Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
Dal nostro inviato Al Marj (Libia)
Generale Haftar, state per conquistare Bengasi?
«Lo spero.
L’importante è che il parlamento libico lasci Tobruk e torni a
lavorare nella città liberata dalle milizie islamiche. Il mio
compito è di portarcelo. Mi sono dato una deadline: il 15
dicembre…».
Di colpo, salta la luce e gli uomini della
sicurezza gli sono subito addosso. Nel buio, il generale dice «è la
guerra a Bengasi, afwan »: scusate… L’unico sorriso che ci
concede è di sollievo, quando la stanza si riaccende. Vecchio uomo
nuovo della rivoluzione libica, una faccia socchiusa alle emozioni, a
71 anni Khalifa Haftar sa maneggiare la paura. Il più osservato dai
lealisti di Tobruk e dalle milizie di Zintan, che sospettano della
sua ambizione. Il più odiato dai fratelli musulmani di Tripoli, che
hanno messo una taglia su di lui temendone i grandi protettori al
Cairo e nel Golfo. Vive nascosto tra questa casamatta color senape
dell’eliporto di Al Marj, l’antica Barca alle porte di Bengasi, e
decine di rifugi che cambia ogni notte. Sospettoso di tutti,
irraggiungibile da molti. Ci vogliono due settimane d’appuntamenti
mancati, i fedelissimi della brigata 115-S che ti svitano pure la
biro, e controllano ogni pulsante del fotoreporter Gabriele
Micalizzi, prima d’arrivare a stringergli la mano e chiedergli
un’intervista in esclusiva per il Corriere . Tre figli al fronte
con lui. Due figlie all’estero sotto copertura. Dopo vent’anni
d’America, a metà fra la guerra lampo e il golpe, lo scorso
febbraio il generale è spuntato dal nulla e ha lanciato la sua
Operazione Karama (dignità) contro gl’islamisti di Alba libica e
Ansar al Sharia. Alle spalle ha un piccolo mappamondo. In mente, una
Libia senza barbe fanatiche. Nel cuore, un antico condottiero
dell’Islam: «Khaled Ibn Al Walid. Lo conosce? E’ il più grande
stratega della storia. Prima combatté i musulmani, poi si convertì
e si mise con loro. Senza perdere mai una battaglia. Ancora oggi uso
certe sue tattiche…».
Come quella su Tripoli?
«Con Tripoli è solo l’inizio:
ci servono più forze, più rifornimenti. Mi sono dato tre mesi, ma
forse ne basteranno meno: gl’islamisti d’Alba libica non sono
difficili da combattere, come non lo è l’Isis che sta a Derna. La
priorità resta Bengasi: Ansar al Sharia è ben addestrata, richiede
più impegno. Anche se non ha grandi strateghi militari e ormai siamo
in vantaggio: controlliamo l’80 per cento della città».
A
Vienna i leader mondiali hanno detto che il vuoto di potere, in
questa guerra civile, fa paura.
«Finalmente se ne accorgono. Il
parlamento a Tobruk è quello eletto dal popolo. Quella di Tripoli è
un’assemblea illegale e islamista che vuole portare indietro la
storia. Ma la vera minaccia sono i fondamentalisti che cercano
d’imporre ovunque la loro volontà. Tripoli s’affida a loro,
lascia che combattano contro di noi a Bengasi. Ansar al Sharia usa la
spada in tutto il mondo arabo ed è appena finita nella lista Onu del
terrorismo. Se prende il potere qui, la minaccia arriverà da voi in
Europa. Nelle vostre case».
Vuol dire che lei sta combattendo
per noi?
«Certo. Combatto il terrorismo nell’interesse del mondo
intero. La prima linea passa per la Siria, per l’Iraq. E per la
Libia. Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da
questa parte di Mediterraneo. Attraverso l’immigrazione illegale,
ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti
fedeli ad Ansar al Sharia o all’Isis: quanti italiani sanno che
davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si
tagliano le teste? L’Europa deve svegliarsi».
S’aspetta un
sostegno in armi, come quello dato ai curdi?
