Corriere della Sera 26/08/14
(Traduzione di Rita Baldassarre)
L’uscita di Arnaud Montebourg dal
governo di Manuel Valls era inevitabile, dal momento in cui il
ministro dell’Economia aveva cominciato a criticare, anziché
attuare, la sua politica economica. Una simile situazione aveva avuto
un unico precedente, quando Nicolas Sarkozy, ministro di Jacques
Chirac, avendo trascorso gran parte del tempo a criticare il
presidente, se non addirittura a offenderlo impunemente (si era
lasciato scappare un riferimento al «fannullone»), aveva finito poi
per vincere le elezioni presidenziali del 2007 con un programma di
«rottura» con la politica del suo predecessore. Non facciamoci
illusioni: lo scenario ipotizzato da Arnaud Montebourg era proprio
quello di ripetere l’impresa di Sarkozy, ma François Hollande e
Manuel Valls non si sono prestati al gioco. Arnaud Montebourg fa
parte di quegli impazienti che si lasciano guidare dall’idea che si
fanno del proprio destino. Il paradosso è che militano in un
movimento, il partito socialista, che aspira a incarnare un ideale e
un progetto collettivo. Nel caso presente, ci troviamo davanti alla
chiara dimostrazione dei rischi del sistema presidenziale francese.
Tutto è in vista di una sola scadenza, le elezioni presidenziali, e
le battaglie non sono più politiche, bensì personali. La sinistra
d’altronde non ha il monopolio di questa guerra permanente delle
personalità, alimentata dal fatto che chiunque raggiunga una piccola
notorietà politica pensi immediatamente che valga la pena
presentarsi alle elezioni presidenziali.
In queste circostanze,
il gioco di Arnaud Montebourg consiste nel plasmarsi un’immagine e
nell’assumere una posizione che gli consentano di concorrere alle
primarie, destinate a nominare il prossimo candidato socialista. E
questo in prospettiva delle prossime presidenziali fra tre anni!
Problema: sotto la Quinta repubblica, è difficile immaginare di
organizzare le primarie quando il presidente uscente è egli stesso
il candidato naturale del suo partito. Ebbene, Arnaud Montebourg fa
parte di coloro i quali non solo pensano che François Hollande abbia
già perso le elezioni del 2017, ma soprattutto mirano a eliminarlo
dalla corsa alla sua stessa successione imponendogli le primarie.
Le
critiche che gli sono state rivolte, a dire il vero per la maggior
parte demagogiche, sono pertanto destinate a segnare il suo cammino.
Facendolo uscire dal governo, François Hollande e Manuel Valls
pensano, al contrario, di poterlo escludere dalla corsa presidenziale
e dimostrare che, al di fuori del sistema, Arnaud Montebourg non ha
poi quel gran peso che presume di avere. Tuttavia, l’allontanamento
forzato dell’ex ministro dell’Economia getta una luce aspra e
crudele sulle difficoltà crescenti dell’equazione politica
presidenziale. La questione in realtà è di sapere se coloro che si
proclamano «l’ala sinistra» del PS, o che si sono manifestati
tramite l’astensione all’Assemblea di una trentina di deputati,
si organizzeranno in modo tale da poter paralizzare l’azione del
governo. Se questo è il caso, e ogni giorno che passa sembra
confermarlo, entreremmo allora in uno scenario della crisi, quella
vera, che finirebbe inevitabilmente per condurre allo scioglimento
dell’Assemblea nazionale. E lo scioglimento sarebbe seguito
immediatamente dal trionfo della destra. A quel punto sorgerebbe il
problema della coabitazione. Ebbene, nel clima attuale, una buona
parte della destra sarebbe tentata di rifiutare la coabitazione, per
costringere il presidente alle dimissioni e cancellare la disfatta di
Nicolas Sarkozy alle elezioni presidenziali. Ci si chiede: quale
sarebbe allora l’interesse di questi deputati ribelli che
finirebbero seduta stante tra le file dei disoccupati ? Siamo davanti
a una delle debolezze permanenti di una parte della sinistra
francese, che preferisce la comodità, e spesso la demagogia che si
accompagna all’opposizione, alle difficoltà dell’azione di
governo. Specie quando si sa che sono necessarie misure impopolari e
che le riforme strutturali di cui ha bisogno il Paese impongono una
dolorosa riduzione della spesa pubblica, che sicuramente provocherà
ripercussioni e risentimenti. Troviamo traccia di questa filosofia
nella lettera che il ministro della Cultura, Aurélie Filippetti, ha
indirizzato al presidente e al primo ministro, per indicare il suo
rifiuto di far parte della nuova squadra, spiegando che vorrebbe
restare «la voce di coloro che non hanno voce». È questa la
definizione, quando si limita il proprio campo di manovra
all’obiettivo di un partito di opposizione, ovvero la funzione del
tribuno, che fu a lungo interpretata dal partito comunista e che oggi
appartiene all’estrema sinistra e ai «ribelli» del partito
socialista. Nel frattempo, notiamo che nessuno dei ministri che oggi
criticano François Hollande si sia fatto notare finora per
l’incisività dei suoi interventi governativi. La leader dei Verdi,
Cécile Duflot, può essere orgogliosa di un bilancio catastrofico
quando si è trovata alla testa del ministero degli Alloggi Pubblici.
Che non si venga a sapere che Arnaud Montebourg abbia mai apportato
soluzioni durature ai compiti che gli sono stati affidati, e la
Filippetti stessa non gode di grande stima nell’universo culturale.
Ma la questione politica di difficile — se non impossibile —
soluzione è la seguente: dall’indomani stesso della sua elezione,
François Hollande ha dovuto affrontare una destra radicalizzata e ha
fatto di tutto per sottrarsi alla minaccia del Fronte nazionale. Di
conseguenza, non può aspettarsi alcun sostegno da quel settore,
nemmeno dalle frazioni tradizionalmente più moderate della destra
francese. Oggi è osteggiato persino all’interno della sinistra,
anche quando — in occasione delle ultime amministrative — i suoi
avversari più agguerriti, provenienti dall’estrema sinistra, hanno
accusato una sonora sconfitta. La sua linea politica dovrebbe poter
contare sulla frazione riformista del partito socialista, ma anche
sul centrosinistra e sul centrodestra. Questa politica, detta
socialdemocratica, che in realtà cerca soluzioni per due emergenze,
il risanamento dei conti pubblici e il rilancio della competitività
delle imprese allo scopo di creare nuova occupazione, potrebbe essere
l’oggetto di un programma di governo di due anni, con l’appoggio
di una grande coalizione capace di alleare la destra e la sinistra di
governo. Ma nessuno in Francia sembra intenzionato a imboccare questa
strada. Il presidente non ha altra scelta che resistere, sperando che
i risultati di questo riordino generale del Paese, da lui già
avviato, finirà per portare i suoi frutti. Ma la strada si fa sempre
più stretta.
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