Il Califfo nero dell’Isis ha molti amici in Medio Oriente. Le
parole di Bergoglio spronano gli Usa e l’Onu: bisogna tagliare i ponti
con gli sponsor del terrore
È ovvio e naturale, se non addirittura sacrosanto, che il capo
della Chiesa cattolica non possa tacere sulla tragedia irachena, anche e
soprattutto –ma non certo soltanto – in quanto essa riguarda alcune
migliaia di cristiani alcuni dei quali cattolici. Difatti, delle due
Chiese cristiane che esistono sul territorio iracheno, una (la
cosiddetta “assira”) è di confessione nestoriana, un gruppo limitato
presente comunque in piccole comunità tra Iraq, Iran e India, mentre
l’altra (la “caldea”) pur mantenendo il suo rito aramaico ha aderito
alla Chiesa cattolica.
Papa Francesco si è espresso in termini molto chiari al riguardo,
parlando sia pure in modo amichevole e non ufficiale – ma molto
esplicito – con i giornalisti che lo accompagnavano nel suo viaggio di
ritorno da Seul. E ha parlato, cosa questa che conferisce all’episodio
un carattere simbolico impressionante, proprio solcando i cieli della
Cina.
Come suo costume, è stato tutt’altro che sibillino. Ha detto cose
gravi, poco “diplomatiche”: perché non è un diplomatico e perché il
momento che andiamo attraversando si sta rivelando sempre meno adatto
alle cortesie e alle circonlocuzioni diplomatiche. Non ha esitato
difatti a evocare lo spettro di una “terza guerra mondiale”. Può essere
“maleducato” parlarne: ma è davvero così responsabile il tacerne, visto
che i segni e i prodromi di un’eventualità del genere si vanno facendo
ogni giorno più chiari e allarmanti? Certo, nessuno potrà sapere
com’essa si presenterebbe. Si sbagliarono nel prevederla nel ’14; e
anche nel ’19, quando tutti si prepararono alle trincee e ai gas
asfissianti e invece tutto andò ancora peggio, ma in un senso totalmente
inatteso.
Sente di non aver tempo, papa Bergoglio. Ha detto esplicitamente
anche questo, ricordando le “dimissioni” di Benedetto XVI e alludendo
forse a recenti preoccupazioni a proposito della sua salute. Ha
ricordato i suoi quasi ottant’anni e ha serenamente parlato di «ritorno
alla Casa del Padre», accompagnando però le sue parole con un sorriso e
con un gesto delle mano destra che, nella sua Argentina non meno che in
Italia, indicano l’atto dell’andarsene. Non so se tutto ciò è passato
sui piccoli schermi italiani: la televisione francese gli ha dedicato
lunghi momenti, con una discreta attenzione. Ma anche sulle cose
irachene, come su quelle palestinesi, in Francia sembra che le emittenti
televisive siano un po’ meno abbottonate delle italiane.
Ma il punto centrale è che papa Francesco, a proposito dell’Iraq, ha
esplicitamente parlato dell’opportunità di un intervento delle Nazioni
Unite. Non si può dire che sia arrivato a invocarlo, anche perché queste
sono cose che non si possono fare in una sede interlocutoria come
quella nel contesto della quale egli stava esprimendosi. Comunque, una
volta di più, va elogiato il suo esplicito coraggio. Ha parlato di un
intervento volto a «fermare» i jihadisti: non ha fornito indicazioni,
non ha indicato gli strumenti. L’Onu ha, se e quando vuole, anche i
mezzi militari per farlo: ma anzitutto può agire con quelli
diplomatici. I jihadisti del califfato di al-Baghdadi sono appoggiati,
finanziati e armati – direttamente o indirettamente – dagli emirati
della penisola arabica, tutti (con una mezza eccezione per il Qatar, che
segue una linea propria) rigorosamente sunniti – tali sono quanto meno
gli emiri, anche se non tutti i loro rispettivi popoli – e alleati fino
ad oggi sicuri “dell’Occidente”, vale a dire essenzialmente degli Stati
Uniti d’America, per quanto nei recenti scellerati casi libico e siriano
abbiano trovato dei compagni di strada più sicuri nei governi
britannico e soprattutto francese.
