Correzione del
deficit da 4,5 miliardi, modifica del bonus bebè, allentamento del
patto di stabilità interno per i comuni, incremento degli ammortizzatori
sociali, riduzione dell'Irap e dei contributi. La legge di stabilità,
nel corso dell'esame in commissione Bilancio a Montecitorio, viene
modificata con un pacchetto di misure che tocca quasi tutti i capitoli
della manovra. Restano fuori novità fiscali, con al primo posto la local
tax, che saranno inserite a palazzo Madama.
foto del giorno
domenica 30 novembre 2014
LE MILLE FACCE DELLA TERZA VIA.
Corriere della Sera 30/11/14
corriere.it
Il quindicesimo anniversario di un
incontro che vide riuniti a Firenze i leader della sinistra allora al
governo in alcuni grandi Paesi — Bill Clinton negli Usa, Tony Blair
in Gran Bretagna, Lionel Jospin in Francia, Enrique Cardoso in
Brasile, Prodi e D’Alema in Italia — è stato subito associato
alla benedizione che Tony Blair ha offerto a Renzi in occasione della
cena svoltasi mercoledì scorso a Palazzo Chigi: ritorna la «Terza
via»? Si tratta di una linea politica che la sinistra può ancora
adottare? E oggi, in Italia, ne è Matteo Renzi un interprete
adeguato? Massimo D’Alema, intervistato ieri da Paolo Valentino sul
Corriere , risponde «no» a tutte e tre le domande.
«Terza
via» è denominazione diffusa, e che non riguarda solo la politica,
bensì ogni problema in cui si scartano le soluzioni estreme e se ne
adotta una intermedia, che cerca di conservare gli aspetti positivi e
ridurre quelli negativi associati alle soluzioni polari. Insomma, un
compromesso accettabile. Nella politica della sinistra si tratta di
una vecchia storia, che risale almeno alla fine dell’800, a Eduard
Bernstein, poi rinverdita dagli austro-marxisti dopo la Prima guerra
mondiale. Tony Blair e il suo ideologo Tony Giddens è da questi
ultimi che hanno ripreso l’espressione «Terza via» per affrontare
(e nobilitare) un problema politico particolare: dato che la sinistra
tradizionalista e statalista dominante nel Labour Party era stata
battuta per quattro volte di seguito dai neoliberali di Thatcher e
Major, non era forse il caso di adottare una linea politica
intermedia tra i tradizionalisti e i liberali estremi del partito
conservatore? È sull’onda del suo successo nelle elezioni del 1997
che Blair venne all’incontro di Firenze e che Tony Giddens cominciò
a fare il piazzista — un piazzista di alto livello — della Terza
via in tutt’Europa. Dopo di che le cose non andarono bene: il
Labour vinse sì le due successive elezioni — cosa mai avvenuta in
precedenza — ma Blair divenne così impopolare, soprattutto per le
sue posizioni sulla guerra in Iraq, che oggi il suo nome è
impronunciabile in Gran Bretagna, anche nell’ambito della sinistra
moderata. E la stessa espressione di Terza via, a lui troppo
associata, ha perso gran parte del suo fascino.
Ma il problema
del contrasto e del necessario compromesso tra capitalismo e assetto
politico liberale — da una parte — e democrazia, eguaglianza di
opportunità, benessere per i ceti più disagiati — dall’altra —
rimane e anzi è diventato più acuto con gli sviluppi più recenti
della globalizzazione, dopo la grande crisi del 2008, nel contesto di
un’Unione Europea che ha fatto propri i precetti del liberismo più
estremo e di un rampante populismo di destra.
Tutte le sinistre
europee che aspirano a governare sono costrette a questo compromesso,
a tante e diverse «terze vie» a seconda delle loro storie e del
bagaglio di attività e passività che si portano appresso. Questo
D’Alema, che ha governato, lo sa benissimo, come sa che il fardello
che si porta appresso l’Italia è particolarmente pesante e il
compromesso rischia di essere più sfavorevole ai ceti popolari che
in altri Paesi più efficienti e meglio governati del nostro.
E
allora non tiriamo in ballo la Terza via o altre questioni di
principio e lasciamole agli studiosi e agli ideologi, bravi come Tony
Giddens o meno bravi come i suoi omologhi italiani. D’Alema e Renzi
sono politici puri, opportunisti come i politici devono essere,
pronti a servirsi di tutti i suggerimenti culturali che si prestano
ai loro fini. Non credo che Renzi abbia un pregiudizio ideologico
contro l’uso di strumenti pubblici e dello Stato, se solo fossero,
nel nostro disgraziato Paese, un po’ più efficienti e meno
inquinati dalla politica: e dunque una riforma della politica
(abolizione del bicameralismo identico e legge elettorale) e della
pubblica amministrazione sono in testa ai suoi obiettivi. Quanto alle
finalità che Renzi persegue in Europa o a livello internazionale
credo siano identiche a quelli che perseguirebbe D’Alema: non lo fa
con sufficiente forza e competenza? Ma allora, sulla base di esempi
concreti, di questo si parli, non di astratte terze vie.
Il lavoro dei detenuti che nessuno sfrutta per risarcire lo Stato.
Corriere della Sera 30/11/14
Virginia Piccolillo
Un detenuto costa tra i 100 e i 200
euro al giorno, più le spese processuali che spesso non è in grado
di pagare quando esce. Perché non utilizzarlo gratis per spalare il
fango dei fiumi esondati, ridipingere le scuole, o fare i lavori di
manutenzione nei penitenziari?
La proposta «provocatoria e
forse per qualcuno addirittura sovversiva» la lancerà stasera
Milena Gabanelli in una puntata di Report che squarcia il velo
dell’ipocrisia. Il sistema penitenziario pesa sul contribuente per
2 miliardi e 800 milioni di euro. Lo scorso anno, solo per il vitto e
i prodotti per l’igiene, sono stati spesi 132 milioni. Lo Stato ne
ha recuperati poco più di 4,5 dalle spese di mantenimento attribuite
ai 54.200 detenuti di quest’anno: 1,69 euro al giorno. La legge
dice che l’amministrazione dovrebbe dare un lavoro a ciascun
detenuto definitivo, ma quasi nessun istituto ha i soldi per pagarlo
e favorire così il suo reinserimento. Anche per questo 7 su 10
tornano a delinquere.
Dunque perché non utilizzare i detenuti
non pericolosi per lavori di pubblica utilità e trattenere gran
parte della paga come risarcimento per le spese dell’amministrazione
penitenziaria? A sorpresa, nella puntata firmata da Claudia Di
Pasquale e Giuliano Marucci, i più favorevoli all’idea sono
proprio i detenuti, colti nella loro attività quotidiana: «Giochiamo
a carte, ci facciamo una chiacchierata, 23 ore su 24 non facciamo
nulla», raccontano, abbrutiti e avvolti dal degrado di bagni fetidi,
muri cadenti, strutture fatiscenti.
Mentre dalle istituzioni
chiamate a risolvere una situazione che ci è costata già la
condanna della Corte europea arriva il consueto scaricabarile: «Tocca
al Dap», «no al governo», «no al Parlamento». Più un’alzata
di sopracciglio, quasi come se si volesse tornare ai lavori forzati:
«Incostituzionale: il lavoro va pagato», tuona il garante Angiolo
Marroni.
Eppure una legge che prevede il lavoro volontario e
gratuito esiste dal 2013. Ma sembra che lo sappiano solo al carcere
di Bollate dove il 50% dei detenuti ridipinge le scuole o fa varie
attività, pagati o anche gratis. In altri Paesi, come gli Stati
Uniti, l’Austria, l’Irlanda, poi, è già così. L’obbligo di
lavorare non c’è. Ma con apparente soddisfazione generale, quasi
tutti lavorano. «L’amministrazione trattiene le spese e lascia al
detenuto circa 50-60 euro in tasca. Noi facciamo l’esatto
contrario», evidenzia Milena Gabanelli. In più all’estero lo
sconto di pena arriva solo a chi lo merita, lavorando. A Portland,
nell’Oregon, squadre di detenuti, più o meno sorvegliati, a
seconda della pericolosità, fanno manutenzione di strade e giardini,
o fabbricano scarpe.
L’amministrazione penitenziaria non è in
rosso e ci sono persino celle De Luxe per chi lavora di più. In
Irlanda a tutti, in laboratori interni, si insegna a lavorare il
legno o altro. In Austria si producono internamente fabbriche per
topi, componenti auto e molto di più. Da noi solo il 4% dei detenuti
lavora per i privati Modificare le norme per seguire l’esempio
estero? «Compito del governo, per la presidente della commissione
giustizia della Camera, Donatella Ferranti. E il sottosegretario
Cosimo Ferri concede: «E’ una proposta di buon senso».
