'ingresso
della missione dell'agenzia culturale e scientifica dell'ONU.
La missione aveva come obiettivo un'indagine sullo stato di conservazione e mantenimento dei sitistorici, religiosi e archeologici di Gerusalemme, indagine che avrebbe dovuto concludersi con una serie di raccomandazioni sulle modalità di preservazione della città. Il rapporto finale sarebbe stato presentato il primo giugno prossimo al meeting annuale del World Heritage Committee.
Ma niente da fare. Con una decisione come al solito unilaterale, le autorità israeliane hanno bloccato la visita del team Unesco, accusando la controparte palestinese di voler politicizzare l'evento. "I palestinesi non hanno rispettato gli accordi - ha detto un funzionario del Ministero degli Esteri israeliano - La visita avrebbe dovuto essere professionale, ma loro hanno preso misure per politicizzarla. Il ministro degli Esteri palestinese, Riad Maliki, ha detto di considerare la visita 'una commissione di inchiesta' e che avrebbe discusso di questioni politiche".
Quella che avrebbe dovuto iniziare ieri era la prima missione Unesco a Gerusalemme dal 2004. A premere perché l'agenzia Onu verificasse la situazione della Città Santa erano stati il governo giordano e l'Autorità Nazionale Palestinese, preoccupati per le politiche israeliane di "giudaizzazione" della città, a scapito della sua storia araba, cristina e musulmana. Politiche che hanno come target non solo i siti storici di Gerusalemme, ma anche la sua vita attuale, i suoi quartieri palestinesi e l'intera Gerusalemme Est, che da decenni subisce una dura colonizzazione da parte israeliana.
Dopo il riconoscimento della Palestina come Stato membro dell'Unesco nel 2011, Israele aveva aspramente attaccato l'agenzia delle Nazioni Unite, tagliando i fondi (insieme all'alleato statunitense) e minacciando di prendere misure volte a sospendere le relazioni diplomatiche con l'ente. In ogni caso l'Unesco non si arrende e promette: "La visita non è cancellata. È solo posposta".
La missione aveva come obiettivo un'indagine sullo stato di conservazione e mantenimento dei sitistorici, religiosi e archeologici di Gerusalemme, indagine che avrebbe dovuto concludersi con una serie di raccomandazioni sulle modalità di preservazione della città. Il rapporto finale sarebbe stato presentato il primo giugno prossimo al meeting annuale del World Heritage Committee.
Ma niente da fare. Con una decisione come al solito unilaterale, le autorità israeliane hanno bloccato la visita del team Unesco, accusando la controparte palestinese di voler politicizzare l'evento. "I palestinesi non hanno rispettato gli accordi - ha detto un funzionario del Ministero degli Esteri israeliano - La visita avrebbe dovuto essere professionale, ma loro hanno preso misure per politicizzarla. Il ministro degli Esteri palestinese, Riad Maliki, ha detto di considerare la visita 'una commissione di inchiesta' e che avrebbe discusso di questioni politiche".
Quella che avrebbe dovuto iniziare ieri era la prima missione Unesco a Gerusalemme dal 2004. A premere perché l'agenzia Onu verificasse la situazione della Città Santa erano stati il governo giordano e l'Autorità Nazionale Palestinese, preoccupati per le politiche israeliane di "giudaizzazione" della città, a scapito della sua storia araba, cristina e musulmana. Politiche che hanno come target non solo i siti storici di Gerusalemme, ma anche la sua vita attuale, i suoi quartieri palestinesi e l'intera Gerusalemme Est, che da decenni subisce una dura colonizzazione da parte israeliana.
Dopo il riconoscimento della Palestina come Stato membro dell'Unesco nel 2011, Israele aveva aspramente attaccato l'agenzia delle Nazioni Unite, tagliando i fondi (insieme all'alleato statunitense) e minacciando di prendere misure volte a sospendere le relazioni diplomatiche con l'ente. In ogni caso l'Unesco non si arrende e promette: "La visita non è cancellata. È solo posposta".
Nena News
Guatemala, annullata la condanna per genocidio a Rios Montt
AP
Rios Montt era stato giudicato colpevole il 10 maggio scorso della
morte di oltre 1.770 membri dell’etnia Maya Ixil durante il suo governo
(1982-83).
