sabato 16 agosto 2014

MEDIO ORIENTE IN FIAMME


BERNARDO VALLI
La Repubblica - 15/8/14

Il conflitto. La terza guerra in cinque anni tra Gaza e Israele si svolge in una realtà completamente mutata. Ora nei Paesi arabi, a partire dal regime militare del Cairo, prevale la paura per l’Islam radicale. E così si è arrivati a un nuovo cessate il fuoco. Hamas perde i suoi alleati ecco la tregua degli anti-jihad

La pioggia di razzi caduta nei paraggi di Ashkelon, a tarda sera, ci ha mandati a letto convinti che il conflitto stesse riprendendo i suoi ritmi dopo una pausa di tre giorni. Una vampata di pessimismo induceva a pensare a quanto sia facile cominciare una guerra e quanto sia invece difficile concluderla. Anche quando si tratta di un limitato ma cronico conflitto relegato dalla grande Storia in un angolo del mondo. Al Cairo, nelle settantadue ore di tregua, i negoziatori non avevano dunque concluso nulla.
GERUSALEMME
LA PROVA era che, per riflesso condizionato, l’aviazione israeliana rispondeva nella notte alle provocazioni palestinesi con le solite incursioni dei droni su Gaza. Tutto faceva pensare che il cessate il fuoco fosse finito prima ancora della scadenza fissata a mezzanotte. L’indomani ci saremmo svegliati di nuovo con il micidiale palleggio di missili e bombe cominciato in luglio. E invece non è andata cosi.
L’umore nero si è dissolto quando nella mattina abbiamo appreso che la pausa continuava, che ci sarebbero stati altri cinque giorni senza morti. E che fino a lunedì prossimo sarebbero continuate le trattative sulle rive del Nilo per una pace sempre improbabile, ma meno impossibile. I razzi e le incursioni della sera erano stati segnali di incertezza. Fino all’ultimo momento al Cairo non si sapeva che fare? Era evidente che non tutti si erano trovati d’accordo sull’opportunità di continuare la tregua e che quello scambio di proiettili e di bombe equivaleva a un brontolio di protesta.
Il nostro affrettato ottimismo di osservatori stranieri non era condiviso da tutti gli autoctoni, nei due campi. Né tra i palestinesi né tra gli israeliani. Il sollievo era ridimensionato in molti dalla delusione. La tregua prolungata è apparsa subito fragile e confusa. Una delle solite che risolvono poco e per poco tempo. I quotidiani stampati nella notte agitata rivelavano il malumore. La preoccupazione. La collera. Il più diffuso dei giornali israeliani ( Yedioth Ahronoth) diceva che il governo si era inginocchiato davanti a Hamas, un movimento terrorista, accettando di proseguire i negoziati sulla base delle sue richieste. E per il tardo pomeriggio gli abitanti delle zone limitrofe a Gaza, dove arrivano facilmente i razzi palestinesi, annunciavano una manifestazione di protesta sulla piazza Rabin, a Tel Aviv. La loro rivendicazione era semplice e radicale: distruggere Hamas.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu è sempre più volpe e meno falco. In questa sua nuova veste non si è affrettato a informare sui colloqui del Cairo gli otto ministri che compongono il “consiglio di sicurezza”. Ha preso tempo. Temeva di essere messo in minoranza dal gruppo di estrema destra, del quale i massimi esponenti sono Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri, e Naftali Bennett, il ministro dell’economia. Lieberman e Bennett hanno idee chiare e radicali. Il primo ha avanzato anche la proposta di rioccupare Gaza. Bennett è vicino ai coloni. Che ormai sono tanti, più di trecentomila, e che vivono su circa il trentotto per cento del territorio palestinese. Lieberman e Bennett interpretano il pensiero di coloro che pensano si debba farla finita una volta per tutte con Hamas. Per loro i compromessi sono in realtà dei tranelli.
A Gaza non mancano coloro che puntano soltanto sullo scontro armato. In particolare l’ala militare del movimento (Ezzedine el Qassam), comandata da Mohammed Deif, la cui ragion d’essere è quello di attaccare lo Stato ebraico. Il lancio di razzi di mercoledì sera, apparso come un segnale della ripresa delle ostilità, le viene attribuito. Il sospetto non risparmia neppure la Jihad islamica, gruppo storico concorrente, e anch’esso elencato tra i terroristi. Una netta divergenza è emersa al Cairo anche tra i negoziatori. Il rappresentante dell’Autorità palestinese, Azzam al Ahmed, ha espresso la sua soddisfazione per i progressi compiuti durante i colloqui, mentre Mussa Abu Marzuk, l’uomo di Hamas, ha negato che sia stato raggiunto il minimo accordo.