“Siamo almeno cento Prodi è la prima scelta” Il piano per il Quirinale delle minoranze Pd
GOFFREDO DE MARCHIS
Il retroscena Cuperlo, Fassina e
D’Attorre si vedono tutti i giorni per coordinare le mosse dei
dissidenti “Stavolta Renzi dovrà ascoltare anche noi, in
Parlamento contiamo un po’ più di Fitto”
«Stavolta dovrà ascoltare anche noi.
Contiamo più di Fitto in Parlamento». La minoranza del Pd giocherà
la partita del Quirinale di rimessa, aspettando che sia Matteo Renzi
a fare la prima mossa, a indicare al partito un nome su cui
discutere. Il coordinamento dei dissidenti continua a vedersi
praticamente ogni giorno alle 9 di mattina a Montecitorio. Ne fanno
parte Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Stefano Fassina, Francesco Boccia
e Alfredo D’Attorre. Tutte le aree sono rappresentate. Da questo
nucleo è nata la rivolta che ha portato alle 30 uscite dall’aula
durante la votazione del Jobs Act. Ma loro giurano di essere molti di
più e al momento dell’elezione del presidente della Repubblica il
loro peso si farà sentire. Tra Camera, Senato e delegati regionali
contano circa 100 grandi elettori. «Forse 101», scherzano evocando
il voto su Romano Prodi che provocò un terremoto nel centrosinistra,
un anno e mezzo fa.
Prodi è ancora nei discorsi dei
ribelli in questi giorni. Ancora oggi è il nome che mette d’accordo
tutti. Civati in testa. Ma lo appoggiano anche i bersaniani e il
lettiano Boccia. Persino Cuperlo non nega una chance al Professore.
Del resto, lui, nella squadra dalemiana, è sempre stato un tifoso
dell’ex premier, certamente il meno denigratorio, tanto da
immaginare una pace tra D’Alema e Prodi qualche anno fa, attraverso
la nomina di quest’ultimo alla presidenza della Fondazione
Italianieuropei. Il percorso di Prodi appare fin d’ora accidentato,
reso difficile dalla sua sbandierata indisponibilità e dal veto di
Berlusconi. In più adesso la sponda grillina non è molto sicura
vista la tempesta che scuote i 5stelle. Comunque il coordinamento si
prepara anche a un piano B. Sul profilo di Prodi: ossia autorevolezza
assoluta, nome alto, autonomia dai partiti. Perché il timore è che
nel patto del Nazareno si possa realizzare una soluzione al ribasso,
con una candidatura debole. «Il capo dello Stato dev’essere libero
e forte. Libero dai condizionamenti delle forze politiche e forte
nelle istituzioni», spiega Boccia. «Va cercato un garante per il
Paese, non un garante di Renzi, una specie di stampella del governo»,
insiste D’Attorre. Naturalmente, secondo la minoranza, questo
risultato si ottiene solo ribaltando l’intesa del Nazareno e
depotenziando il potere di scelta di Berlusconi.
Per neutralizzare il dissenso interno e
i franchi tiratori Renzi però ha bisogno di patto blindato o con
Berlusconi o con Grillo. Dalla quarta votazione basteranno 500 e
rotti voti per eleggere il presidente. Se sono veri i 100 della
minoranza, è necessario avere la sponda garantita di Forza Italia e
dei centristi oppure del comico. Perché nemmeno i dissidenti
grillini saranno sufficienti. La via d’uscita più semplice è
trovare un nome talmente alto da impedire a chiunque di battere
ciglio. Come avvenne ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi. Questo nome è
unico: Mario Draghi. Berlusconi dovrebbe inchinarsi e la minoranza
dem non avrebbe alternative.
Draghi tuttavia è out almeno per il
momento. Girano le candidature di Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni
in cui i dissidenti non riconoscono l’identikit della personalità
autorevole e autonoma che invece corrisponde a Walter Veltroni. Più
insidiosa, per l’intero Pd, sarebbe l’indicazione di Dario
Franceschini. Il ministro della Cultura, nel toto-Quirinale, è ai
margini, «ma non va sottovalutato — dice Boccia — . Può avere i
voti di Berlusconi e di tutti i centristi sparsi».
I dissidenti cercano di autonomizzarsi
dalla vecchia guardia, eppure non negano che Pier Luigi Bersani e
Massimo D’Alema vorranno avere voce in capitolo. «Esiste una
necessità di condivisione, anche con noi. Non cerchiamo una
situazione di stallo e la titolarità della proposta spetta a Renzi.
Poi però si discute», spiega D’Attorre. Non sarà una discussione
semplice, intrecciata com’è con la legge elettorale e la riforma
costituzionale, oggi osteggiate dalla minoranza. Senza contare la
prospettiva del voto anticipato. Renzi e i suoi devono ancora trovare
l’interlocutore giusto nel fronte dei ribelli. Per ora regna la
massima diffidenza e sospetti nemmeno molto celati a Palazzo Chigi di
complotti per far inciampare il premier.
Matteo Renzi “Voglio una sinistra moderna. La Cgil non ci fermerà, pensa solo al suo sciopero Nel Pd nuove regole sulla disciplina interna Il nostro popolo al prossimo voto dovrà scegliere tra noi e Salvini”
CLAUDIO TITO
“Berlusconi rispetti i patti prima
l’Italicum poi il Colle L’Ilva tornerà allo Stato la salviamo e
poi vendiamo”. La Camusso? «Alza i toni in vista
dello sciopero generale ». Grillo? «Il Pd lo ha rottamato».
L’articolo 18? «Bisognerebbe rileggere ciò che scrivevano
sindacalisti come Luciano Lama». Prima il Quirinale e poi le
riforme? «Non esiste e comunque il mio nome ora per il Colle resta
solo Napolitano». Prima di affrontare lo “showdown” di dicembre
che per il governo assomiglia a una corsa a tappe forzate tra
l’Italicum, il Jobs act e la legge di Stabilità, Matteo Renzi
traccia un bilancio di quel che il suo governo e il Pd hanno fatto
nel 2014. Chiede al suo partito di abbandonare la vecchia abitudine
degli «sgambetti» a Palazzo Chigi e di dar vita ad una «sinistra
moderna» senza steccati ideologici.
Al punto di annunciare il ritorno
all’intervento pubblico per risolvere una delle più gravi crisi
industriali del Paese: quella dell’Ilva. «Poco fa — è la sua
premessa — io ho detto che sono eroi gli imprenditori, gli
artigiani, tutti i lavoratori. Chi fa il proprio mestiere. Perché le
questioni vere sono queste: avere la possibilità di fare impresa e
creare posti di lavoro. Questa è la sinistra moderna. Il resto è
polemica inesistente».
Sarà pure inesistente ma il segretario
della Cgil, Susanna Camusso, l’ha attaccata pesantemente.
«Il segretario della Cgil ha la
necessità di tenere alta la tensione e i toni in vista dello
sciopero generale. È legittimo e comprensibile. Ma la mia priorità
è un’altra: tenere la discussione sul merito delle cose. Capisco
la Cgil ma nel frattempo noi dobbiamo cambiare l’Italia e quindi
non cado nella polemica».
Lei si pone l’obiettivo di cambiare
l’Italia. Ma a volte sembra che voglia farlo
contro il sindacato.
«No. Io lo faccio contro chi frena. Se
il sindacato ha voglia di cambiare e dare una mano, ci siamo. Ma se
pensano di bloccarci, si sbagliano di grosso. Il tema vero oggi è
creare lavoro, non farci i convegni. Affrontare crisi industriali
come quelle di Taranto, di Terni, quella dell’Irisbus. Dare nuove
tutele a chi lavora e non la polemica ideologica. Questo è il
governo che ha dato 80 euro a chi ne guadagna meno di 1500 al mese,
che punta sui contratti a tempo indeterminato. È semplicemente quel
che deve fare una sinistra moderna ».
Gli ultimi dati Istat sulla
disoccupazione, però, ci consegnano la percentuale di disoccupati
più alta dal 1977.
«Dopo il decreto Poletti, in sei mesi
di governo sono stati creati oltre centomila posti di lavoro. È un
primo segnale incoraggiante. Flebile ma incoraggiante. Nei sei anni
precedenti ne erano stati persi un milione. Ma c’è un elemento in
più: un sacco di gente sta tornando a iscriversi alle liste di
disoccupazione perché adesso avverte la speranza di trovarlo un
lavoro. Questo fa crescere la percentuale ma è anche un segno di
attività che prima mancava».
Lei davvero crede che il Jobs act possa
essere risolutivo?
«Risolutivo no.
