BERNARDO VALLI
La Repubblica - 15/8/14
Il conflitto. La terza guerra in cinque
anni tra Gaza e Israele si svolge in una realtà completamente
mutata. Ora nei Paesi arabi, a partire dal regime militare del Cairo,
prevale la paura per l’Islam radicale. E così si è arrivati a un
nuovo cessate il fuoco. Hamas perde i suoi alleati ecco la
tregua degli anti-jihad
La pioggia di razzi caduta nei paraggi
di Ashkelon, a tarda sera, ci ha mandati a letto convinti che il
conflitto stesse riprendendo i suoi ritmi dopo una pausa di tre
giorni. Una vampata di pessimismo induceva a pensare a quanto sia
facile cominciare una guerra e quanto sia invece difficile
concluderla. Anche quando si tratta di un limitato ma cronico
conflitto relegato dalla grande Storia in un angolo del mondo. Al
Cairo, nelle settantadue ore di tregua, i negoziatori non avevano
dunque concluso nulla.
GERUSALEMME
LA PROVA era che, per riflesso
condizionato, l’aviazione israeliana rispondeva nella notte alle
provocazioni palestinesi con le solite incursioni dei droni su Gaza.
Tutto faceva pensare che il cessate il fuoco fosse finito prima
ancora della scadenza fissata a mezzanotte. L’indomani ci saremmo
svegliati di nuovo con il micidiale palleggio di missili e bombe
cominciato in luglio. E invece non è andata cosi.
L’umore nero si è dissolto quando
nella mattina abbiamo appreso che la pausa continuava, che ci
sarebbero stati altri cinque giorni senza morti. E che fino a lunedì
prossimo sarebbero continuate le trattative sulle rive del Nilo per
una pace sempre improbabile, ma meno impossibile. I razzi e le
incursioni della sera erano stati segnali di incertezza. Fino
all’ultimo momento al Cairo non si sapeva che fare? Era evidente
che non tutti si erano trovati d’accordo sull’opportunità di
continuare la tregua e che quello scambio di proiettili e di bombe
equivaleva a un brontolio di protesta.
Il nostro affrettato ottimismo di
osservatori stranieri non era condiviso da tutti gli autoctoni, nei
due campi. Né tra i palestinesi né tra gli israeliani. Il sollievo
era ridimensionato in molti dalla delusione. La tregua prolungata è
apparsa subito fragile e confusa. Una delle solite che risolvono poco
e per poco tempo. I quotidiani stampati nella notte agitata
rivelavano il malumore. La preoccupazione. La collera. Il più
diffuso dei giornali israeliani ( Yedioth Ahronoth) diceva che il
governo si era inginocchiato davanti a Hamas, un movimento
terrorista, accettando di proseguire i negoziati sulla base delle sue
richieste. E per il tardo pomeriggio gli abitanti delle zone
limitrofe a Gaza, dove arrivano facilmente i razzi palestinesi,
annunciavano una manifestazione di protesta sulla piazza Rabin, a Tel
Aviv. La loro rivendicazione era semplice e radicale: distruggere
Hamas.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu è
sempre più volpe e meno falco. In questa sua nuova veste non si è
affrettato a informare sui colloqui del Cairo gli otto ministri che
compongono il “consiglio di sicurezza”. Ha preso tempo. Temeva di
essere messo in minoranza dal gruppo di estrema destra, del quale i
massimi esponenti sono Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri, e
Naftali Bennett, il ministro dell’economia. Lieberman e Bennett
hanno idee chiare e radicali. Il primo ha avanzato anche la proposta
di rioccupare Gaza. Bennett è vicino ai coloni. Che ormai sono
tanti, più di trecentomila, e che vivono su circa il trentotto per
cento del territorio palestinese. Lieberman e Bennett interpretano il
pensiero di coloro che pensano si debba farla finita una volta per
tutte con Hamas. Per loro i compromessi sono in realtà dei tranelli.
A Gaza non mancano coloro che puntano
soltanto sullo scontro armato. In particolare l’ala militare del
movimento (Ezzedine el Qassam), comandata da Mohammed Deif, la cui
ragion d’essere è quello di attaccare lo Stato ebraico. Il lancio
di razzi di mercoledì sera, apparso come un segnale della ripresa
delle ostilità, le viene attribuito. Il sospetto non risparmia
neppure la Jihad islamica, gruppo storico concorrente, e anch’esso
elencato tra i terroristi. Una netta divergenza è emersa al Cairo
anche tra i negoziatori. Il rappresentante dell’Autorità
palestinese, Azzam al Ahmed, ha espresso la sua soddisfazione per i
progressi compiuti durante i colloqui, mentre Mussa Abu Marzuk,
l’uomo di Hamas, ha negato che sia stato raggiunto il minimo
accordo.
