Ormai lo scontro tra Renzi e la sinistra sindacale non può finire
in pareggio. Quando il premier avrà vinto in parlamento su Jobs Act e
legge di stabilità vedremo i nuovi rapporti di forza, e fin dove si sarà
spostato il sindacato.
Tra Fiom, sindacati di base e movimenti antagonisti, la
manifestazione contro Matteo Renzi a Parma ha radunato meno di cento
persone, che in un’importante città di provincia non è esattamente un
successo. Poco importa, l’eco mediatica delle contestazioni è comunque
assicurata perché obiettivamente l’autunno del 2014 s’è fatto abbastanza
caldo. E ha ragione Federico Geremicca sulla Stampa a notare che
a nessun governo recente era stato riservato un simile trattamento da
parte dei sindacati nel loro insieme. Eppure non mancavano né l’ostilità
ideologica (contro Berlusconi) né le misure alle quali opporsi (quelle
di Monti) e in generale non si può dire che l’Italia negli ultimi anni
stesse meglio di adesso.
Il punto allora è proprio Renzi. Perfino più del Jobs Act, per
non dire della legge di stabilità, o dell’articolo 18 che come tutti si
sono premurati a sottolineare era già stato svuotato da Elsa Fornero
sollevando un incivile odio personale contro di lei, ma neanche un
decimo delle mobilitazioni organizzate di queste settimane.
La protesta sindacale è altamente politicizzata – il che spiega anche
i problemi che si stanno creando tra le confederazioni – e per una
quota non indifferente nasce dalla necessità di difendere specifiche
prerogative: dai permessi ai patronati fino alla madre delle
prerogative, cioè il diritto a co-decidere sulle leggi di interesse
generale insito in quel metodo della concertazione che Renzi ha deciso
di ripudiare.
Il premier non fa nulla per spegnere i fuochi: sul piano politico e
sul ridimensonamento del ruolo dei sindacati accetta anzi cerca lo
scontro. Bene, per lui, se vede Camusso schiacciarsi sull’ex avversario
interno Landini; se vede quest’ultimo frequentare perfino gli
antagonisti per colmare il suo gap nel mondo del precariato (come ha
notato soddisfatto Toni Negri giorni fa sul manifesto); e se
infine la sinistra sindacale incrocia inopinatamente su alcune
iniziative referendarie Meloni e Alemanno (contro il fiscal compact) o
la Lega di Salvini (sulle pensioni).
Renzi è convinto di avere con sé l’ampia maggioranza del paese.
Sfrutta la cronica crisi di rappresentatività e di consenso del
sindacato. Sa che il giorno che Jobs Act e legge di stabilità
saranno passati in parlamento – e quel gorno è vicino – il messaggio
prevalente sarà di un suo successo politico, anche a smentita di
quell’altra parte del fronte critico che sostiene la tesi
dell’irrilevanza delle riforme renziane (in effetti o sono pericolose o
sono irrilevanti: la contraddizione è in termini).
A questo punto, dopo che i toni sono diventati così acuti, la partita
non può finire in pareggio: ci saranno un vincitore e un vinto, e
questa è anche la constatazione che ha dovuto fare la maggioranza del
gruppo dirigente del Pd, compresi coloro che – con buoni argomenti –
potranno dire di esser riusciti a rettificare la rotta originaria delle
misure economiche.
Questo autunno 2014 passerà così alla storia politica come un momento di svolta, di definizione, della stagione renziana.
Rimane negli osservatori un dubbio, un’attesa: se, come, quando, e su
quale terreno, la leadership del Pd e i nuovi capi sindacali emergenti
vorranno trovare – dopo la prevedibile vittoria politica dei primi sui
secondi – un momento di ricomposizione, a rapporti di forza mutati;
diciamo un reciproco riconoscimento tra il primo partito progressista
d’Europa e quel mondo del lavoro organizzato che è comunque tra le
identità fondanti di qualsiasi sinistra, anche modernissima, in
qualsiasi paese.
Una cosa è sicura: se il sindacato ripiega su conservatorismo e
minoritarismo, questo può essere utile nel breve a chi lo sta sfidando;
ma alla lunga finisce per essere un danno enorme per l’Italia.
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