Però so che quella legge dà garanzie a chi non ne aveva, come le
mamme con un contratto precario. Estende gli ammortizzatori sociali a
tutti. Annulla i co.co.co, co.co.pro e quella roba lì. Dunque, si
fa. Però non bastano le regole: l’occupazione si rilancia
scuotendo il Paese, facendo la lotta alla burocrazia, alla
corruzione, all’evasione. Semplificando l’accesso al credito.
Tutto questo è il compito di una sinistra moderna».
Anche l’abolizione dell’articolo 18
è un compito della sinistra moderna?
«La nuova norma servirà a sbloccare
la paura. Molte aziende non assumono perché preoccupate di un
eccesso di rigidità. Mancava certezza nelle regole. Noi stiamo
rimuovendo gli ostacoli. È anche un elemento simbolico perché si
dimostra che l’Italia può attirare gli investimenti».
Non tutti pensano che sia proprio una
riforma di sinistra.
«Per molti è una coperta di Linus.
Bisognerebbe rileggersi un intervento di Luciano Lama del ‘78,
allora cambierebbero idea. Essere di sinistra è anche garantire agli
imprenditori di fare impresa e creare posti di lavoro. Senza steccati
ideologici».
In che senso?
«A Taranto, ad esempio, stiamo
valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico.
Rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere
l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato.
Non vivo di dogmi ideologici, non sono fautore di una ideologia
neoliberista. Il dibattito sull’articolo 18, invece, è quanto di
più ideologico. Il sindacato che non ha scioperato contro Monti e la
Fornero, lo fa adesso contro il governo che ha fissato i tetti degli
stipendi ai manager, ha dato gli 80 euro e ha tagliato i costi della
politica. Noi stiamo sul merito, non sull’ideologia: sono sicuro
che molti di loro cambieranno idea quando vedranno i decreti del Jobs
act».
Facciamo un passo indietro. Che intende
per intervento pubblico sull’Ilva?
«Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione
da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento
pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché
l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto,
preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo
sul mercato ».
È la teoria sostenuta da molti
economisti, a partire da Krugman, negli ultimi anni.
«La vera partita si gioca in Europa.
Il Piano Juncker è un primo passo ma al di sotto delle mie
aspettative. Glielo diremo al prossimo consiglio europeo. Il
paradigma mondiale dovrebbe essere la crescita. Su questo sono
d’accordo destra e sinistra: Obama e Cameron, Brasile e Cina. Al
G20 in Australia molti di noi lo hanno sostenuto, ma non tutti».
Ce l’ha con la Merkel?
«Io non ce l’ho con nessuno. Ma il
dibattito in Europa è molto più complicato rispetto a quanto accade
a livello globale».
La flessibilità non può diventare una
scusa per aumentare il deficit?
«Senza la flessibilità la politica è
finita, morta, inutile. Se governare fosse solo un insieme di regole,
potrebbero governare i robot. Se l’Europa non fosse stata
flessibile, la prima a saltare sarebbe stata la Germania del
post-muro di Berlino. Quanto al deficit, il nostro dato è uno dei
migliori al mondo. Preoccupa casomai il debito. Ma in questo caso il
problema è la crescita. Solo che la crescita non arriva senza un
programma di investimenti pubblici e privati degni di questo nome.
Fuori dalla tecnicalità: è un gatto che si morde la coda...».
Ma in questa fase serve o no più mano
pubblica nell’economia?
«Dipende. Io ad esempio non sono per
la presenza pubblica in così tante municipalizzate come accade da
noi. Non vorrei passare da un eccesso all’altro. Bisogna valutare
caso per caso».
Una cosa su cui è d’accordo con
D’Alema.
«Può accadere persino questo. Ma se
penso a come furono fatte certe privatizzazioni in passato non credo
che l’accordo reggerebbe molto. Se penso al dossier Telecom, mi
rendo conto che l’enorme debito della compagnia telefonica risale a
come fu gestita la privatizzazione di quell’azienda. Diciamo che
con D’Alema sono forse d’accordo sull’intervento pubblico,
ma sono un po’ meno d’accordo sull’intervento privato,
diciamo».
In ogni caso lo scontro con una parte
del suo partito sulla politica economica del governo e sul Jobs act
pone a lei, in qualità di segretario del Pd, un problema. Come
comporre le differenze in un partito che aspira a conquistare la
maggioranza e che per forza di cose contiene al suo interno più
anime.
«Dal punto di vista culturale la
diversità aiuta e stimola il dibattito. Dal punto di vista
organizzativo invece c’è un gruppo di lavoro guidato dal
presidente Orfini. Quando poi ci sarà il premio alla lista servirà
una gestione diversa dei processi decisionali. Come si vive la
disciplina e la libertà di coscienza nel partito del ventunesimo
secolo? Come tenere insieme l’idea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria con quello bersaniano che voleva un partito
diverso dalla tradizione novecentesca ma più solido?».
E come si fa?
«Ne stiamo discutendo ma questa è la
sfida interna del nuovo gruppo dirigente Pd».
Intanto c’è chi le chiede di
anticipare il congresso.
«Chi usa strumentalmente questo tema
dimentica che alle europee abbiamo preso il 40,8%, abbiamo recuperato
4 regioni su 4 e governiamo l’Italia cercando faticosamente di
cambiare linea all’Europa. Il congresso è fissato per il 2017. Se
Zoggia o D’Attorre pensano di fare meglio potranno dimostrarlo tra
tre anni come prevede lo Statuto. Nel Pd c’è una gestione
unitaria. Non è che possiamo fare il congresso perché loro si
annoiano».
Veramente c’è chi minaccia anche la
scissione.
«Nel Pd ci sta chi ne ha voglia. Chi
minaccia la scissione un giorno sì e un giorno pure, deve chiarirsi
solo le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola
dello sgambetto al governo non funziona più».
Lei però deve decidere se il Pd può
avere al suo interno tutta la sinistra.
«Una parte di sinistra radicale ci
sarà sempre. Ma quando si va a votare, proprio il popolo della
sinistra che è già provato da quel che è accaduto in passato, ci
penserà due volte a votare per la sinistra radicale rischiando di
consegnare il paese a Matteo Salvini. Perché poi si sceglierà tra
noi e la destra lepenista. Tra la nostra riforma del lavoro e quella
della Troika».
Ha detto Salvini e non Grillo.
«Il Pd lo ha rottamato. Le europee
hanno segnato la fine del grillismo. Loro usavano la rabbia, noi
abbiamo risposto con un progetto. Ora si tratta di capire come si
muoverà la diaspora Cinque stelle. Alcuni di loro sono molto seri,
hanno voglia di fare».
Li sta reclutando?
«Non sono per fare campagne acquisti,
ma sulla lotta alla burocrazia, la semplificazione fiscale, la
scuola, secondo me ci sono i margini per fare qualcosa con una parte
di loro. Dovranno decidere se buttare via i tre anni e mezzo che
rimangono di legislatura o dare una mano al Paese».
Le ultime regionali hanno rottamato il
M5S ma sono state un segnale anche per lei.
«Perché l’astensionismo alle
regionali dovrebbe essere messo sul conto del governo? Anche l’idea
che ci sarebbe stato lo spaesamento dei lavoratori cozza con la
realtà. E allora perché non hanno votato per Sel? Avevano pure la
scusa che stava nella coalizione con Bonaccini».
Sarà altrettanto duro con Berlusconi?
Al Corriere ha detto che prima si concorda e si elegge il presidente
della Repubblica e poi si approva l’Italicum.
«Non esiste. L’Italicum è in aula a
dicembre. Lui si è impegnato con noi a dire sì al pacchetto con la
riforma costituzionale entro gennaio. Io resto a quel patto».
Berlusconi spesso cambia idea.
«Io no».
Nel frattempo le ha fatto sapere che
per il Quirinale vorrebbe Giuliano Amato.
«Io ho un unico nome: Giorgio
Napolitano. Non apro una discussione finché il capo dello Stato è
al suo posto. I nomi si fanno per sostenerli o per bruciarli. È
sempre la stessa storia dal 1955. La corsa è più complicata del
palio di Siena. E i cavalli non sono nemmeno entrati nel canapo».
Va bene, ma poiché il problema si
aprirà, lei pensa di indicare almeno un metodo?
«È bene che il presidente della
Repubblica si elegga con la maggioranza più ampia possibile. E dico
“possibile”. Ma non voglio discuterne adesso, sarebbe
irriguardoso nei confronti di Napolitano e segno di scarsa serietà
verso i cittadini».
sabato 29 novembre 2014
La paura della contestazione, gli insulti con Artini: così Beppe ha deciso di dire basta
TOMMASO CIRIACO
ANNALISA CUZZOCREA
La Repubblica 29 novembre 2014
È stata la moglie Parvin, a insistere
più di tutti: «Non puoi andare avanti così». Che fosse stanco,
esausto, svuotato da questi ultimi due anni di piazze e giornalisti
sotto casa, comizi ed espulsioni da decidere, Beppe Grillo lo aveva
confessato a tutti quelli che gli sono più vicini. E lo aveva
dimostrato nell’ultima campagna elettorale, quando il massimo che
aveva voluto fare per la Calabria era stato un video poco riuscito.