«Non c’è bisogno
di venire e dirvi: per favore, aiutatemi. Siete voi che dovete capire
se è il caso di aiutare Haftar. L’Egitto, l’Algeria, gli
Emirati, i sauditi ci mandano armi e munizioni, ma è tecnologia
vecchia. Non chiediamo che ci mandiate truppe di terra o aerei a
bombardare: se abbiamo le forniture militari giuste, facciamo da noi.
Il mondo vede i nostri soldati decapitati, le autobombe, le torture:
potete accettare tutto questo?».
Vuole ricacciare in un angolo
i fratelli musulmani: Haftar si candida a essere per la Libia quel
che è stato il generale Al Sisi per l’Egitto?
«L’Egitto e Al
Sisi sono una cosa molto diversa dalla Libia. L’unica cosa in
comune è che finalmente sono i popoli a scegliere. Poi, c’è la
mia posizione politica. Ho iniziato Karama per rispondere alla
richiesta dei libici che non ne potevano più. Se sarà necessario,
continueremo insieme la nostra battaglia militare e poi
politica».
Operazione Dignità: l’ha inventato lei, questo
nome?
«Certo. Ci sono due parole: operazione, che significa il
percorso militare per raggiungere un risultato; karama, che nasce
dalla domanda “di che cosa abbiamo bisogno?”. L’ho chiesto ai
miei ufficiali. Molti suggerivano il nome d’Omar Mukhtar, l’eroe
libico. Ma quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò
Mukhtar. Dignità è una parola che dà la speranza in qualcosa che i
soldi o il petrolio non ti possono dare».
Amnesty ha avuto
parole molto dure sulle sue milizie. E si dice che lei sia pagato
dagli Usa: gli americani che la liberarono da una prigione del Ciad,
quando Gheddafi l’aveva mollata; la Cia che le diede casa a pochi
chilometri dalla sua sede di Fort Langley…
«Karama non è legata
ad altri Paesi. Nasce dai libici. Io sto combattendo una guerra
chiara e trasparente a pochi chilometri da dove sono nato. Ho fatto
molte campagne, dal Kippur al Ciad, sono abituato alla vita militare,
ma questa è la mia sfida più dura. Purtroppo, ci sono politicanti
che mestano nel torbido, m’associano alla Cia per screditarmi».
Si
può dire almeno che gli americani l’apprezzeranno, se riuscirà a
vendicare l’uccisione del loro ambasciatore a Bengasi, Chris
Stevens…
«Deborah Jones, l’ambasciatrice Usa, non mi
sponsorizza, tutt’altro. Quando l’ho sentita parlare, ho pensato
che piuttosto sostenesse i Fratelli musulmani: Washington sta
giocando una partita ambigua e doppia, come gli europei…».
Ha
parlato della sua guerra del Kippur: accetterebbe un aiuto da
Israele?
«Il nemico del mio nemico è mio amico. Perché no? Ma
non credo che Israele mi appoggerebbe, sono troppo impegnati a
destabilizzare la Libia attraverso il terrorismo».
Sa che si
dice in Italia? Che piuttosto di questo caos, era meglio tenersi
Gheddafi.
«Questo caos è figlio di Gheddafi. Del suo regime.
D’una certa mentalità in cui ha cresciuto i libici. Io ero molto
amico suo. L’ho aiutato a salire al potere nel 1969, gli ho
insegnato molte cose militari. Poi mi sono distaccato e non lo volevo
più al potere, ma non mi è piaciuto com’è stato eliminato. In
quel modo barbaro. Senza un processo, che invece sarebbe stato un
esempio da dare al mondo. Ci sono popoli che non hanno un leader e ci
sono leader che non hanno un popolo: l’avessimo processato, avrei
voluto chiedergli perché aveva rinunciato al popolo».
Lei ce
l’ha, un popolo?
«In Libia molti mi amano. Ma tengo sempre a
mente che un leader dev’essere come un genitore o un buon
insegnante: si fa rispettare, senza seminare il terrore».
Nessun commento:
Posta un commento