Entrambi dipendono ormai formalmente dallo stesso governo palestinese di unione nazionale, vecchio di qualche settimana e per ora esistente soltanto sulla carta. Molte divergenze all’origine della rottura del 2007 che ha portato alla secessione di Gaza sopravvivono nonostante la rappacificazione annunciata. Hamas è venuto a patti con l’Autorità palestinese presieduta da Abu Mazen, un tempo accusato di collaborazionismo con Israele, perché aveva e ha l’acqua alla gola sul piano economico (non sa come pagare gli stipendi ai cinquantamila dipendenti) e su quello politico avendo perduto l’appoggio del Cairo, con la messa al bando dei Fratelli musulmani, suoi stretti parenti. Israele ha osteggiato a lungo la riunificazione tra Gaza e Ramallah, preferendo una Palestina litigiosa, divisa e quindi più debole. Ora la strategia è cambiata. Netanyahu è favorevole al governo di unione nazionale, con la speranza che i moderati e laici palestinesi di Ramallah riprendano il controllo di Gaza e possano essere degli interlocutori più praticabili. Il dubbio risiede nel fatto che Abu Mazen abbia la forza di assumere quel compito.
Il terzo conflitto in cinque anni tra Gaza e Israele si svolge in una realtà mediorientale profondamente mutata. Fino al 2012, quando battagliavano con Hamas, gli israeliani erano circondati dai paesi arabi vicini e nemici che premevano affinché cessassero al più presto lo scontro impari con la gente della Striscia. La situazione è cambiata. Dopo la cacciata al Cairo del governo islamista lo scorso anno si è creata attorno all’Egitto una coalizione di Stati arabi in linea con Israele nella lotta contro Hamas, emanazione dei Fratelli musulmani, massacrati e imprigionati dal maresciallo Sisi, nuovo presidente egiziano. Di questa intesa fanno parte l’Arabia Saudita, la Giordania e gli Emirati arabi uniti. Ed è a questi paesi che si deve almeno in parte se il conflitto di Gaza è durato tanto a lungo, e indisturbato. Essendo la paura, l’idiosincrasia per l’Islam politico più forte dell’allergia per Israele, o per il suo primo ministro Netanyahu, la coalizione creatasi attorno all’Egitto ha lasciato che l’attacco a Hamas proseguisse appunto senza alcun intralcio da parte loro. Il regime militare del Cairo non è tuttavia venuto meno al tradizionale ruolo di mediatore tra Hamas e Israele. Non tanto sotto la spinta americana quanto per motivi di prestigio, ha operato, sia pur con ritardo, al fine di arrivare a un cessate il fuoco tra i contendenti.
La composizione dei gruppo dei negoziatori è tuttavia significativa, come lo è il modo in cui si svolge la trattativa. Gli uomini di Hamas non parlano direttamente con gli israeliani. Gli egiziani fanno da intermediari. Al tempo stesso i rappresentanti dell’Autorità palestinese, che hanno rapporti ufficiali sia con Israele sia con l’Egitto, hanno un ruolo di grande rilievo. Essi sono visti come auspicabili futuri governanti di Gaza, e per questo Israele, dopo averla osteggiata, ha accettato l’unione nazionale tra i moderati e laici di Ramallah e gli islamisti di Gaza. Con la speranza che quest’ultimi vengano via via riassorbiti o emarginati. L’obiettivo principale è la smilitarizzazione della Striscia, vale a dire il disarmo progressivo di Hamas. In un primo tempo potrà essere concesso un allentamento del blocco imposto a Gaza: la possibilità di lavorare le zone agricole confinanti con Israele, l’estensione delle zone di pesca, un traffico umano più intenso (ora è quasi nullo) tra Gaza e la Cisgiordania. Ed anche con l’Egitto se sarà l’Autorità palestinese e non Hamas a controllare il confine di Rafah. Queste concessioni renderebbero meno soffocante l’esistenza dei quasi due milioni di abitanti della Striscia e sarebbero accompagnate da una lenta presa del potere da parte dei moderati di Ramallah. Avendo sempre come obiettivo ultimo la smilitarizzazione di Gaza. Gli avvenimenti di Iraq e di Siria, la minaccia jihadista in quei due paesi, e nel resto del Medio Oriente, hanno accentuato la coalizione “antislamista” attorno all’Egitto. E favoriscono l’ammissione di Israele, con una inedita complicità, nella società dei grandi paesi arabi che lo circondano. Ma Hamas ha ancora i suoi razzi. L’Iran puo’ continuare a fornirgliene? E il ricco Qatar è sempre generoso? C’è inoltre la popolazione civile di cui gli islamisti sanno servirsi, come di un’arma.



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