Il sindacato, a torto o a ragione, è considerato da molti, compresi
parecchi dei lavoratori che dovrebbe rappresentare, uno dei
responsabili della crisi occupazionale
Il sindacato è sceso agli ultimi posti della speciale
classifica delle istituzioni e delle organizzazioni sociali che godono
delle simpatie dell’opinione pubblica. E la discesa è continua e ha
avuto origine ben prima che questo governo entrasse in carica.
Qualche anno fa un attento sociologo e studioso del sindacato, Bruno Manghi, scriveva un piccolo volume dal titolo: Declinare crescendo.
Si sosteneva che il sindacato anche in una fase di declino, doveva
trovare la forza di riprendersi, facendo tesoro della esperienza. Anzi
il declino doveva essere vissuto come la premessa della futura ripresa.
Purtroppo di ripresa se ne è vista poca e il declino è continuato.
L’atteggiamento della Cgil, che sembra essere assecondato dalla Uil, è
ancora quello di una lotta dura, di contrapposizione, senza sconti e
portata sino all’estrema conseguenza dello sciopero generale. Lo stesso
atteggiamento che tenne la Cgil ai tempi dello sciopero di 3 milioni di
lavoratori e che portò all’indubbio risultato di bloccare il governo
Berlusconi sulla riforma dell’articolo 18. Ma fu un successo che
potremmo definire di breve periodo. Sono passati più di dieci anni e nel
frattempo le relazioni sindacali non sono evolute in modo tale da dare
un contributo importante per fare uscire il Paese dalla crisi. Come
invece è successo in altri paesi, come la Germania.
E il sindacato, a torto o a ragione, è considerato da molti, compresi
parecchi dei lavoratori che dovrebbe rappresentare, uno dei
responsabili della crisi occupazionale. Non certo l’unico e il
principale. In cima alla classifica ci sono sempre i responsabili
politici, come è giusto che sia, quando le cose vanno male. Ma anche il
sindacato ha molte cose da farsi perdonare.
Al tentativo di riprendersi e di non abbandonarsi ad un destino di
semplice declino, non credo giovi uno sciopero di netta
contrapposizione, come quello che si sta preparando. Non serve per
migliorare le condizioni delle imprese, da cui in ultima analisi dipende
il numero di posti di lavoro che vengono creati. Non serve per
combattere un Jobs Act che contiene più disposizioni a favore dei
lavoratori (ammortizzatori sociali, politiche attive del lavoro, lotta
al precariato, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro) che non
disposizioni a favore della flessibilità per le imprese (articolo 18, e
alcune norme dello Statuto dei lavoratori). La delega al governo, di
cui si discute animatamente alla camera, è sì perfettibile, ma
nell’impostazione generale, è equilibrata e rappresenta una sfida giusta
che lo stesso governo vuole affrontare, per rendere il mercato del
lavoro più simile a quello degli altri paesi con cui noi ci
confrontiamo.
È certamente più comprensibile l’atteggiamento della Cisl che
concentra il proprio dissenso non su tutta l’impostazione del Jobs Act e
della legge di stabilità, ma su aspetti specifici maggiormente legati
al ruolo del sindacato, come ad esempio il rinnovo del contratto del
pubblico impiego.
Manca comunque in entrambi i casi, sia quello del fronte di totale
contestazione e sia quello più aperto al dialogo, un approccio di tipo
strategico orientato agli obiettivi da raggiungere e agli strumenti da
utilizzare per riprendere il cammino della creazione di posti di
lavoro. Su questo terreno il sindacato deve sfidare il governo, un
terreno propositivo e non di difesa. Facendo riferimento soprattutto al
campo di azione dove il sindacato è protagonista, come quello della
contrattazione collettiva, della rappresentanza, della partecipazione.
È parecchio tempo che le parti sociali tentano di essere protagonisti
e allo stesso tempo innovatori in questi campi di loro specifica
competenza. Ma non ci riescono, non son o mai riusciti a trovare
accordi, se si escludono alcune importanti e recenti novità sul terreno
della rappresentanza. Ma è ancora troppo poco.
Sono passati più di vent’anni dall’ultimo accordo veramente
importante e innovativo, quello di Ciampi dell’inizio degli anni
novanta. Ma da allora il mercato del lavoro è cambiato enormemente. È
cambiato in tutti i paesi, ma noi abbiamo fatto molto meno degli altri
per aggiornare le norme e rendere più efficienti le istituzioni che
regolano e operano nel mondo del lavoro. Il governo ci prova. Perché non
ci provano anche le parti sociali? Per provare a crescere.
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