Il dittatore colpevole della morte di oltre 1700 Maya: ma la Corte costituzionale blocca la sentenza
La massima corte del Guatemala ha annullato ieri sera la condanna
per genocidio inflitta all’ex dittatore Efrain Rios Montt e riaperto il
processo a suo carico. Rios Montt era stato giudicato colpevole il 10 maggio scorso della morte di oltre 1.770 membri dell’etnia Maya Ixil durante il suo governo (1982-83). Ma la Corte costituzionale del Paese centramericano ha bocciato la sentenza per alcune irregolarità formali e riportato lo stato del procedimento al 19 aprile, data in cui ci fu una disputa tra due giudici impegnati nel processo. Al momento non è chiaro quando il procedimento contro l’ex dittatore guatemalteco dovrebbe ripartire.
la Stampa 21 maggio 2013
La Russia manda nuove armi a Damasco
La Russia ha
fornito al regime siriano dei nuovi missili cruise antinave. Una mossa che
mostra ancora una volta il suo appoggio al presidente Bashar al Assad. La
rivelazione arriva dalle pagine del New York Times, che cita fonti
militari statunitensi.
Oggi il
presidente russo Vladimir Putin ha tenuto un incontro con il segretario
generale dell’Onu Ban Ki-moon, che si è detto “preoccupato per la crescente
violenza in Siria” e ha indicato la diplomazia come “l’unica soluzione
possibile per uscire dalla crisi”.
Nel
frattempo, le Nazioni Unite continuano i loro sforzi per organizzare una
conferenza di pace internazionale sulla crisi siriana, che ha causato più di
70mila morti.
Come sono
fatti i nuovi missili. Mosca ha già fornito armi al regime siriano, ma secondo il New York Times
i nuovi missili, chiamati Yakhont, sono più potenti e sofisticati: sono
radiocomandati e progettati per la difesa da terra.
Mosca vuole
dare ad Assad un mezzo per tenere lontane le forze navali occidentali dalle
coste siriane. L’obiettivo è evitare un intervento occidentale in Siria, fa notare il corrispondente della Bbc Jonathan
Marcus, ma potrebbe anche esserci il rischio che queste armi finiscano nelle
mani dell’organizzazione libanese Hezbollah, alleata del regime.
L’internazionale
18 maggio 2013
La catastrofe palestinese
L’Internazionale 15 maggio 2013
Migliaia di
palestinesi hanno manifestato il 15 maggio nei territori occupati in occasione
del sessantacinquesimo anniversario della creazione dello stato d’Israele, una
giornata che in Palestina è chiamata Nakba: la catastrofe.
Il 14 maggio
1948, alla vigilia della scadenza del mandato britannico sulla Palestina e del
riconoscimento ufficiale da parte delle Nazioni Unite, veniva unilateralmente
dichiarata la nascita dello stato di Israele, che da allora celebra ogni anno
la festa nazionale di Yom Ha’atzmaut.
Per i
palestinesi, invece, l’evento rappresenta l’inizio dell’occupazione militare
dei loro territori: per molte famiglie ha coinciso con la perdita della propria
casa e della terra e la fuga verso i campi profughi del paese e negli stati
vicini come il Libano e la Giordania.
Una vita da
rifugiati. A Hebron e
a Ramallah, in Cisgiordania, il 15 maggio ci sono stati scontri violenti tra i
palestinesi che manifestavano e le forze di sicurezza israeliane. A Ramallah,
durante la protesta, le persone hanno innalzato dei cartelli con il nome dei
villaggi palestinesi che sono stati cancellati dagli insediamenti israeliani, racconta Reuters.
Secondo un
rapporto delle autorità di Ramallah, 5,3 milioni di palestinesi, circa la metà
dell’intera popolazione, sono rifugiati in Siria, Libano, Giordania,
Cisgiordania e a Gaza. Solo la Giordania, che ha firmato un trattato di pace
con Israele, ha concesso la cittadinanza ai palestinesi arrivati nel 1948.
Molti di loro vivono in campi affollati e privi dei servizi fondamentali.
Una pace
quasi impossibile. In
occasione della Nakba, Saeb Erekat, uno dei delegati palestinesi ai negoziati
di pace con Israele, ha dichiarato che la violenza settaria in Siria e Iraq
coinvolge anche i rifugiati palestinesi e che la pace in tutto il Medio Oriente
non è possibile se Israele “rifiuterà di assumere le sue responsabilità sulla
questione dei profughi”.