Mentre in Emilia si era deciso ad andare solo all’ultimo momento,
ritrovandosi con 100 persone al circolo Mazzini di Bologna a dire ai
suoi: «Dovete camminare con le vostre gambe».
Anche per questo, a un direttorio di
persone che possano prendere la guida dei gruppi parlamentari e fare
da interfaccia nei territori, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio
pensavano da tempo. Ed erano mesi che i cinque prescelti andavano
periodicamente a Milano, suscitando l’invidia degli esclusi. Di chi
si considerava più adatto al ruolo di referente interno vinto,
invece, dal fedelissimo Roberto Fico, dal tessitore Luigi Di Maio,
insieme ai falchi - spesso gaffeur - Carlo Sibilia e Alessandro Di
Battista, e all’unica donna Carla Ruocco. I tempi decisi, però,
erano altri. Si sarebbe dovuto procedere prima alle espulsioni di chi
negli ultimi mesi ha messo in discussione la linea (in quella saletta
di Bologna Grillo si era lasciato sfuggire la frase: «È il momento
di fare pulizia»), e poi alla nomina dei cinque piccoli leader (che
potrebbero essere seguiti da figure analoghe per il Senato).
Non arriva a sorpresa, quindi, il passo
indietro. Ma c’è stato qualcosa che lo ha affrettato. L’assedio
degli attivisti toscani alla villa di Marina di Bibbona è stato il
punto di rottura. Ritrovarsi a chiamare la polizia non per paura di
troppi taccuini e telecamere, ma dei suoi stessi militanti, delle
loro proteste e delle loro domande, è stato il momento che ha
portato Beppe Grillo a dire «basta». Era nella sua casa al mare a
cercare tranquillità, l’altro ieri, e si è ri- trovato 50
attivisti a protestare fuori dal cancello. I suoi attivisti. Quelli
che nelle tappe toscane lo portavano a cena. Quelli che - dopo i
comizi del mattatore che gridava, a Siena, contro lo scandalo Mps -
al mattino passavano presto a pagargli l’albergo. Non aveva nessuna
voglia di parlare, il capo, ma ha dovuto farlo. Prima con il deputato
Samuele Segoni. Poi con Federica Daga, Silvia Benedetti, Massimo
Artini. Non voleva, li ha fatti aspettare a lungo, sono stati al
telefono 10 minuti: «È assurdo Beppe, siamo qui, aprici ». Lui è
uscito, ha fatto varcare ai tre il cancello, ma li ha tenuti un’ora
e mezzo lì fuori, al buio, ben lontani dalla porta di casa. E
intanto, furibondo, pensava: «Basta».
«Ha fatto una parte indegna - racconta
Artini - parlava dei clic sul sito, diceva che ci sono milioni di
visualizzazioni e che i voti non contano. Poi mi ha detto di non
preoccuparmi, che tanto rimango deputato. Allora gli ho detto
vaffanculo, Beppe. Vai a cagare». Avevate un rapporto? «Sì,
avevamo un rapporto, ma di questa giornata terribile quell’ora e
mezza è stata la peggiore». È stato un vaffa, a far scattare la
decisione. Il vaffa di un suo deputato, e le domande della giovane
Silvia Benedetti che chiedeva: «Perché ora?». E che ha fatto in
modo che all’attore consumato sfuggisse la verità: «Perché se
avessimo aspettato l’assemblea non eravamo certi di poterli
cacciare». Resta duro a ogni richiesta di ascolto, Grillo. «Non vi
fidate più di me?», continuava a chiedere, incredulo. Poi, una
volta andati via, chiama Gianroberto Casaleggio - che le cronache del
quartier generale raccontano sempre più irritato - e insieme
decidono che è il momento. Era stato Casaleggio a chiedere ai falchi
in Parlamento di mandar via «le mele marce». Loro gli hanno detto
che poteva non essere facile, e allora ogni regola è saltata: quella
di far votare prima l’assemblea, e quella (prevista dal
non-statuto, la Bibbia del Movimento) di non creare organismi
direttivi. Così, con il post in cui Grillo si dice «stanchino come
Forrest Gump», e scegliendo i nomi di coloro che dall’inizio sono
stati i più coccolati dal blog, i due creano le condizioni per il
plebiscito del 91,7 per cento arrivato poco dopo le sette di sera.
«Da noi le prime, le seconde e le terze file si decidono in base ai
like ottenuti su Facebook », diceva qualche tempo fa il deputato
Tancredi Turco. In qualche modo, è stato profetico.
Chi racconta della crisi di Grillo,
però, dice che in realtà è cominciata prima di quel brutto giovedì
notte. Precisamente, il 14 ottobre scorso, quando - il giorno dopo la
riuscita tre giorni del Circo Massimo - era andato a fare un giro
nella sua Genova ferita dall’alluvione per sentirsi gridare da un
angelo del fango: «Vieni qui, ti sporchi un po’, ti fai fare le
foto. Vai via!». Si era infuriato, Grillo. Era fuggito in motorino
sulla collina di Sant’Ilario. Dov’è tornato ieri mattina, dopo
l’assedio di Bibbona. Tocca ai «ragazzi», come li chiama lui,
vedersela con le altre espulsioni. Tocca a loro, ascoltare proteste e
lamentele. Il capo è stanco, e - per ora - resta a guardare.
A SANGUE FREDDO
GAD LERNER
La Repubblica 29/11/14
È ricominciata in Italia la caccia al
rom, o zingaro che dir si voglia, da sempre il più comodo e popolare
dei bersagli con cui prendersela quando anche tu vivi ai margini e te
la passi male.
Solo che stavolta la caccia al rom
viene orchestrata da piromani a sangue freddo. Smaliziati cercatori
della prova di forza a contatto diretto col nemico etnico.
Professionisti che mirano all’incendio delle periferie
metropolitane, dove si contendono i marciapiedi con i centri sociali
antagonisti. È lì, nel vuoto della politica, che costoro hanno
intravisto lo spazio in cui costruire un nuovo polo di destra
radicale. Una destra verdenera, o fascioleghista, pronta a plasmarsi
sul modello di un alleato robusto come il Front National di Marine Le
Pen. Il loro credo è l’etno-nazionalismo, il loro faro è Putin,
la costruzione da abbattere è l’Europa.
Ma intanto si comincia dal basso:
dall’insofferenza degli inquilini delle case popolari quando i
nuovi assegnatari o, peggio, gli occupanti abusivi, sono le famiglie
rom e sinti che hanno lasciato i campi nomadi, come succede nei
quartieri milanesi del Lorenteggio e del Giambellino. Oppure dalla
richiesta di chiudere quegli stessi campi nomadi in cui — parole
del consigliere comunale vicentino Claudio Cicero — agli zingari
piacerebbe «vivere nella sporcizia, come i maiali ».
Ieri a Roma gli studenti organizzati da
Casapound hanno bloccato l’uscita ai residenti del campo di via
Cesare Lombroso, impedendo ai bambini di andare a scuola. Come sempre
avviene, i prevaricatori capovolgono la realtà atteggiandosi a
vittime che finalmente trovano il coraggio di reagire. I manifestanti
reggevano uno striscione appositamente studiato: “Stop alle
violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono”. Sarebbero
loro, il drappello d’avanguardia degli italiani coraggiosi. E poco
importa che la devianza e la criminalità diffuse nei campi nomadi
non rappresentino certo la fonte principale della sofferenza sociale
cresciuta con la povertà materiale e la miseria culturale. Sono
nemici per lo più inoffensivi ma fisicamente riconoscibili,
difenderli risulta impopolare, e quindi vanno additati come corpo
estraneo, stranieri anche quando si tratti di rom e sinti con la
cittadinanza italiana.
L’operazione politica, studiata a
sangue freddo, prevede il gesto ardito, la provocazione, il contatto
diretto. Come il blitz mascherato da “ispezione” architettato da
Matteo Salvini al campo sinti bolognese di via Erbosa, con il seguito
prevedibilissimo dell’aggressione su cui il segretario leghista ha
lucrato elettoralmente.
Da allora il meccanismo è stato
replicato più volte a favore di telecamere. Ci sono trasmissioni
televisive specializzate nella messinscena della rabbia popolare
costruita ad arte. Si mettono d’accordo con Mario Borghezio che
naturalmente si presta volentieri e finge di voler fare un
sopralluogo, di volta in volta a un campo rom o a un centro
d’accoglienza per rifugiati stranieri. Ne scaturisce una gazzarra.
