Corriere della Sera 04/11/14
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Sono il silenzio e la neve i veri
protagonisti del film che l’83enne Ermanno Olmi ha voluto dedicare
alla Prima Guerra Mondiale, loro più dei soldati mandati al
massacro, degli ordini insensati, del dolore, del sangue, della
follia. Prima di tutto viene questo senso di desolazione e di
abbandono che non riguarda solo l’avamposto tra i monti dove il
regista ha ambientato il suo Torneranno i prati ma che si estende
alla memoria di quell’evento, alla sua capacità — o meglio
sarebbe, alla sua incapacità — di trasformarsi davvero in
fondamento del nostro comune sentire.
A Olmi non sfugge certo,
né vuole minimizzare, l’insensatezza di un massacro che ha causato
milioni di morti. E infatti nella prima parte il regista riprende lo
spunto del bellissimo racconto di Federico De Roberto La paura , con
quel militare che piuttosto che farsi uccidere come i suoi
commilitoni nel tentativo di raggiungere un inutile postazione, si
ammazza davanti al maggiore che ha dato quell’ordine suicida. Ma
poi l’eventuale polemica antimilitarista si ferma, come a volerci
ricordare che non sono più gli anni della rabbia e dello sdegno,
come quelli all’origine di quei capolavori che sono All’Ovest
niente di nuovo di Milestone o Orizzonti di gloria di Kubrick. O
della riflessione storica e politica come nella trilogia di Yervant
Gianikian e Angela Ricci Lucchi ( Prigionieri della guerra , Su tutte
le vette è pace e Oh! Uomo ).
Altro sta a cuore a Olmi, ed è
la paura che quei sacrifici e gli uomini che li hanno compiuti
vengano dimenticati e cancellati, un po’ come quei cadaveri sepolti
sotto la neve e abbandonati al loro destino: «Quest’estate
emergeranno dal ghiaccio e qualcuno verrà a cercarli. Ma di molti
non se ne occuperà nessuno» dice un graduato al tenentino di fresca
nomina mentre sovrintende alla sepoltura sotto la neve.
Mi
sembra proprio questo il senso più vero di un film che racconta
l’anonima notte di un avamposto italiano sulla linea del fuoco.
Siamo nell’inverno del ’17, del nemico si sentono solo le bombe e
le pallottole, tutt’intorno è neve e alberi imbiancati. Un
panorama bellissimo, illuminato dalla luna, se non nascondesse morte
e distruzione. Ma pure il vuoto di senso e di memoria che le guerre
portano con loro.
È struggente e doloroso, e di un dolore quasi
fisico, il contrasto tra lo squallore delle trincee e dei dormitori
interrati e il fascino della natura che circonda quegli avamposti; lo
smarrimento di quegli occhi che cercano un invisibile nemico e
trovano invece la bellezza di un mondo inaspettatamente ostile. A
volte gli uomini hanno dei sussulti di dignità (il capitano che si
degrada per disgusto degli ordini ricevuti, il sergente che non si dà
pace per non aver protetto meglio i suoi uomini), altre volte si
fanno carico di un peso cui non sanno sfuggire (il maggiore che non
discute gli ordini delle gerarchie, il tenentino che finisce in un
posto per cui non ha forze né competenze), ma più spesso a Olmi
interessa far emergere i semplici tratti fisici dei soldati, gli
elementi minimi di identificazione. E così ricordare chi verrà
cancellato dalla Storia. Ecco il perché di quelle lunghe carrellate
su tante facce «anonime», quegli elenchi di nomi di cui non sapremo
mai a chi appartengono. Come a volerci ricordare che al di là
dell’eroismo o della follia, c’erano dietro degli uomini in carne
e ossa che la Storia ha bellamente dimenticato. Ingiustamente
dimenticato.
Olmi non può certo ricordarli tutti, ma nel
filmare la straziante bellezza di una natura dove si è perso ogni
possibile legame con l’uomo, cerca di accendere la fiamma di un
ricordo che sappia restituire dignità e passione a chi ha dato la
vita e non ha ricevuto in cambio niente, nemmeno il calore della
memoria.
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