L’Autorità
Nazionale Palestinese chiede il riconoscimento di uno stato autonomo
palestinese che comprenda la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme
est. Il partito islamico Hamas rifiuta, invece, di riconoscere Israele e chiede
che i profughi palestinesi possano tornare nei loro territori.
Qual è il prezzo del “made in Bangladesh”?
L’Internazionale 16
maggio 2013
Il 24 aprile 2013 nel crollo dello stabilimento tessile Rana Plaza a
Savar, fuori Dhaka, la capitale del Bangladesh, sono morte 1.127 persone. È
stato il più grave incidente nella storia di questo settore industriale. In che
condizioni lavorano gli operai in Bangladesh? E quali responsabilità hanno le
aziende occidentali?Secondo la Banca mondiale, nel 2010 il Bangladesh è stato il paese in cui gli operai guadagnavano di meno al mondo. Lo stipendio medio di un operaio bangladese equivale a meno di 30 euro al mese, anche se alcuni stabilimenti pagano qualcosa di più per attirare manodopera.
Da una ricerca fatta da War on want, un’organizzazione non profit del Regno Unito, gli operai sono maltrattati dai datori di lavoro. Le operaie incinte in genere sono costrette a lavorare fino all’ultima settimana prima del parto e, se non perdono il posto dopo la nascita del figlio, la metà delle volte non ottengono i cento giorni di maternità previsti dalla legge.
I sindacati, che potrebbero avere un ruolo importante nella riforma del lavoro nel paese, non sono visti di buon occhio o non sono forti abbastanza da ottenere condizioni e misure di sicurezza migliori.
L’industria dell’abbigliamento in Bangladesh vale 18 miliardi di dollari. Nel 2010 le fabbriche di vestiti nel paese erano cinquemila, solo la Cina ne aveva di più.
Quasi tutti i vestiti prodotti in Bangladesh sono esportati: il settore dell’abbigliamento rappresenta il 75 per cento delle esportazioni nazionali.
La questione della sicurezza
L’edificio di otto piani del Rana Plaza era stato costruito senza rispettare le procedure previste. Ospitava cinque fabbriche di vestiti che impiegavano almeno tremila persone. Il peso che i piani dovevano sorreggere era sei volte superiore a quello previsto (stando a un esame fatto dall’Asian disaster preparedness center) e nei giorni prima del crollo si erano create enormi crepe sui muri. Nonostante questo, gli operai sono stati costretti a continuare a lavorare.
Per Scott Nova, dell’associazione statunitense Worker’s rights consortium, la spesa per rendere gli stabilimenti in Bangladesh più sicuri (cioè con uscite di sicurezza e antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma) sarebbe di tre miliardi di dollari. Cioè 8 centesimi per ogni capo d’abbigliamento prodotto.
Per le grandi aziende, che in media hanno il cinque per cento della loro produzione in Bangladesh, si tratterebbe di rinunciare a circa lo 0,4 per cento dei ricavi totali. E chi compra una maglietta si troverebbe a pagare un paio di centesimi in più.
Nei giorni scorsi il Bangladesh ha annunciato che collaborerà con l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti del lavoro, per definire regole e criteri minimi che salvaguardino i lavoratori. Ma molti mettono in dubbio l’efficacia di iniziative simili.
Nel frattempo alcune aziende europee, tra cui H&M, Benetton e Inditex (proprietario di Zara), hanno firmato un accordo per garantire condizioni di lavoro e di salario migliori nelle fabbriche che producono per loro. L’accordo prevede che le aziende s’impegnino a far compiere ispezioni indipendenti sulla sicurezza e a rendere pubblici i risultati, a coprire i costi per eventuali messe a norma, a non impegnarsi con fornitori che non rispettino degli standard prestabiliti e a coinvolgere lavoratori e sindacati nel miglioramento delle condizioni di lavoro.