Oppure si convocano insieme il comitato dei cittadini arrabbiati e un
paio di malcapitati rom, scatenando il putiferio.
Borghezio, eletto nella lista romana
della Lega Nord con il sostegno di Casapound, rappresenta l’anello
di congiunzione ideale di questa estrema destra nascente. Trova
sempre un microfono compiacente, proprio lui che definì “vero
patriota” il generale serbo-bosniaco Mladic, cioè il boia di
Srebrenica; e che ammise di riconoscersi nelle idee del fanatico
norvegese Anders Breivik, autore della strage di Utoya. Neanche
questo basta a limitare il suo spazio mediatico, nell’autunno della
rabbia.
La crisi della destra
post-berlusconiana libera pulsioni reazionarie sempre in cerca
dell’incidente, alimentando un clima di violenza dagli esiti
imprevedibili. La caccia al rom stavolta non è un moto spontaneo, ma
un vero e proprio cinico progetto politico.
«Taglierò il welfare agli immigrati».
Corriere della Sera 29/11/14
f.cavalera
David Cameron va ancora all’attacco:
taglierò il welfare ai migranti che arrivano dall’Unione Europea.
Propone, nel caso di riconferma a Downing Street, di congelare per
quattro anni i crediti d’imposta e gli aiuti sulla casa ai
lavoratori a basso reddito che arrivano dalla Ue. Ipotizza di
rispedire in patria chi non trova occupazione entro sei mesi.
Promette di rimuovere i contributi per i figli a carico se risiedono
fuori dal Regno Unito. E prefigura il blocco per i cittadini dei
nuovi paesi aderenti alla Ue se «le loro economie» non
convergeranno coi parametri europei. Le parole sono pesanti e, a
prima vista, mettono Cameron di nuovo in rotta di collisione con
l’Europa.
Ma dietro al discorso che il leader conservatore ha
fatto ieri, tutto centrato sulla necessità di disincentivare i
flussi d’ingresso attraverso la soppressione dei generosi benefici
sociali oggi previsti per la manodopera non qualificata (soprattutto
dall’Est), c’è una lunga mediazione sia con la cancelliera
Merkel, con la quale Cameron si è consultato fino a poco prima del
suo intervento, sia con il presidente della Commissione, Juncker.
Ed
è stato proprio il pressing congiunto di Berlino e Bruxelles a
mitigare i contenuti della posizione del premier britannico che
infatti ha rinunciato a porre la questione delle «quote» (il tetto
annuale alle immigrazioni), poi a riconoscere la fondatezza del
principio della «libera circolazione» delle persone nell’area
europea (cardine dei trattati), infine a ribadire che comunque
occorrerà negoziare coi partner dell’Europa, escludendo atti
unilaterali. Così il commento di Juncker è morbido: «La sua
posizione va ascoltata senza drammi».
La sortita di Cameron, in
sostanza, occorre leggerla in doppia chiave. Per quello che non dice
(ad esempio non cita provvedimenti che sarebbero incompatibili con lo
spirito dei patti europei), allineandosi con i «consigli» della
signora Merkel ed evitando di isolarsi in un angolo. E per quello che
dice, con vigore, ma che risponde tanto alla necessità di lanciare
un manifesto elettorale quanto all’esigenza di nascondere il
fallimento della sua promessa del 2010. Allora, correndo per Downing
Street e incalzando i laburisti, disse: taglierò il saldo migratorio
e lo conterrò in poche migliaia.
Sfortunatamente per Cameron i
dati, che l’Ufficio Nazionale di Statistica ha diffuso proprio alla
vigilia del suo discorso, sono una solenne bocciatura di quei vecchi
impegni. Nell’ultimo anno, dal giugno 2013 al giugno 2014, sono
stati registrati 583 mila immigrati (228 mila sono cittadini Ue) e
323 mila emigrati.
Il bilancio parla di uno squilibrio di 260
mila unità, con un più 78 mila (quasi la metà rumeni e bulgari)
rispetto ai dodici mesi precedenti. Cinque anni di coalizione fra
conservatori e liberaldemocratici hanno prodotto un risultato opposto
a ciò che era stato proclamato con enfasi. La forza lavoro di
provenienza Ue è di 1,7 milioni su 2,9 milioni complessivi di
lavoratori immigrati. Sono i numeri che spiegano gli ultimi strappi
di Downing Street.
Il leader tory deve destreggiarsi fra
l’arrembante Nigel Farage che lo accusa di avere fatto sempre
«promesse disoneste», il mondo del business che lo invita a «non
calpestare il valore europeo della libera circolazione di manodopera»
e i partner, Merkel in testa, che lo spingono a maggiore cautela.
L’intervento di ieri, forte e populista ma non di irrimediabile
rottura, è un gioco d’equilibrio e d’azzardo insieme. La cui
efficacia sarà verificata con il voto di primavera.
Scuola Puond
La Stampa 29/11/2014
massimo gramellini
L’immagine rilanciata dai titoloni
dei media sembra l’inizio urticante di un film dove nessuno si
salverà. Eccola: in un punto della sterminata periferia romana
appaiono cinquecento ragazzi che inalberano cartelli dai caratteri
fascisti inneggianti all’italianità offesa e cercano di impedire
ai bambini del vicino campo rom di andare a scuola. Nella totale
assenza di qualsiasi rappresentante dello Stato, per esempio la
polizia.
Poi fioccano le ricostruzioni. I
manifestanti di Casa Pound sostengono di essersi limitati a
picchettare due istituti superiori, bersaglio nei giorni scorsi di un
lancio di pietre da parte dei rom. Le cooperative di sinistra che
lavorano con i nomadi negano il lancio di pietre e ribadiscono la
versione emotivamente più dura: il picchetto fascista ha impedito ai
bambini rom che frequentano le elementari di uscire dal campo per
raggiungere le loro classi. Mi auguro con tutto il cuore che abbiano
torto, perché picchettare una scuola è la cosa più feroce e
stupida che si possa fare. La scuola è l’unica timida speranza che
abbiamo di porre fine a queste guerre tra poveri che non si parlano,
non si capiscono e perciò si odiano. Altro che impedire ai piccoli
rom di frequentarla. Bisognerebbe trascinarvi anche quelli, purtroppo
ancora moltissimi, che vengono indotti a sfuggirla per andare a
mendicare. Quanto ai fascisti di Casa Pound, non riesco a credere -
ma nemmeno a dimenticare - che Grillo e Salvini li abbiano
legittimati come interlocutori democratici, in questa Repubblica che
ha ripudiato i propri genitori e vaga sbandata e vergognosa in cerca
di identità.
Grillo, il patrimonio dilapidato
Gian Antonio Stella
Corriere della Sera 29 novembre 2014
Crisi di un leader che si era illuso di
poter avere il Paese in pugno
«Sono un po’
stanchino», ha scritto sul suo blog citando Forrest Gump. C’è da
credergli: come Tom Hanks nel film di Robert Zemeckis era partito
così, senza una meta precisa («Quel giorno, non so proprio perché
decisi di andare a correre un po’») e si era ritrovato con
l’illusione di avere in pugno il Paese. Dove abbia cominciato,
Beppe Grillo, a sprecare l’immenso patrimonio che di colpo si era
ritrovato in dote alle elezioni del 2013 non si sa. Forse il giorno
in cui apparve sulla spiaggia davanti alla sua villa con quella
specie di scafandro, misterioso e inaccessibile come un’afghana
sotto il burka. Forse quando, avvinazzato dai titoli dei giornali di
tutto il mondo, rifiutò per settimane ogni contatto con la «vil
razza dannata» dei giornalisti nostrani compresi quelli corteggiati
nei tempi di vacche magre. Forse quando, scartando a priori ogni
accordo, plaudì ai suoi che rifiutavano perfino di dire buongiorno
agli appestati della vecchia politica o si disinfettavano se per
sbaglio avevano allungato la mano a Rosy Bindi. O piuttosto la sera
in cui strillò al golpe e si precipitò verso Roma invocando onde
oceaniche di «indignados»: «Sarò davanti a Montecitorio stasera.
Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Qui
si fa la democrazia o si muore!». Dopo di che, avuta notizia di
un’atmosfera tiepidina, pubblicò un post scriptum immortale: «P.s.
Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in
piazza. Domattina organizzeremo un incontro...». E le barricate
contro i golpisti? Uffa...
