MAURIZIO RICCI
La Repubblica - 26/8/ 14
Segui Draghi. Il pesce pilota della
politica europea o, meglio, il suo più navigato protagonista, l’uomo
capace di collocarsi al centro del consenso, un attimo prima che si
cristallizzi pubblicamente è uno che, di professione, politico non
è, ma, anzi, è un tecnico fra tecnici: il presidente della Banca
centrale europea. «Si rischia di più a fare troppo poco che a fare
troppo» ha detto, a sorpresa, Draghi, venerdì scorso ad un convegno
di banchieri centrali, in un passaggio destinato, probabilmente, a
fare storia come il famoso «salveremo l’euro, costi quel che
costi» di due anni fa. Il discorso ha fatto rumore, come era stato
certamente calcolato. E ogni parola con cui il custode dell’euro ha
preso le distanze dalla politica di austerità era stata attentamente
soppesata. Così l’hanno intesa i mercati che, ieri, alla prima
seduta utile hanno cavalcato a lungo l’effetto Draghi. Euforia
nelle Borse, che vedono una politica di stimolo europea affiancarsi
alla già solida ripresa americana. Rendimenti dei titoli di Stato
europei ai minimi (in Germania anche sotto zero) in vista di una
politica di allentamento monetario. Euro, per lo stesso motivo, in
caduta sul dollaro.
Apparentemente diversa la reazione dei
politici. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, vola in Spagna per
fare, insieme al premier Rajoy, la faccia feroce contro i nemici
dell’austerità. E, a Parigi, il presidente Hollande caccia dal
governo i ministri di sinistra, per aver detto, contro l’austerità,
le cose che lui stesso aveva detto, pochi giorni prima, in
un’intervista a Le Monde. I fautori dell’austerità, dunque, che
si trincerano nel loro fortino, costringendo anche Hollande a
rimangiarsi le sue parole? Se questa tesi fosse vera, Draghi, con il
suo discorso di Jackson Hole, avrebbe fatto una netta scelta di
campo, accettando la divisione in due della politica europea e
schierandosi con il partito anti-austerità. Chi lo segue da quando è
presidente della Bce dubita fortemente che atteggiamenti simili siano
nella natura e nello stile dell’uomo. Quello che è emersa, in
questi tre anni, è piuttosto una straordinaria capacità di cogliere
per primo e per tempo, lo spostarsi degli equilibri della politica
europea. Questo, in fondo, è avvenuto due anni fa. La cosa notevole,
nel discorso in cui Draghi annunciò che la Bce era pronta a
rastrellare titoli di Stato sul mercato, pur di salvare l’euro non
sono le misure prospettate. Plotoni di economisti le invocavano da
mesi. A stupire fu l’assenza di proteste. Ci fu qualche mugugno
della Bundesbank, ma la Cancelleria di Berlino si schierò con
decisione dietro il presidente della Bce. E’ probabile che, anche
questa volta, prima di uscire allo scoperto a Jackson Hole, Draghi
abbia provveduto a coprirsi le spalle a Berlino. In questo scenario,
sia i “nein” della Merkel, sia le decimazioni (al di là delle
motivazioni di politica interna) di Hollande vanno visti soprattutto
come un tentativo preventivo di placare un’opinione pubblica,
allenata ad essere ultra-sospettosa sugli allentamenti del rigore,
come quella tedesca.
Due anni fa, fu l’assalto contro
Bonos e Btp a mettere Draghi nelle condizioni di cambiare politica.
Adesso? Sostanzialmente due fattori. Il primo è l’oscurarsi delle
prospettive dell’economia tedesca. Gli ultimi sondaggi indicano un
diffondersi del pessimismo, all’insegna di “sviluppo zero” da
qui a fine anno. C’è spazio per una politica di rilancio dei
consumi e degli investimenti interni, come, peraltro, molti
rivendicano da tempo. Il secondo fattore è l’implodere delle
aspettative di inflazione, nel giro di poche settimane, come ha
riconosciuto lo stesso Draghi. La psicologia ha un ruolo cruciale. Se
si afferma la convinzione che i prezzi caleranno, la deflazione (come
è avvenuto in Giappone negli anni ‘90) può non solo divenire
realtà, ma diventare difficilissima da rovesciare.
Ecco perché molti, sui mercati, dopo
il discorso di venerdì, pensano che la Bce si risolverà presto a
lanciare una campagna di rastrellamenti titoli sul mercato, per
ridare liquidità e spinta all’economia. Il “quantitative easing”
non è, tuttavia, un esito scontato. L’idea di acquisti, più o
meno indiscriminati, di titoli italiani e spagnoli da parte di
Francoforte urta particolarmente la suscettibilità tedesca e non è
detto che, con i tassi di interesse già così bassi, sia lo
strumento più efficace. Draghi ha spostato l’attenzione piuttosto
sulla politica di bilancio. Fatti salvi i patti già sottoscritti,
Draghi ha indicato l’esistenza di margini di flessibilità per i
governi che adottano coraggiose riforme. Nulla di particolarmente
sorprendente: i primi a proporre uno scambio (sotto forma di
“contratti”) fra riforme e tempi dell’austerità furono proprio
i tedeschi. Oggi che a reclamare questo scambio sono Renzi e
Hollande, un accordo di principio non sembra impossibile.
Ma il discorso di Draghi apre uno
spiraglio anche in un’altra direzione. Molti pensano che le riforme
di struttura, pur importanti, non riusciranno a far uscire l’eurozona
dalla stagnazione. Servirebbe un rilancio della domanda: consumi e
investimenti. Draghi vi accenna esplicitamente, auspicando che la
politica bilancio «giochi un ruolo maggiore accanto alla politica
monetaria. Lo spazio — dice — c’è». Giocare sui tempi per il
rispetto dei parametri, in effetti, non sembra proibitivo. E anche i
parametri — come il deficit strutturale da tenere allo 0,5 per
cento secondo modelli econometrici discutibili e spesso modificati —
non sono scolpiti nella pietra. Di questo si discuterà nelle
prossime settimane.
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