(Anna Franchin)
Il processo che fa tremare i carnefici del Guatemala
L'ex
dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt condannato a ottant'anni di carcere
per il genocidio dei Maya Ixil. Il prossimo imputato potrebbe essere l'attuale
presidente Pérez Molina, generale dell'esercito ai tempi della strage In
tribunale. L'ex dittatore guatemalteco Rios Montt si difende dall'accusa di
genocidio
SAN PAOLO
DEL BRASILE – La condanna a ottant’anni di carcere dell’ex dittatore
guatemalteco Efraín Ríos Montt – emessa venerdì scorso da un tribunale del
paese centro-americano per il genocidio perpetrato durante suoi i 17 mesi di
potere assoluto contro gli indigeni dell’etnia Maya Ixil – è solo il primo atto
di una vicenda di cui sentiremo ancora parlare a lungo. Se infatti l’ex pastore
evangelico convertitosi ai crimini contro l’umanità a giugno compirà 87 anni ed
è certo che i suoi avvocati faranno di tutto per evitargli il carcere con una
serie interminabile di appelli, a tremare per questa sentenza storica sono
molti altri militari d’alto grado che all’epoca sterminarono quasi il sei per
cento dell’etnia Maya Ixil. E tra loro addirittura Otto Pérez Molina, il 62enne
ex generale che oggi guida il Guatemala.
A detta di
molti difensori dei diritti umani, infatti, lui sarebbe un “torturatore” ed un
“genocida” né più né meno di Ríos Montt. Del resto sulla testa dell’attuale
presidente del Guatemala pende una spada di Damocle non indifferente: è stato
denunciato il 5 luglio 2011 alle Nazioni Unite per questi crimini infamanti da
un gruppo di attivisti statunitensi assieme a Waqib Kej – l’associazione che
difende i diritti degli indigeni discendenti dei Maya che in Guatemala sono
circa quattro milioni –consegnando una lettera dettagliata a Juan Méndez, il
responsabile Onu sulla tortura. E non solo per loro ma anche per molte altre
ong che si battono contro l’impunità degli anni della guerra fredda, Pérez
Molina sarebbe stato coinvolto nelle «pratiche sistematiche di torture e
genocidio» durante la dittatura con annessa guerra civile che tra il 1960 e il
1996 ha fatto in Guatemala 200mila tra morti e desaparecidos.
Lui ha
sempre negato tutto. Peccato solo che, nel settembre del 1982 e, dunque, in
piena dittatura di Ríos Montt, l’allora maggiore dell’esercito Pérez Molina sia
stato filmato da un documentarista finlandese, tal Mikael Wahlforss, mentre si
aggirava nel distretto militare di Nebaj, una regione Maya dove i massacri
erano all’ordine del giorno, mentre cammina tra una fila interminabile di
cadaveri mentre alcuni militari prendono a calci i corpi senza vita di questi
poveretti.
«Prima li
abbiamo portati al maggiore Pérez Molina perché li interrogasse – testimonia un
soldato – dopo averli sentiti non gli hanno detto più nulla ed eccoli qui»,
continua il militare mentre indica la macabra fila. Nessuno, nel
documentario che inchioda apparentemente l’attuale presidente del Guatemala,
spiega come sono stati uccisi. Dal canto suo Molina, intervistato da Wahlforss,
rivela tranquillamente che si trattava di «guerriglieri comunisti».
Nonostante
questo curriculum Pérez Molina ha stravinto le elezioni dell’autunno 2011 e dal
gennaio dello scorso anno guida uno dei paesi più violenti dell’America latina,
al punto che il tasso di 47 omicidi l’anno ogni centomila abitanti ha portato
l’Onu a definire il fenomeno violenza in Guatemala una «epidemia». E allora
bene si capisce perché Pérez Molina, leader del Partido Patriota, di destra,
non ha esultato affatto dopo la condanna a ottant’anni contro Ríos Montt. C’è
da capirlo. Quando scadrà il suo mandato presidenziale, tra tre anni,
l’immunità che oggi lo protegge, la stessa che per decenni ha “salvato” Ríos
Montt, finirà. E se il Guatemala sceglierà di percorrere la stessa strada
dell’Argentina, dove i torturatori dell’ultima dittatura sono finiti quasi tutti
in galera, la posizione di Pérez Molina potrebbe, usando un eufemismo,
“complicarsi”.
europa quotidiano 15 maggio 2013
L’internazionale 13 maggio 2013
A Teheran comincia la battaglia
di Bernard Guettagiornalista francese esperto di politica internazionale.