Certo è che mai
ora, dopo aver perso tra abbandoni ed espulsioni 15 senatori e 7
deputati con la prospettiva di perderne altri ed essere uscito a
pezzi dalle ultime regionali che aveva solennemente annunciato di
stravincere («Ci dobbiamo prendere Calabria ed Emilia-Romagna. Sarà
un successo, mai stato così sicuro») Grillo si ritrova a fare i
conti con un dubbio: non avrà perso il biglietto della lotteria? Non
sarebbe il primo. Smarrì il suo biglietto vincente Guglielmo
Giannini, dopo aver portato con l’Uomo Qualunque trenta deputati
(tantissimi: il quadruplo degli azionisti) all’Assemblea
costituente. Lo smarrì Mario Segni, che dopo il referendum pareva
destinato a raccogliere l’eredità della Dc. Lo ha smarrito Antonio
Di Pietro, del quale Romano Prodi disse «quello si porta dietro i
voti come la lumaca il guscio».
I voti perduti
Il guaio è che lui stesso sembra
sempre meno convinto di esser ineluttabilmente destinato a vincere. E
fa sempre più fatica a spacciare per vittorie certe batoste. E in
ogni caso, ecco il problema principale, sono sempre meno convinti di
vincere quanti avevano visto in lui l’occasione per ribaltare
tutto. Non ripassano, certi autobus. Una volta andati, ciao. Prendete
la Calabria: conquistò 233 mila voti (quasi il 25%), alle politiche
del 2013. Ne ha persi l’altra settimana duecentomila. E quando mai
li recupererà più? Con questa strategia, poi! «Non ci sono più
parole per descrivere il lento e inesorabile, ma tutt’altro che
inevitabile, suicidio del Movimento 5 Stelle», ha scritto ieri Marco
Travaglio, che pure non faceva mistero di averlo votato. «Un
suicidio di massa che ricorda, per dimensioni e follia, quello dei
912 adepti della setta Tempio del Popolo, che nel 1978 obbedirono
all’ultimo ordine del guru, il reverendo Jim Jones, e si tolsero la
vita tutti insieme nella giungla della Guyana».
Citazione
curiosamente appropriata. Basti riprendere un numero di «Sette» del
1995. Il titolo di un’intervista all’allora comico diceva tutto:
«Quasi quasi mi faccio una setta». Beppe Grillo non era già più
«soltanto» un istrione da teatro. Girava l’Italia in 60 tappe con
lo show «Energia e informazione», irrompeva all’assemblea della
Stet rinfacciando all’azienda telefonica i numeri hot a pagamento,
attaccava le multinazionali, incitava ad «accelerare la catastrofe
economica. Per l’esplosione del consumismo. Potremmo comprare cose
inesistenti: elettroseghe per il burro, spazzolini da due chili
monouso che dopo esserti lavato una volta li butti in mare per
ammazzare i pesci...». Faceva ridere. E spiegava che proprio per
quello gli andavano dietro: «Perché sono un comico. Perché non
fabbrico niente. Perché chi parla contro i gas fabbrica le maschere
antigas. Invece io, non vendendo né gas né maschere antigas, sono
credibile. Che ci guadagno?». Ed è su questa domanda che è andato
a sbattere. Brutta bestia, il potere. Guadagnato quello, il bottino
più ambito di chi fa politica, è andato avanti sparandola sempre
più grossa. Nella convinzione che ogni urlo, ogni invettiva, ogni
insulto portasse ancora voti, voti, voti...«Ogni voto un calcio in
culo ai parassiti che hanno distrutto il Paese». «Facendo a modo
nostro saremo più poveri per i prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio
più felici». «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno».
«Il Parlamento potrebbe chiudere domani. È un simulacro, un
monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».
«Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di
Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati
dall’eroe».
Parole pesanti
E via così. Anche sui temi più
ustionanti, dove non è lecito esercitare il battutismo: «La mafia è
emigrata dalla Sicilia, è andata al Nord, qui è rimasta qualche
sparatoria, qualche pizzo e qualche picciotto». «Hanno impedito a
Riina e Bagarella di andare al Colle per la deposizione di Napolitano
per proteggerli: hanno già avuto il 41 bis, un Napolitano bis
sarebbe stato troppo». «La mafia è stata corrotta dalla finanza,
prima aveva una sua condotta morale e non scioglieva i bambini
nell’acido. Non c’è differenza tra un uomo d’affari e un
mafioso, fanno entrambi affari: ma il mafioso si condanna e un uomo
d’affari no». Una cavalcata pazza. Perdendo uno dopo l’altro
amici, simpatizzanti, osservatori incuriositi. Di nemico in nemico.
«Adesso Schulz dice che io sono come Stalin. Ma un tedesco Stalin
dovrebbe ringraziarlo, altrimenti Schulz sarebbe in Parlamento con
una svastica sulla fronte. Schulz, siamo un venticello, lo senti?
Arriva un tornado, comincia a zavorrarti attaccato alla Merkel perché
ti spazzeremo via». «Noi non siamo in guerra con l’Isis o con la
Russia, ma con la Bce!». «Faremo i conti con i Floris e i
“Ballarò”... Io non dimentico niente. Siamo gandhiani ma gli
faremo un culo così...».
E poi barriti
contro le tasse: «Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse
questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio».
Contro l’ultimo espulso: «Un pezzo di merda». Contro Equitalia:
«È un rapporto criminogeno tra Stato e cittadini». Contro
l’inceneritore di Parma: «Chi mangerà il parmigiano e i
prosciutti imbottiti di diossina?» Contro gli immigrati: «Portano
la tubercolosi». Sempre nella convinzione che il «suo» movimento
potesse prendere voti a destra e a sinistra, tra i padani e i
terroni, tra i qualunquisti e i politicizzati al cubo. Un
«partito-tutto» contro tutto e tutti. Finché, di sconfitta in
sconfitta, non si è accorto che qualcosa, nel rapporto col «suo»
popolo, si stava incrinando. Che lui stesso stava smarrendo l’arte
superba di saper mischiare insieme la potenza della denuncia e la
leggerezza dei toni. Finché arrivò il momento che, in una piazza
qualsiasi, si accorse che la solita battuta non tirava più. Capita
anche ai clown più ricchi di genio. Ma loro, se vogliono, possono
inventarsi un altro numero.
venerdì 28 novembre 2014
Lo stipendio nascosto (dal manager).
Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
«Ho chiesto: dato che la Regione è
l’unico azionista dell’Aeroporto, posso sapere che stipendi
avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». Lo ha
raccontato sere fa, scandalizzata, la governatrice del Friuli Venezia
Giulia Debora Serracchiani: «Ma se sono soldi pubblici!»
La
Presidente della regione autonoma, che ha anche il ruolo di
vicesegretaria del Pd, ospite della Camera di Commercio di Udine che
premiava i protagonisti dell’economia friulana, era intervistata
dal direttore del Messaggero Veneto, Tommaso Cerno. Il quale
insisteva su due problemi, il degrado inaccettabile della fortezza
veneziana di Palmanova (nonostante la buona volontà
dell’amministrazione comunale, della protezione civile e di
migliaia di cittadini coinvolti come volontari nella pulizia delle
mura) e la crisi dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari sul quale
il quotidiano spara a zero da settimane. È lì che la governatrice
si è tolta quel sassolino dalla scarpa. Rivelando di avere
inutilmente chiesto quali fossero i compensi ai vertici
dell’Aeroporto, cioè al presidente e amministratore delegato
nominato dalla vecchia maggioranza di destra Sergio Dressi (che dopo
essere stato in gioventù un camerata duro e puro ha da anni optato
per giacca, cravatta e poltrone da Grand Commis) e al direttore
generale Paolo Stradi.
Risposta: picche. O meglio, parte degli
stipendi è stata comunicata ed oggi è on-line sul sito della
Regione alla voce amministrazione trasparente. Ma non quello del
direttore generale. Il più pagato di tutti. Nella sua casella c’è
scritto: «compenso deliberato: dati non trasmessi». E poi «compenso
effettivamente percepito: dati non trasmessi».
Secondo lui,
infatti, come ha scritto in una lettera alla presidenza regionale, è
vero che la Regione possiede tutte le quote della società, ma la
società aeroportuale resta comunque una S.p.A. regolata dalla legge
per le società per azioni. Quindi, dice, non ha nessunissimo dovere
di fornire informazioni al socio proprietario. Un parere
dell’Avvocatura dello Stato dice il contrario? Lui non è
d’accordo. Se la regione insiste, chiude a brutto muso, si rivolga
al suo avvocato. Fine.
