Corriere della Sera 27/08/14
Maria Teresa Meli
«Dobbiamo essere protagonisti nel
mondo globalizzato»: questo è il mantra di Matteo Renzi. Lo ripete
a ogni piè sospinto. Lo ha ripetuto anche ieri quando, come si era
ripromesso, ha avocato a sé il «pacchetto scuola». «Una scuola —
scandice il premier — dove si impara sul serio». E ancora: «La
vera sfida è la scuola». Per questa ragione il presidente del
Consiglio ha in programma un «piano d’ascolto». Non solo, sulla
scuola l’inquilino di Palazzo Chigi alza la posta: «Mi
giudicherete per quello che farò in questo campo».
E in quel —
non facile campo — il premier ieri si è esercitato. Renzi sa già
che i sindacati si faranno sentire, ma non se ne preoccupa più di
tanto. «Vedrete — ha detto a chi lo ha visto ieri — che avremo
dei problemi, d’altra parte ogni innovazione comporta delle grane.
Mi auguro solo che i sindacati cambino verso anche loro. E capiscano
che in ballo è il futuro dell’Italia, quindi il futuro di tutti.
Ci giochiamo ogni cosa in questo momento». Dopodiché la sua «frase
d’ordine» è stata questa: «Sulla scuola tratto direttamente io».
Della serie: è una priorità, il presidente del Consiglio avoca a sé
la pratica.
Dunque Renzi è alle prese con la scuola: «Le linee
guida che illustreremo il 29 saranno molto importanti». E su quel
tema cerca - con successo di far puntare l’attenzione dei media, ma
il presidente del Consiglio sa benissimo che l’Europa si aspetta
anche altro da lui. Quel che deve portare all’Unione Europea —
non il 30, ma in un futuro un po’ meno immediato — è il Jobs
Act. Con il contorno della riforma fiscale.
E sulla riforma del
lavoro avrà di nuovo contro Susanna Camusso. La qual cosa non gli fa
paura: «Se i sindacati restano fermi al passato, l’Italia non
riparte». Già, Renzi è convinto che la sinistra debba «uscire
dalla sindrome del no» e, anzi, farsi protagonista del
«cambiamento». Per questa ragione moltiplica le consultazioni sui
disegni di legge che verranno, scuola inclusa.
Sul contenzioso
prossimo futuro con il sindacato il presidente del Consiglio ha le
idee chiare: «Non possiamo trattare all’infinito, a un certo punto
verrà il tempo delle decisioni e dobbiamo essere pronti per
quell’appuntamento. Altrimenti si finisce per cedere su tutto. Io
non posso farmi ricattare. Basta con la logica del “no” e del
piagnisteo. Dobbiamo scatenare le energie dell’Italia, dobbiamo
mostrarci per quello che siamo: il governo del fare».
Insomma,
l’idea del presidente del Consiglio è sempre la stessa: «Noi
siamo disponibili a trattare con tutti», spiega ai suoi Renzi. Che
non vuole alzare nessun ponte levatoio, ma che sa che sul Jobs Act si
gioca la credibilità in Europa. Ed è per questa ragione che
vorrebbe approvarlo prima del tempo che si era dato. Pubblicamente
aveva fissato come scadenza la fine dell’anno. Ora punta a mandare
tutto in porto «entro l’autunno». Operazione quanto mai
complicata ma il premier dice e ripete: «Massima disponibilità a
trattare anche con i sindacati, verso cui non c’è nessuna ostilità
preconcetta e nessun pregiudizio. Ma Camusso, Bonanni e gli altri
devono sapere che il presupposto da cui noi partiamo per trattare è
uno e uno solo: l’Italia deve fare le riforme».
Più chiaro
di così. Però per essere ancora più esplicito il presidente del
Consiglio fissa bene i paletti. Che non riguardano solo i sindacati,
ma anche «le burocrazie che fanno resistenza e cercano di ostacolare
la riforma del Paese»: «Non ha più senso chiudersi nella difesa
dei corporativismi. I sindacati, i dirigenti, i burocrati, così come
la classe politica, devono cambiare. Altrimenti, immaginare una
ripartenza è impossibile».
Ed è avendo ben chiaro in testa
questo obiettivo che Matteo Renzi, complice Giorgio Napolitano, ha
superato le diffidenze nei confronti di Mario Draghi. Il quale, a sua
volta, ha preso atto del fatto che, come gli ha spiegato il capo
dello Stato, l’attuale presidente del Consiglio è l’unica ancora
di salvezza per l’Italia.
Così ora l’inquilino di Palazzo
Chigi pronuncia parole che mai e poi mai avrebbe immaginato di poter
profferire: «Non possiamo non dirci draghiani». E, in compenso, il
gran capo della Bce ha deciso di dare una sponda al premier italiano.
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