Tutte le candidature, già molto numerose, devono ancora essere approvate dal clero – la Guida suprema e il Consiglio dei guardiani della costituzione – che adesso ha dieci giorni di tempo per pronunciarsi. Questo aspetto limita fortemente la libertà di uno scrutinio i cui risultati non saranno necessariamente più genuini di quelli del 2009, quando i brogli hanno favorito il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad (all’epoca appoggiato dalla Guida) a scapito di un candidato riformatore. Non si tratterà, insomma, di elezioni irreprensibili, ma il risultato del voto avrà comunque un’importanza capitale. Per due motivi.
Il primo è che il programma nucleare di Teheran e la crisi siriana rendono l’Iran una doppia minaccia per la stabilità internazionale. Se il governo non interromperà la sua marcia verso l’atomica, gli Stati Uniti potrebbero decidersi ad agire, se non bombardando i laboratori sotterranei iraniani almeno autorizzando l’intervento israeliano. Le conseguenti tensioni nella regione e l’aumento del prezzo del petrolio avrebbero forti ripercussioni a livello mondiale, in un momento in cui l’Iran gioca un ruolo fondamentale nella crisi siriana consentendo al regime di Bashar al Assad di tenere testa a un’insurrezione che l’occidente continua a rifiutarsi di armare.
Il secondo motivo dell’importanza del voto è che lo svolgimento e i risultati delle presidenziali espliciteranno i rapporti di forza e le dinamiche in atto a Teheran, al momento ancora difficili da valutare: come si è evoluta la società iraniana dopo le grandi manifestazioni di protesta per le elezioni truccate del 2009, soffocate dalla repressione ma anticipatrici della primavera araba ed espressione delle aspirazioni democratiche di un paese giovane, moderno e stanco della teocrazia? Le conseguenze delle sanzioni hanno esteso il malcontento della gioventù urbana alle masse popolari rimaste fuori dal movimento verde del 2009? La Guida suprema ha ancora i mezzi per controllare la campagna elettorale ora che ha perso l’appoggio di Ahmadinejad, il presidente uscente a cui la costituzione vieta di candidarsi per un terzo mandato? La campagna elettorale prefigura un’evoluzione della politica estera iraniana?
Allo stato attuale non conosciamo le risposte a questi interrogativi, ma è comunque significativo che un fine conoscitore della scena iraniana come Akbar Hachémi Rafsandjani, ex presidente che ha voltato le spalle ai conservatori, abbia deciso di candidarsi contro quello che sembra essere il candidato della Guida, Saïd Jalili. Fare pronostici è ancora prematuro, ma di sicuro assisteremo a una dura battaglia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Guatemala
Il dittatore Ríos Montt condannato
11 maggio 2013 l'internazionale
L”11 maggio una corte formata da tre giudici ha condannato l’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, 86 anni, a ottant’anni di carcere per genocidio. È la prima volta che un dittatore viene giudicato per i crimini commessi durante il suo mandato da un tribunale nazionale e non da una corte internazionale. Ríos Montt è stato condannato a cinquant’anni di carcere per genocidio e a trenta per crimini contro l’umanità. Invece l’ex capo dei servizi segreti José Mauricio Rodríguez Sánchez è stato assolto. L’ex dittatore ha già detto che ricorrerà in appello.
Nel procedimento cominciato il 19 marzo, Montt e Rodríguez Sánchez sono stati accusati di essere i mandanti di numerosi massacri avvenuti nell’area conosciuta come Triángulo Ixil, nel nordest del paese, dove furono uccisi 1.771 indigeni. Secondo i dati raccolti grazie alle esumazioni, quasi la metà dei morti erano bambini tra zero e dodici anni. L’accusa sostiene che Montt voleva eliminare gli indigeni perché sospettava che fiancheggiassero gruppi dell’opposizione.
Efraín Ríos Montt, 86 anni, ha governato in Guatemala solo per sedici mesi, dal 23 marzo 1982, quando è andato al potere con un colpo di stato militare, all’agosto del 1984. Ma il suo ruolo politico nel paese centroamericano è durato per tre decenni, cioè fino al gennaio del 2012, quando si è ritirato dalla vita politica.
“Io non ero il capo di un battaglione, ero il capo dello stato”, ha detto Ríos Montt il 10 maggio, in un discorso in sua difesa. L’ex dittatore ha insistito sulla tesi secondo cui non era al corrente delle singole azioni dell’esercito.