Uno smacco, per la Serracchiani. Tanto
più che, racconta, aveva fatto della trasparenza delle buste paga e
della battaglia per abbassare gli stipendi perché nessuno possa più
prendere una pubblica prebenda più alta dello stipendio del
governatore regionale, una questione di principio. Macché: come ha
rivelato giorni fa sullo stesso «Messaggero» Maurizio Cescon, uno
degli autori dell’inchiesta sull’aeroporto, l’assai abbottonato
direttore generale prenderebbe (comprese le integrazioni per un altro
paio di incarichi) 255mila euro. Cioè non solo più del presidente
della giunta regionale (circa 150mila euro lordi) ma dello stesso
Giorgio Napolitano. Il tutto a dispetto dell’impegno solenne preso
da Matteo Renzi: nessun pubblico funzionario, in uno Stato serio, può
guadagnare più del Capo dello Stato. Va da sé che la polemica
divampa. Ed è giusto che sia così. Al di là della busta paga del
signor Paolo Stradi, dei cui destini personali non ci interessa un
fico secco, la domanda è: in quale altro Stato il padrone unico di
una società non ha il diritto di sapere quanto viene pagato un
dipendente? Sono o non sono soldi pubblici? Cioè dei cittadini
italiani?
Sul tema l’Authority della privacy ha già risposto
più volte. Stufa di come veniva «spesso lamentato che le pubbliche
amministrazioni giustificano la propria decisione di non fornire
informazioni ai giornalisti dietro una supposta applicazione della
legge sulla privacy», il garante ha ricordato ad esempio qualche
anno fa alla Regione Trentino Alto Adige, di aver già chiarito che
la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e poi il «Codice
privacy» non avevano per niente «inciso in modo restrittivo sulla
normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa».
Dunque «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può
essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso
ai documenti». A farla corta: un conto sono i dati strettamente
personali sulle malattie, le preferenze sessuali, la fede religiosa
di ciascuno, dati che devono essere assolutamente segreti, un altro
le «situazioni patrimoniali di coloro che ricoprono determinate
cariche pubbliche o di rilievo pubblico». Ed è o non è,
l’aeroporto triestino, una struttura pubblica pagata con soldi
pubblici da un ente pubblico?
Non bastasse, la tignosa
resistenza avviene a fronte di risultati sconfortanti. Basti
rileggere le accuse: voli sempre più rari, prezzi stratosferici
(fino a 613 euro per un biglietto Trieste-Monaco di Baviera: il costo
di un andata e ritorno per New York), un calo del 16% dei passeggeri,
clienti in fuga verso gli scali di Venezia o Lubiana, parti
dell’aerostazione che si allargano ad ogni acquazzone un po’ più
forte, sindacati furibondi perché il contratto integrativo dei
lavoratori «è bloccato per la parte economica dagli anni 90»... E
la Regione lì, costretta a tappare i buchi e a pagare 6,7 milioni di
euro nel 2015 per tenere in vita l’aeroporto distribuendo denaro
alle compagnie purché non se ne vadano.
Eppure, ecco la
reazione di Sergio Dressi alla fuga di notizie sugli stipendi: «Chi
ha diffuso quelle notizie, che non sono note neanche al Consiglio di
amministrazione, non ha fatto bene all’aeroporto...» Ma come:
neppure il CdA ne sapeva niente? Evviva la trasparenza.
Per tangenti 5 anni a Guarischi Expo, patteggiano Greganti e Frigerio.
Corriere della Sera 28/11/14
Luigi Ferrarella
Giornata di sentenze a Milano nei
processi per tangenti. Su Expo, nell’inchiesta dei pm Gittardi e
D’Alessio coordinata dal pm Boccassini, dall’arresto ai
patteggiamenti ratificati dal gup Ambrogio Moccia sono passati appena
200 giorni: 3 anni e 4 mesi inflitti all’ex parlamentare dc e Forza
Italia Gianstefano Frigerio, 3 anni (e 10 mila euro di risarcimento)
all’ex funzionario pci Primo Greganti, 2 anni e 8 mesi (e 50 mila
euro) all’ex senatore pdl Luigi Grillo e all’ex udc e ncd ligure
Sergio Cattozzo; 2 anni e 10 mesi all’imprenditore Enrico Maltauro,
2 anni 6 mesi e 20 giorni (con 100 mila euro) all’ex general
manager di Expo Angelo Paris. Altri giudici di primo grado
(presidente Oscar Magi) hanno condannato, per tangenti nella sanità
scoperte dai pm Gittardi e D’Alessio, l’ex consigliere regionale
di Forza Italia, Massimo Gianluca Guarischi, a 5 anni, 447 mila euro
confiscati, e 1 milione di danni alla Regione, il cui ex presidente
Roberto Formigoni è coindagato di Guarischi (che pagò parte di
vacanze comuni in Croazia, Sudafrica e Sardegna) in un separato
filone per corruzione e turbativa d’asta. Assolto Luigi Gianola, ex
dg dell’ospedale di Sondrio, che fece 3 mesi in carcere e 6 ai
domiciliari.
La base contesta il blog che tutto controlla: Beppe e Casaleggio, non vi reggiamo più.
Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
Il giorno del dramma collettivo via
web. L’anima, la base dei Cinque Stelle, torna — come già
accaduto dopo il post contro Federico Pizzarotti — in massa sul
blog: per contarsi, commentare, dar vita a una sorta di flusso di
coscienza virtuale. Gli attivisti protestano, in larga parte, contro
il sito. E osteggiano chi sostiene la linea dettata da Beppe Grillo e
Gianroberto Casaleggio. La votazione su Massimo Artini e Paola Pinna
spiazza i militanti. «Che amarezza, mi son sentito tradito...»,
commenta Raffaele Carbone. È la sintesi di un malessere
diffuso.
Qualcuno chiede tempo. «Difficile giudicare in poche
ore....con una cosa che ti piomba dal nulla», dice Elena Mazzoni.
Molti, moltissimi si schierano in difesa dei due dissidenti, chiedono
un approfondimento, dibattono — in modo acceso — sui documenti
pubblicati dai due deputati esposti alla graticola del voto. «A
occhio e croce (Pinna, ndr ) si è tenuta più o meno il doppio di
quanto stabilito», assicura Franco Red. Una fetta dell’elettorato
Cinque Stelle è compatta con gli ortodossi. Per Floriana «gli
infedeli non devono rimanere». «Due avidi in meno nel movimento per
tanti cittadini un po’ più forti», commenta Giorgio Montagna. Ma
quello che prevale è la rabbia e lo sconforto.
«Autogol»,
«delusione» e molte parole dalle tinte oltremodo accese: tracima di
tutto dalla Rete. Chi contesta, sbatte la porta. Come Sandro
Devescovi: «Complimenti per la solita infamia targata Grillo —
dice —. Adesso basta, io mi riprendo volentieri il mio voto. Ora
potete andare tranquillamente a svanire nei meandri della già
tormentata storia d’Italia». Il tono è quello di un commento,
lapidario, «Beppe e Gianroberto nun ve regghe cchiù». Emerge anche
la preoccupazione di chi vede svanire un modello politico in cui
crede. Qualcuno avverte: «Stiamo facendo il gioco di Renzi e
Berlusconi». E ancora: «Complimenti a tutti, ci stiamo
autodistruggendo». Il film della giornata scorre sui byte. Si nutre
della Rete, che fagocita velocemente le frasi. Il contatore dei
commenti sale a ritmo vorticoso, quasi duemila in pochissime ore,
battendo record anche dei tempi d’oro, quando il Movimento
veleggiava verso il boom delle Politiche o quando Grillo sfornava il
primo V-Day, alba dei (futuri) meet-up.
Quando arriva l’esito
della votazione si ha l’idea della voragine che sta squarciando il
mondo Cinque Stelle. A votare sui 500 mila registrati sul blog e
sugli oltre 100 mila accreditati sono solo 27.818, che sanciscono un
(quasi) plebiscito per le espulsioni (pari al 69,8%). Ma il dato non
sfugge alla Rete: solo lo scorso febbraio, per decretare l’addio
forzato di Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella, Lorenzo Battista
e Luis Alberto Orellana, si contarono 43.368 elettori.
I
ventisettemila che ieri hanno fatto sentire la loro voce sono il 62%
rispetto a febbraio, un 38% è diventato invisibile. Numeri, solo
numeri ma che danno l’idea di uno scollamento, che comunque
travalica le mura del blog. E invade anche i social network. Molti
pungono («A me le dinamiche di epurazione all’interno del #m5s
generano grosse risate e zero riflessioni», afferma Domenico
Marcella).
L’ombra di una frattura, a qualcuno, appare anche
il preludio di un nuovo progetto: «Chi parla di scissione sappia che
io, ex elettore #M5S, sono pronto a rivotare qualsiasi cosa nasca dal
M5S senza Casaleggio. E come me tanti», commenta Piero Giovatti. I
pentastellati critici usano contro Grillo e il blog le stesse armi
che lo hanno aiutato a crescere, a esplodere. Su Twitter impazzano
hashtag coniati apposta:
#nerimarràsolo1,#grandefratello,#BeppeQuestaVoltaNonCiSto...