Ora, il fatto principale, e che non si può dimenticare nemmeno per un
istante, è che tramite i jihadisti gli emirati sunniti stanno da molti
mesi ormai combattendo una fitna, una spietata guerra civile contro gli
sciiti, che non sono soltanto gli iraniani bensì anche molti arabi tra
Siria e Iraq. E a contrastarli esplicitamente sono finora soprattutto, e
molto validamente, i peshmerga curdi, sunniti anch’essi ma non arabi e,
quel che più conta, avversari decisi dell’Isis di al-Baghdadi. Quegli
stessi curdi che, una trentina di anni fa, furono ferocemente fatti a
pazzi dal rais Saddam Hussein, allora alleato degli occidentali e che
faceva per loro anche la “guerra in conto terzi” contro l’Iran.
Bisogna ricordare tutto questo, nel momento stesso in cui va detto
che il pasticcio iracheno è stato combinato dall’unilaterale intervento
statunitense del 2003 contro Saddam Hussein, che avrà avuto tutti i
difetti di questo mondo ma almeno manteneva nel suo paese la pace
religiosa all’insegna della tolleranza. Ed eccoci al nucleo di tutti.
Gli americani, in Iraq come altrove, criptoalleati dei fondamentalisti
islamici (come sono stati nello stesso Afghanistan prima del 2001) o
loro avversari, nel Vicino o Medio Oriente di pasticci ne hanno
combinati fin troppi: quel che oggi bisogna evitare se non addirittura
impedire è una nuova loro iniziativa unilaterale. E del resto il povero
Obama sembra tutt’altro che disposto a cacciarsi in una nuova avventura,
dopo la lezione fallimentare degli ultimi quattordici anni.
Del resto, la diplomazia statunitense ha molti problema
nell’intraprendere scelte che potrebbero risultare sgradite ai governi
emirali della penisola arabica, che continuano ad essere loro alleati.
D’altra parte anche Israele è, al riguardo, molto prudente:
un’eventuale affermazione dei jihadisti nello scacchiere siro-iracheno
rischierebbe di rimettere in discussione l’assetto delle alture del
Golan. Ma in questo drammatico impasse sono rimasti solo i peshmerga
curdi, scarsamente e insicuramente sostenuti dai governi occidentali, a
fare da diga contro il fanatismo di quelli del “califfato”.
Da qui la necessità di seguire la richiesta del pontefice: agire
subito con gli strumenti della società civile internazionale,
intervenire con gli strumenti di una ferma diffida diplomatica nei
confronti di al-Baghdadi e dei suoi alleati espliciti o meno che siano.
Augurandosi che la diffida diplomatica sia sufficiente; e agendo
comunitariamente anche in senso militare, se risulterà indispensabile.
Ma tutto ciò apre la strada anche ad altri scenari, per i quali
costituirebbe un precedente obiettivo. Non è solo l’area siro-irachena
che a questo punto necessiterebbe di un intervento internazionale, visto
che i protagonisti dello scontro armato non sanno, non possono o non
vogliono adire con le loro forze a una soluzione negoziata.
Il papa si preoccupa della situazione siro-irachena, vittime delle
quali sono fra l’altro dei cristiani. Ma ci sono vittime cristiane anche
a Gaza, tra il martello israeliano e l’incudine di Hamas per il quale i
palestinesi cristiani – “melkiti” cattolici o greco-ortodossi che siano
– sono dhimmi, cittadini di serie B. Se la crisi di Gaza, ormai una
copia fedele dell’infausta operazione “Piombo Fuso” del 2009, continua a
infierire, tacerà ancora a lungo su di essa quell’argentino vescovo di
Roma, che non ha troppi peli sulla lingua?
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