Di cosa è stato accusato. “Il breve mandato di Montt è passato alla storia come un periodo di repressione indiscriminata contro la popolazione civile, che secondo il dittatore sosteneva i gruppi sovversivi di sinistra. Secondo i rapporti delle organizzazioni umanitarie, durante il suo mandato almeno diecimila persone, in maggioranza indigeni, sono state vittime di omicidi extragiudiziali. I loro corpi sono stati gettati in fosse comuni o lasciati alla mercè degli avvoltoi. Migliaia di contadini sono stati costretti a trasferirsi nei campi profughi oltre il confine messicano. In tutto ci furono circa centomila profughi e 448 villaggi furono letteralmente cancellati”, scrive El País.
“Il periodo di governo di Ríos Montt è stato uno dei più cruenti della guerra civile (1960-1996): durante quel periodo secondo l’Onu sono morte o scomparse 200mila persone”, racconta El Faro.
Come Erode. Lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez traccia un profilo del dittatore e racconta quello che dopo trent’anni il processo ha portato alla luce: “I testimoni durante raccontano atrocità su atrocità, con la voce che ancora trema. Molti di quelli che non riuscirono a salvarsi erano bambini. Ríos Montt conosceva troppo bene i testi sacri per non accorgersi che il suo progetto di sterminio somiglia a quello di Erode. I bambini di etnia ixil avevano un nome in codice ‘cioccolato’, e l’ordine era di non lasciare nemmeno un ‘cioccolato’ vivo”.
Una finta soluzione per la Siria
Bernard Guetta, giornalista francese esperto di
politica internazionale. Ha una rubrica quotidiana su Radio France Inter e
collabora con Libération
9 maggio
2013 da L’Internazionale
Probabilmente
l’accordo non cambia la situazione sul campo, ma è comunque sintomatico. Nella
notte tra martedì e mercoledì il segretario di stato americano John Kerry e il
ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che si sono incontrati a Mosca,
hanno raggiunto un’intesa e hanno chiesto al governo siriano e ai ribelli di
negoziare una soluzione politica partecipando a una conferenza internazionale
da organizzare “al più presto”.
I ribelli
hanno accolto l’invito con freddezza, ricordando che l’uscita di scena di
Bashar al Assad è una premessa essenziale per qualsiasi negoziato con il
regime. Il governo, ostile a ogni compromesso con gli insorti che considera
nient’altro che “terroristi”, non ha ancora commentato la proposta. Dunque è
poco probabile che assisteremo alla conferenza ipotizzata da Washington e Mosca
in quella che è la prima iniziativa comune tra i due paesi rispetto al
conflitto siriano. Tuttavia l’improvvisa convergenza di intenti tra la
diplomazia russa e quella statunitense testimonia un importante sviluppo nelle
rispettive posizioni.
Nonostante
lo abbia negato ripetutamente, la Russia spera che Bashar al Assad resti al
potere, per questioni di politica interna e perché Vladimir Putin si sente
minacciato dalla possibilità che un movimento popolare riesca ancora una volta
a sconfiggere una dittatura. Attraverso la vendita di armi e ricorrendo al veto
su ogni forma di condanna del regime siriano da parte del Consiglio di
sicurezza dell’Onu, la Russia ha continuato a sostenere Bashar al Assad. Ora
però Mosca, pur rifiutando la tesi secondo cui la caduta del regime dev’essere
una condizione preliminare e non la conseguenza del negoziato, ha smesso di
incoraggiare al Assad a restare al potere. In un certo senso sembra che la
Russia non creda più nella possibilità di salvare il dittatore.
Dal canto
loro gli Stati Uniti non sembrano più intenzionati ad armare l’insurrezione per
paura di rafforzare le correnti jihadiste, e in fondo non credono che i ribelli
abbiano la forza per rovesciare il regime. Per questo motivo Washington e Mosca
vorrebbero favorire una soluzione di transizione, e hanno scelto di comune
accordo di fare pressione rispettivamente sui ribelli e sul governo per avviare
il negoziato.
In futuro i
due schieramenti dovranno fare i conti con le minacce e i ricatti dei due paesi
il cui appoggio è per loro indispensabile. In ogni caso né i ribelli né il
regime si lasceranno comandare dai rispettivi alleati, e ammettendo che la
conferenza internazionale abbia luogo non è chiaro quali potrebbero essere i
risultati concreti.
