martedì 11 novembre 2014

Jobs Act, perché uno sciopero così non conviene

Carlo Dell'Aringa 
Europa  
Il sindacato, a torto o a ragione, è considerato da molti, compresi parecchi dei lavoratori che dovrebbe rappresentare, uno dei responsabili della crisi occupazionale
Il sindacato è sceso agli ultimi posti della speciale classifica delle istituzioni e delle organizzazioni sociali che godono delle simpatie dell’opinione pubblica. E la discesa è continua e ha avuto origine ben prima che questo governo entrasse in carica.
Qualche anno fa un attento sociologo e studioso del sindacato, Bruno Manghi, scriveva un piccolo volume dal titolo: Declinare crescendo. Si sosteneva che il sindacato anche in una fase di declino, doveva trovare la forza di riprendersi, facendo tesoro della esperienza. Anzi il declino doveva essere vissuto come la premessa della futura ripresa. Purtroppo di ripresa se ne è vista poca e il declino è continuato.
L’atteggiamento della Cgil, che sembra essere assecondato dalla Uil, è ancora quello di una lotta dura, di contrapposizione, senza sconti e portata sino all’estrema conseguenza dello sciopero generale. Lo stesso atteggiamento che tenne la Cgil ai tempi dello sciopero di 3 milioni di lavoratori e che portò all’indubbio risultato di bloccare il governo Berlusconi sulla riforma dell’articolo 18. Ma fu un successo che potremmo definire di breve periodo. Sono passati più di dieci anni e nel frattempo le relazioni sindacali non sono evolute in modo tale da dare un contributo importante per fare uscire il Paese dalla crisi. Come invece è successo in altri paesi, come la Germania.
E il sindacato, a torto o a ragione, è considerato da molti, compresi parecchi dei lavoratori che dovrebbe rappresentare, uno dei responsabili della crisi occupazionale. Non certo l’unico e il principale. In cima alla classifica ci sono sempre i responsabili politici, come è giusto che sia, quando le cose vanno male. Ma anche il sindacato ha molte cose da farsi perdonare.
Al tentativo di riprendersi e di non abbandonarsi ad un destino di semplice declino, non credo giovi uno sciopero di netta contrapposizione, come quello che si sta preparando. Non serve per migliorare le condizioni delle imprese, da cui in ultima analisi dipende il numero di posti di lavoro che vengono creati. Non serve per combattere un Jobs Act che contiene più disposizioni a favore dei lavoratori (ammortizzatori sociali, politiche attive del lavoro, lotta al precariato, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro) che non disposizioni a favore della flessibilità per le imprese (articolo 18, e alcune norme dello Statuto dei lavoratori). La delega al governo, di cui si discute animatamente alla camera, è sì perfettibile, ma nell’impostazione generale, è equilibrata e rappresenta una sfida giusta che lo stesso governo vuole affrontare, per rendere il mercato del lavoro più simile a quello degli altri paesi con cui noi ci confrontiamo.
È certamente più comprensibile l’atteggiamento della Cisl che concentra il proprio dissenso non su tutta l’impostazione del Jobs Act e della legge di stabilità, ma su aspetti specifici maggiormente legati al ruolo del sindacato, come ad esempio il rinnovo del contratto del pubblico impiego.
Manca comunque in entrambi i casi, sia quello del fronte di totale contestazione e sia quello più aperto al dialogo, un approccio di tipo strategico orientato agli obiettivi da raggiungere e agli strumenti da utilizzare per riprendere il cammino della creazione di posti di lavoro. Su questo terreno il sindacato deve sfidare il governo, un terreno propositivo e non di difesa. Facendo riferimento soprattutto al campo di azione dove il sindacato è protagonista, come quello della contrattazione collettiva, della rappresentanza, della partecipazione.
È parecchio tempo che le parti sociali tentano di essere protagonisti e allo stesso tempo innovatori in questi campi di loro specifica competenza. Ma non ci riescono, non son o mai riusciti a trovare accordi, se si escludono alcune importanti e recenti novità sul terreno della rappresentanza. Ma è ancora troppo poco.
Sono passati più di vent’anni dall’ultimo accordo veramente importante e innovativo, quello di Ciampi dell’inizio degli anni novanta. Ma da allora il mercato del lavoro è cambiato enormemente. È cambiato in tutti i paesi, ma noi abbiamo fatto molto meno degli altri per aggiornare le norme e rendere più efficienti le istituzioni che regolano e operano nel mondo del lavoro. Il governo ci prova. Perché non ci provano anche le parti sociali? Per provare a crescere.

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