Entrambi dipendono ormai formalmente
dallo stesso governo palestinese di unione nazionale, vecchio di
qualche settimana e per ora esistente soltanto sulla carta. Molte
divergenze all’origine della rottura del 2007 che ha portato alla
secessione di Gaza sopravvivono nonostante la rappacificazione
annunciata. Hamas è venuto a patti con l’Autorità palestinese
presieduta da Abu Mazen, un tempo accusato di collaborazionismo con
Israele, perché aveva e ha l’acqua alla gola sul piano economico
(non sa come pagare gli stipendi ai cinquantamila dipendenti) e su
quello politico avendo perduto l’appoggio del Cairo, con la messa
al bando dei Fratelli musulmani, suoi stretti parenti. Israele ha
osteggiato a lungo la riunificazione tra Gaza e Ramallah, preferendo
una Palestina litigiosa, divisa e quindi più debole. Ora la
strategia è cambiata. Netanyahu è favorevole al governo di unione
nazionale, con la speranza che i moderati e laici palestinesi di
Ramallah riprendano il controllo di Gaza e possano essere degli
interlocutori più praticabili. Il dubbio risiede nel fatto che Abu
Mazen abbia la forza di assumere quel compito.
Il terzo conflitto in cinque anni tra
Gaza e Israele si svolge in una realtà mediorientale profondamente
mutata. Fino al 2012, quando battagliavano con Hamas, gli israeliani
erano circondati dai paesi arabi vicini e nemici che premevano
affinché cessassero al più presto lo scontro impari con la gente
della Striscia. La situazione è cambiata. Dopo la cacciata al Cairo
del governo islamista lo scorso anno si è creata attorno all’Egitto
una coalizione di Stati arabi in linea con Israele nella lotta contro
Hamas, emanazione dei Fratelli musulmani, massacrati e imprigionati
dal maresciallo Sisi, nuovo presidente egiziano. Di questa intesa
fanno parte l’Arabia Saudita, la Giordania e gli Emirati arabi
uniti. Ed è a questi paesi che si deve almeno in parte se il
conflitto di Gaza è durato tanto a lungo, e indisturbato. Essendo la
paura, l’idiosincrasia per l’Islam politico più forte
dell’allergia per Israele, o per il suo primo ministro Netanyahu,
la coalizione creatasi attorno all’Egitto ha lasciato che l’attacco
a Hamas proseguisse appunto senza alcun intralcio da parte loro. Il
regime militare del Cairo non è tuttavia venuto meno al tradizionale
ruolo di mediatore tra Hamas e Israele. Non tanto sotto la spinta
americana quanto per motivi di prestigio, ha operato, sia pur con
ritardo, al fine di arrivare a un cessate il fuoco tra i contendenti.
La composizione dei gruppo dei
negoziatori è tuttavia significativa, come lo è il modo in cui si
svolge la trattativa. Gli uomini di Hamas non parlano direttamente
con gli israeliani. Gli egiziani fanno da intermediari. Al tempo
stesso i rappresentanti dell’Autorità palestinese, che hanno
rapporti ufficiali sia con Israele sia con l’Egitto, hanno un ruolo
di grande rilievo. Essi sono visti come auspicabili futuri governanti
di Gaza, e per questo Israele, dopo averla osteggiata, ha accettato
l’unione nazionale tra i moderati e laici di Ramallah e gli
islamisti di Gaza. Con la speranza che quest’ultimi vengano via via
riassorbiti o emarginati. L’obiettivo principale è la
smilitarizzazione della Striscia, vale a dire il disarmo progressivo
di Hamas. In un primo tempo potrà essere concesso un allentamento
del blocco imposto a Gaza: la possibilità di lavorare le zone
agricole confinanti con Israele, l’estensione delle zone di pesca,
un traffico umano più intenso (ora è quasi nullo) tra Gaza e la
Cisgiordania. Ed anche con l’Egitto se sarà l’Autorità
palestinese e non Hamas a controllare il confine di Rafah. Queste
concessioni renderebbero meno soffocante l’esistenza dei quasi due
milioni di abitanti della Striscia e sarebbero accompagnate da una
lenta presa del potere da parte dei moderati di Ramallah. Avendo
sempre come obiettivo ultimo la smilitarizzazione di Gaza. Gli
avvenimenti di Iraq e di Siria, la minaccia jihadista in quei due
paesi, e nel resto del Medio Oriente, hanno accentuato la coalizione
“antislamista” attorno all’Egitto. E favoriscono l’ammissione
di Israele, con una inedita complicità, nella società dei grandi
paesi arabi che lo circondano. Ma Hamas ha ancora i suoi razzi.
L’Iran puo’ continuare a fornirgliene? E il ricco Qatar è sempre
generoso? C’è inoltre la popolazione civile di cui gli islamisti
sanno servirsi, come di un’arma.
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