In linea
teorica si potrebbe trovare un accordo su un referendum o un’elezione generale
su tutto il territorio siriano, ma in realtà una votazione non farebbe altro
che mostrare le divisioni del paese e riproporre la spaccatura confessionale,
che a sua volta produrrebbe presto una scossa in tutta la regione. L’unica
speranza di preservare l’unità siriana è armare gli insorti in modo che
riescano a rovesciare il regime. Il problema è che la Russia continua a non
volerlo, e gli occidentali, per motivi diversi, hanno ormai abbandonato l’idea.
(Traduzione
di Andrea Sparacino)
Esteri
06/05/2013
Siria, Assad: se Israele attaccherà
di nuovo risponderemo subito
Raid di Israele In Siria
Damasco: altre aggressioni saranno considerate una “dichiarazione
di guerra”. Mosca preoccupata
di guerra”. Mosca preoccupata
damasco
Eventuali ulteriori aggressioni israeliane in territorio siriano
saranno considerate una “dichiarazione di guerra’’ e Damasco risponderà
immediatamente, senza alcun preavviso. Lo ha dichiarato il presidente
Bashar al Assad, secondo quanto scrive il quotidiano del Kuwait ’Alrai’.
’’Assad - si legge - ha fatto sapere agli americani, tramite i russi, che in caso di un altro attacco israeliano considererà quest’azione una dichiarazione di guerra’’ e, per questo, ’’è stato dato ordine di schierare batterie di moderni missili terra-terra e terra-aria russi, pronti ad aprire il fuoco senza consultare nuovamente la presidenza’’. Intanto, in un’intervista a Radio israele, il deputato Tzachi Hanegbi, considerato vicinissimo al primo ministro Benjamin Netanyahu, ha chiarito che non e’ nelle intenzioni di Israele attaccare la Siria nel tentativo di indebolire il regime di fronte alle forze dissidenti presenti nel Paese. Lo Stato ebraico, ha detto Hanegbi, vuole evitare “un aumento della tensione con la Siria e precisare che la sua attività è solo mirata contro Hezbollah, non contro il regime di Damasco’’.
Mosca si è detta oggi «molto preoccupata» dai raid israeliani condotti vicino a Damasco. «Stiamo precisando e analizzando tutte le circostanze legate alle informazioni molto preoccupanti sui raid condotti da Israele il 4 e 5 maggio nella periferia di Damasco», ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri russi Aleksandr Lukashevich.
Le autorità israeliane avrebbero fatto pervenire «attraverso canali diplomatici» un messaggio segreto al presidente siriano Bashar al-Assad, garantendogli di «non voler essere coinvolte nella guerra civile in Siria»: è quanto scrive oggi il quotidiano `Yedioth Ahronoth´, il più diffuso del Paese, senza peraltro indicare le proprie fonti. Dagli ambienti governativi non è giunta alcuna conferma di tali indiscrezioni, che tuttavia non sono nemmeno state smentite.
Anzi, un anonimo funzionario ha lasciato capire che di comunicare con Assad in realtà non vi sarebbe alcun bisogno. «Date le affermazioni rilasciate pubblicamente dalle principali personalità israeliane per rassicurare Assad, è chiarissimo qual è il segnale a lui destinato», ha notato. Più esplicito è stato invece il deputato Tzachi Hanegbi, esponente del Likud, veterano della politica israeliana ed esperto di problemi di sicurezza, più volte ministro ma soprattutto intimo del premier Benjamin Netanyahu, di cui è risaputo raccolga abitualmente le confidenze.
Intervistato dalla radio pubblica, Hanegbi ha sottolineato che questi punta a «evitare un’intensificazione della tensione con la Siria, chiarendo che, in caso di iniziative militari da parte d’Israele, queste sono soltanto contro Hezbollah, e non contro il regime» di Assad. Il parlamentare ha ricordato come lo Stato ebraico si sia ben guardato dal rivendicare formalmente i due recentissimi raid aerei in territorio siriano, spiegando che ciò aveva come obiettivo il permettere al leader di Damasco di salvare la faccia. Non solo: mentre ieri avveniva la seconda incursione, Netanyahu intraprendeva come previsto una visita ufficiale in Cina, con l’intento di fornire l’impressione che tutto proceda all’insegna della più assoluta normalità. Certo, ha concluso Hanegbi, nel caso in cui la Siria tentasse davvero la ritorsione minacciata, allora «risponderemmo duramente».
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