L’amarezza della base qui si mescola all’ironia. «Scissione nel
Pd scissione nel centrodestra ed ora scissione anche nel #m5s è
questa l’Italia che #riparte», scrive Angelo Sica. Qualcuno, anche
tra chi sostiene i pentastellati, prova a riderci sopra. A scacciare
lo spettro di una divisione con una battuta, più o meno salace. I
sorrisi non cancellano la delusione, ma resta la speranza che domani
sia davvero un altro giorno. Per cambiare orizzonti .
«Combatto il terrorismo anche per voi Se vince in Libia arriva fino a casa vostra».
Corriere della Sera 28/11/14
corriere.it
Dal nostro inviato Al Marj (Libia)
Generale Haftar, state per conquistare Bengasi?
«Lo spero.
L’importante è che il parlamento libico lasci Tobruk e torni a
lavorare nella città liberata dalle milizie islamiche. Il mio
compito è di portarcelo. Mi sono dato una deadline: il 15
dicembre…».
Di colpo, salta la luce e gli uomini della
sicurezza gli sono subito addosso. Nel buio, il generale dice «è la
guerra a Bengasi, afwan »: scusate… L’unico sorriso che ci
concede è di sollievo, quando la stanza si riaccende. Vecchio uomo
nuovo della rivoluzione libica, una faccia socchiusa alle emozioni, a
71 anni Khalifa Haftar sa maneggiare la paura. Il più osservato dai
lealisti di Tobruk e dalle milizie di Zintan, che sospettano della
sua ambizione. Il più odiato dai fratelli musulmani di Tripoli, che
hanno messo una taglia su di lui temendone i grandi protettori al
Cairo e nel Golfo. Vive nascosto tra questa casamatta color senape
dell’eliporto di Al Marj, l’antica Barca alle porte di Bengasi, e
decine di rifugi che cambia ogni notte. Sospettoso di tutti,
irraggiungibile da molti. Ci vogliono due settimane d’appuntamenti
mancati, i fedelissimi della brigata 115-S che ti svitano pure la
biro, e controllano ogni pulsante del fotoreporter Gabriele
Micalizzi, prima d’arrivare a stringergli la mano e chiedergli
un’intervista in esclusiva per il Corriere . Tre figli al fronte
con lui. Due figlie all’estero sotto copertura. Dopo vent’anni
d’America, a metà fra la guerra lampo e il golpe, lo scorso
febbraio il generale è spuntato dal nulla e ha lanciato la sua
Operazione Karama (dignità) contro gl’islamisti di Alba libica e
Ansar al Sharia. Alle spalle ha un piccolo mappamondo. In mente, una
Libia senza barbe fanatiche. Nel cuore, un antico condottiero
dell’Islam: «Khaled Ibn Al Walid. Lo conosce? E’ il più grande
stratega della storia. Prima combatté i musulmani, poi si convertì
e si mise con loro. Senza perdere mai una battaglia. Ancora oggi uso
certe sue tattiche…».
Come quella su Tripoli?
«Con Tripoli è solo l’inizio:
ci servono più forze, più rifornimenti. Mi sono dato tre mesi, ma
forse ne basteranno meno: gl’islamisti d’Alba libica non sono
difficili da combattere, come non lo è l’Isis che sta a Derna. La
priorità resta Bengasi: Ansar al Sharia è ben addestrata, richiede
più impegno. Anche se non ha grandi strateghi militari e ormai siamo
in vantaggio: controlliamo l’80 per cento della città».
A
Vienna i leader mondiali hanno detto che il vuoto di potere, in
questa guerra civile, fa paura.
«Finalmente se ne accorgono. Il
parlamento a Tobruk è quello eletto dal popolo. Quella di Tripoli è
un’assemblea illegale e islamista che vuole portare indietro la
storia. Ma la vera minaccia sono i fondamentalisti che cercano
d’imporre ovunque la loro volontà. Tripoli s’affida a loro,
lascia che combattano contro di noi a Bengasi. Ansar al Sharia usa la
spada in tutto il mondo arabo ed è appena finita nella lista Onu del
terrorismo. Se prende il potere qui, la minaccia arriverà da voi in
Europa. Nelle vostre case».
Vuol dire che lei sta combattendo
per noi?
«Certo. Combatto il terrorismo nell’interesse del mondo
intero. La prima linea passa per la Siria, per l’Iraq. E per la
Libia. Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da
questa parte di Mediterraneo. Attraverso l’immigrazione illegale,
ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti
fedeli ad Ansar al Sharia o all’Isis: quanti italiani sanno che
davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si
tagliano le teste? L’Europa deve svegliarsi».
S’aspetta un
sostegno in armi, come quello dato ai curdi?
«Non c’è bisogno
di venire e dirvi: per favore, aiutatemi. Siete voi che dovete capire
se è il caso di aiutare Haftar. L’Egitto, l’Algeria, gli
Emirati, i sauditi ci mandano armi e munizioni, ma è tecnologia
vecchia. Non chiediamo che ci mandiate truppe di terra o aerei a
bombardare: se abbiamo le forniture militari giuste, facciamo da noi.
Il mondo vede i nostri soldati decapitati, le autobombe, le torture:
potete accettare tutto questo?».
Vuole ricacciare in un angolo
i fratelli musulmani: Haftar si candida a essere per la Libia quel
che è stato il generale Al Sisi per l’Egitto?
«L’Egitto e Al
Sisi sono una cosa molto diversa dalla Libia. L’unica cosa in
comune è che finalmente sono i popoli a scegliere. Poi, c’è la
mia posizione politica. Ho iniziato Karama per rispondere alla
richiesta dei libici che non ne potevano più. Se sarà necessario,
continueremo insieme la nostra battaglia militare e poi
politica».
Operazione Dignità: l’ha inventato lei, questo
nome?
«Certo. Ci sono due parole: operazione, che significa il
percorso militare per raggiungere un risultato; karama, che nasce
dalla domanda “di che cosa abbiamo bisogno?”. L’ho chiesto ai
miei ufficiali. Molti suggerivano il nome d’Omar Mukhtar, l’eroe
libico. Ma quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò
Mukhtar. Dignità è una parola che dà la speranza in qualcosa che i
soldi o il petrolio non ti possono dare».
Amnesty ha avuto
parole molto dure sulle sue milizie. E si dice che lei sia pagato
dagli Usa: gli americani che la liberarono da una prigione del Ciad,
quando Gheddafi l’aveva mollata; la Cia che le diede casa a pochi
chilometri dalla sua sede di Fort Langley…
«Karama non è legata
ad altri Paesi. Nasce dai libici. Io sto combattendo una guerra
chiara e trasparente a pochi chilometri da dove sono nato. Ho fatto
molte campagne, dal Kippur al Ciad, sono abituato alla vita militare,
ma questa è la mia sfida più dura. Purtroppo, ci sono politicanti
che mestano nel torbido, m’associano alla Cia per screditarmi».
Si
può dire almeno che gli americani l’apprezzeranno, se riuscirà a
vendicare l’uccisione del loro ambasciatore a Bengasi, Chris
Stevens…
«Deborah Jones, l’ambasciatrice Usa, non mi
sponsorizza, tutt’altro. Quando l’ho sentita parlare, ho pensato
che piuttosto sostenesse i Fratelli musulmani: Washington sta
giocando una partita ambigua e doppia, come gli europei…».
Ha
parlato della sua guerra del Kippur: accetterebbe un aiuto da
Israele?
«Il nemico del mio nemico è mio amico. Perché no? Ma
non credo che Israele mi appoggerebbe, sono troppo impegnati a
destabilizzare la Libia attraverso il terrorismo».
Sa che si
dice in Italia? Che piuttosto di questo caos, era meglio tenersi
Gheddafi.
«Questo caos è figlio di Gheddafi. Del suo regime.
D’una certa mentalità in cui ha cresciuto i libici. Io ero molto
amico suo. L’ho aiutato a salire al potere nel 1969, gli ho
insegnato molte cose militari. Poi mi sono distaccato e non lo volevo
più al potere, ma non mi è piaciuto com’è stato eliminato. In
quel modo barbaro. Senza un processo, che invece sarebbe stato un
esempio da dare al mondo. Ci sono popoli che non hanno un leader e ci
sono leader che non hanno un popolo: l’avessimo processato, avrei
voluto chiedergli perché aveva rinunciato al popolo».
Lei ce
l’ha, un popolo?
«In Libia molti mi amano. Ma tengo sempre a
mente che un leader dev’essere come un genitore o un buon
insegnante: si fa rispettare, senza seminare il terrore».
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