PIETRO DEL RE
La Repubblica - 15/8/14
I tragici racconti dei profughi yazidi:
“Si è rotta una caviglia mentre fuggivamo dagli uomini in nero”
DAL NOSTRO INVIATO DOHUK (KURDISTAN
IRACHENO) .
Sono storie così terribili e crudeli,
quelle che raccontano gli yazidi scampati al genocidio jihadista, da
sembrare inverosimili. Ma per verificarne la veridicità basta
leggere il terrore che ancora traspare negli sguardi di chi le narra.
Descrivono una sequela di atrocità, compiute in nome di una fede
sviata, che fa capire come il provvidenziale e improcrastinabile
intervento dei corpi speciali americani abbia, due notti fa, evitato
una nuova Srebrenica, o un nuovo Ruanda.
Yalmaz Shanin è uno dei tanti
sopravvissuti alla furia islamista. Lo incontriamo alle porte di
Dohuk, città del Kurdistan iracheno dove molti yazidi sbarcano
percorrendo la strada lungo il confine siriano per aggirare le terre
conquistate dallo Stato islamico. Yalmaz è alto e magro, ho gli
occhi chiari e la barba fulva. Tre giorni fa, questo ragazzo di
vent’anni ha ammazzato la sua adorata madre. Dice: «Quando sono
arrivati i jihadisti nel mio villaggio, vicino Sinjar, hanno
cominciato a uccidere tutti quelli che incontravano, sparando dalle
macchine in corsa. Anche mio padre è morto così, colpito sull’uscio
di casa. Non abbiamo neanche potuto seppellirlo: poche ore dopo, ho
preso il mio fucile e siamo fuggiti verso le montagne, mia madre, i
miei due fratelli e io. Ma appena abbiamo cominciato ad arrampicarci
mia madre s’è storta una caviglia. Abbiamo provato a prenderla in
braccio, ma senza riuscirci. Sotto di noi, sentivamo le urla e gli
spari degli islamisti. Mia madre era terrorizzata, e mi diceva, anzi
mi implorava di spararle affinché non fossero i jihadisti a farlo.
Io non volevo darle ascolto, non volevo neanche sentirla. Ma lei non
riusciva a muoversi, e a un certo punto le ho sparato. E ho ucciso
lei e me. Perché finché vivrò non potrò mai perdonarmi di averle
ubbidito».
Incrociamo anche Jian a Dohuk, dove è
appena sbarcata dopo un’odissea durata giorni, durante i quali
questa giovane vedova ha perduto tutto ciò che aveva di più caro: i
suoi gemelli di quattro mesi e suo marito. «Siamo stati denunciati
come yazidi dai nostri vicini di casa, dei sunniti con i quali prima
dell’arrivo dei jihadisti andavamo d’accordissimo. Eravamo
terrorizzati che venissero ad ammazzarci a casa, e siamo scappati.
Siamo rimasti quattro giorni nascosti in montagna. Avevamo trovato
rifugio in una grotta, ma avevamo pochissima acqua con noi e quasi
nulla di che nutrirci. Io non avevo più latte, e i miei piccoli sono
morti, uno dopo l’altro. Non sapevamo neanche come seppellirli, li
abbiamo perciò avvolti in uno scialle e ci siamo incamminati verso
una radura dove avremmo potuto inumarli. Ma mio marito è caduto, ha
battuto la testa ed è morto anche lui. Adesso sono qui, senza sapere
che ne sarà di me».
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