Corriere della Sera 05/08/14
Davide Frattini
Ha trascorso gran parte dei ventotto
giorni di guerra in ospedale, bloccato a letto da un’operazione al
ginocchio. Bloccato anche quando le sirene risuonavano a Tel Aviv:
Amos Oz avrebbe avuto 90 secondi per correre dentro al rifugio. «Non
ci sarei riuscito e non ci ho provato. Ho combattuto in due
conflitti, ci vuole più di un allarme razzi per spaventarmi».
Adesso è tornato nella casa di Tel Aviv, sta ancora recuperando, non
gli manca l’energia per riaffermare quello che ha sempre ripetuto:
«Non ho una soluzione per le prossime ventiquattro ore. Posso dire
quale sia la via d’uscita da qui a un anno e mezzo: negoziare con
il presidente Abu Mazen un accordo che porti alla nascita dello Stato
palestinese, smilitarizzato, con la rimozione di quasi tutte le
colonie ebraiche. La libertà e la prosperità, Ramallah e Nablus che
fioriscono, spingeranno i palestinesi di Gaza a rivoltarsi e a
eliminare Hamas come i rumeni hanno eliminato Nicolae
Ceasescu».
Quello che potrebbe accadere nelle prossime
ventiquattro ore lo ha annunciato Benjamin Netanyahu, il primo
ministro israeliano: finita la distruzione dei tunnel scavati dai
miliziani, il governo è pronto a ritirare le truppe dalla Striscia
senza trattare il cessate il fuoco e a rispondere con i raid
dell’aviazione se i lanci di razzi dovessero andare avanti. Lo
scrittore, 75 anni, preferisce le intese negoziate, in questo caso
dice: «Qualunque scelta riduca immediatamente la violenza, anche
senza una mediazione, sarebbe una benedizione per fermare il disastro
umanitario a Gaza e la sofferenza quotidiana di milioni di israeliani
costretti a scappare nei rifugi».
Avigdor Liberman, il ministro
degli Esteri, ha rappresentato nel governo le posizioni più
oltranziste, premeva sul premier, almeno a parole, perché desse
l’ordine all’esercito di rioccupare Gaza. Adesso lancia l’idea
di mettere quel corridoio stretto tra Israele, l’Egitto e il mare
sotto il controllo di una forza internazionale. «Affiderei la
Striscia a chiunque — dice Amos Oz — anche ai marziani. Non
capisco perché Netanyahu non abbia proposto di togliere l’assedio
economico imposto dagli israeliani e di legare alla smilitarizzazione
la raccolta internazionale di fondi per la ricostruzione. Se Hamas
respinge il piano, saranno loro (e solo loro) a dover essere
biasimati».
La figlia Fania — docente di Storia
all’università di Haifa, con la quale ha scritto «Gli ebrei e le
parole» (Feltrinelli) — gli ha offerto una metafora per descrivere
la strategia di Hamas: «Un vicino di casa che si siede sul balcone
con il figlio in braccio e comincia a sparare contro il tuo asilo».
Amos Oz chiede comunque a Israele «un uso più cauto della forza
militare»: «I miliziani operano da dentro o molto vicino a scuole e
ospedali. Così raggiungono due obiettivi: più israeliani uccidono,
più vincono; più palestinesi uccidiamo noi, più vincono loro. Non
è solo la questione dell’immagine internazionale del Paese, mi
preoccupano i nostri standard morali. Sono abbastanza vecchio da
ricordare la guerra del 1967, i combattimenti nella parte est di
Gerusalemme: i giordani colpivano dalle case, si muovevano tra i
civili, eppure l’esercito israeliano non ha voluto bombardare, ha
scelto di combattere strada per strada, l’unico modo di evitare le
vittime innocenti».
Novanta secondi, un nome arabo dopo
l’altro, l’età: sono i bambini palestinesi uccisi nell’offensiva
israeliana. B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti
umani, avrebbe voluto trasmettere l’annuncio a pagamento sulle
radio locali, è stata bloccata dall’autorità governativa per le
emittenti. La cantante Noa riceve minacce di morte dopo aver espresso
compassione e dolore per i morti palestinesi. La sinistra si sente
sotto assedio, zittita dalla violenza degli ultranazionalisti. «In
tempo di guerra l’atmosfera in qualunque Paese — commenta Oz —
diventa militarista. Ero a Londra durante il conflitto per le
Falkland e le manifestazioni di sostegno al conflitto erano massicce,
anche se la maggior parte dei partecipanti non sarebbe stata in grado
di trovare quelle isole, e forse l’Argentina, sulla mappa.
Non
vedo lo stesso clima di odio che ha portato all’omicidio di Yizthak
Rabin, come altri avvertono. I fanatici, i razzisti, non sono solo un
fenomeno israeliano, stanno crescendo in Europa, in Russia, in tutto
il mondo».
La sinistra resta in difficoltà, sembra incapace di
far passare il suo messaggio. «Per quasi un cinquantennio il
movimento pacifista ha sostenuto il progetto di scambiare i territori
per ottenere la pace. Otto anni fa l’allora premier Ariel Sharon ha
lasciato Gaza, ha evacuato le colonie, ritirato tutte le truppe.
Invece della pace e della coesistenza abbiamo ricevuto una pioggia di
razzi. Adesso è difficile convincere la gente che terra per pace è
un’idea ancora valida».
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