Il pericolo vero è la rassegnazione del paese di fronte alla crisi.
Per le riforme proposte dal governo, l'esca lanciata dal capo Fiom è
più utile e realistica dell'accigliato e rituale "nyet" della Camusso
Nel festival delle frasi fatte c’è a chi piace interrogarsi
sull’autunno caldo che verrà, interrogarne il presidente del consiglio o
i capi dei sindacati. Senza capire, evidentemente, che l’unica stagione
della quale aver davvero paura è l’autunno freddo della recessione,
degli altiforni che si spengono (ieri l’annuncio definitivo
per l’Alcoa), degli uffici che si svuotano, e soprattutto della
rassegnazione e della passività. Il freddo dell’ultima fiducia che ti
abbandona, quella che avevi riposta in uno scatto della politica
identificato con lo slancio di Matteo Renzi.
Torna a riunirsi il governo, dovranno per forza di cose essere più
rapidi i tempi di riforme delle quali s’è molto e solo parlato, a
cominciare dallo Jobs Act. Per palazzo Chigi l’avvertimento che
deve suonare più sincero non è quello di vertici sindacali che
coltivano, non so quanto credendoci veramente, il mito della propria
capacità di mobilitare, orientare, frenare e correggere. Bensì quello
lanciato da Maurizio Landini ieri su Repubblica: «Renzi saprà che uno da solo non cambia un paese».
Questa è una grande verità. Renzi è in un certo senso indispensabile
in questo momento all’Italia, per una capacità di leadership che detiene
senza concorrenti. Ma ciò che è accaduto nell’ultimo scorcio politico
con il primo voto di trecento e passa senatori sulla fine del
bicameralismo, è vero all’ennesima potenza per le riforme del lavoro e
della pubblica amministrazione che coinvolgono milioni di persone:
bisogna andare dritti all’obiettivo, aggiustando ciò che c’è da
aggiustare, conquistando, grazie alla chiarezza e alla coerenza con gli
impegni assunti, la condivisione da parte dei soggetti attivi del
cambiamento. La capacità di comunicazione è essenziale però la
conservazione va battuta anche sul terreno, tra la gente.
In questo, rispetto a una Susanna Camusso che per la centesima volta scuote la testa e dice nyet
(permettendo, cosa gravissima, che comparti locali e settoriali della
Cgil conducano battaglie di retroguardia devastanti nei confronti degli
utenti, da Fiumicino all’Opera di Roma), Landini si conferma personalità
più interessante e moderna.
Non c’è da aspettarsi particolare cedevolezza da parte di una Fiom
essa stessa spesso, fatalmente, arroccata di fronte alla crisi e alle
chiusure. Ma Landini mostra fame di nuovi investimenti e consapevolezza
dei limiti di strumenti come lo sciopero. Non promette alcun autunno
caldo, non si imbroncia nella pretesa di consultazioni preventive,
propone invece scambio e collaborazione su riforme decise dal governo in
autonomia, a cominciare dalla definizione di un nuovo statuto dei
lavori. Con Renzi – non se se c’entrino i famosi faccia-a-faccia tra i
due – Landini condivide l’insofferenza non solo verso l’imprenditoria
familistica e di relazione, ma anche verso le danze tribali intorno ai
totem, i rituali ai quali pensa il premier quando esibisce noncuranza
verso i dissensi sindacali.
C’è una crisi drammatica che morde e affama, non si può perdere tempo
nelle liturgie da sala Verde di palazzo Chigi. Di liturgie ce ne
saranno sicuramente alcune altre, di piazza e di corteo. L’essenziale è
che l’autunno di Matteo Renzi veda l’affermarsi di alleanze solide anche
fuori dal perimetro del Palazzo, altrimenti neanche la spinta degli
undici milioni di voti conquistati potrebbe bastare.
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