Corriere della Sera 18/08/14
Gian Guido Vecchi
Sono
passati più di quattro secoli da quando il gesuita Matteo Ricci
conquistò la stima dei cinesi scrivendo nella loro lingua il
trattato «Sull’amicizia» e disegnando un mappamondo che diede al
«Regno di Mezzo» una nuova visione della Terra: con la finezza di
tener conto del punto di vista cinese e, nel 1584, mettere al centro
la Cina, non l’Europa. Così non è un caso della storia che il
primo Papa gesuita, venuto dalla «fine del mondo» per rinnovare una
Chiesa non più eurocentrica, abbia l’Asia come frontiera e
priorità del pontificato e, al termine del viaggio in Corea del Sud,
mandi un messaggio di importanza decisiva: «In tale spirito di
apertura agli altri, spero fermamente che i Paesi del vostro
continente con i quali la Santa Sede non ha ancora una relazione
piena non esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti.
Non mi riferisco solo al dialogo politico ma anche al dialogo
fraterno».
Parole pronunciate a braccio, mentre ad Haemi
incontrava i vescovi asiatici. Parole che riguardano anche altri
Paesi comunisti come la Corea del Nord e il Vietnam ma si rivolgono
soprattutto al governo di Pechino, e ai timori di «ingerenze
vaticane» che allignano nel partito, come una rassicurazione: «Ma
questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a
toglierci la nostra identità. Ci portano la loro, ma vogliono
camminare con noi». Francesco è ben consapevole delle difficoltà.
Da anni si alternano a Pechino segnali di apertura e di repressione e
le resistenze non mancano né in Cina, specie in chi nella «chiesa
patriottica» del regime teme di perdere potere, né nell’anima più
«agonista» della Chiesa. Un rapporto tra realtà millenarie è
fatto di segnali. Nel volo verso Seul è il primo Pontefice a
ottenere di poter attraversare il cielo cinese, mandando al
presidente Xi Jinping un telegramma con le «benedizioni divine di
pace e benessere sulla nazione». Il ministero degli Esteri di
Pechino che risponde auspicando «un dialogo costruttivo» e un
«miglioramento delle relazioni bilaterali».
È stato Benedetto
XVI a rilanciare la «via diplomatica», Francesco va oltre. Il
dialogo «non è un monologo», spiega ai vescovi dell’Asia: «Non
posso dialogare se non busso alla porta dell’altro». Amicizia,
«dialogo fraterno», apertura. Soprattutto quella «empatia» che
«conduce a un genuino incontro: siamo arricchiti dalla sapienza
dell’altro e diventiamo aperti a percorrere insieme il cammino di
una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà». Lo stile del
confratello Ricci. «Se il Signore farà la grazia, muoverà i cuori
e qualcuno chiederà il battesimo, qualcun altro no, ma sempre
camminiamo insieme». Niente spirito di conquista, dice anticipando
un’obiezione: «Fratello Papa, noi facciamo questo ma forse non
convertiamo nessuno, o pochi!». La risposta che si dà Francesco è
chiara: «Tu fai questo. Dalla mia identità, con empatia e apertura,
cammino con l’altro. Non faccio proselitismo, non devo portare
l’altro a me stesso. Papa Benedetto ce lo ha detto: la Chiesa non
cresce per proselitismo, ma per attrazione. Nel frattempo camminiamo
alla presenza del Padre, e siamo irreprensibili».
Francesco
tornerà a gennaio nel grande continente che vede il cattolicesimo in
crescita. In Corea ci sono centomila battesimi all’anno: ieri il
Papa ha battezzato il padre di uno dei ragazzi morti nel naufragio
del traghetto Sewol, l’uomo ha scelto il nome Francesco. Nella
messa conclusiva con i giovani c’erano anche trecento cinesi,
Asianews racconta che sono giunti a piccoli gruppi col visto
turistico. Alzatevi, svegliatevi, ha detto ai quarantamila ragazzi,
«wake up, up!». Il Papa esorta la Chiesa ad essere «versatile e
creativa», fedele alla missione di «portare la luce del Vangelo
fino ai confini della Terra», vicina a chi ha bisogno e aliena dal
clericalismo («il Papa è anticlericale!», sorrideva padre
Lombardi), aperta a «individui e culture». E senza paura: «La
paura è nemica di queste aperture».
Nessun commento:
Posta un commento