RENZO GUOLO
La Repubblica - 9/8/14
Sotto l’incedere dello Stato Islamico
non si ferma in Iraq la pulizia religiosa nei confronti delle
minoranze: cristiani, yazidi o sciiti che siano. Poco importa che
questi ultimi siano musulmani e in maggioranza nel paese: i jihadisti
sunniti non li riconoscono come tali, così come non riconoscono
appartenenze nazionali. Così rischia di dissolversi non solo un
contesto geopolitico, ma anche un mosaico di fedi e culture.
Ma come è stata possibile questa
catastrofe, che può assumere i contorni della fine di un mondo se
non venisse arrestata, segnata da esodi e fucilazioni di massa,
bandiere nere sulle croci usate come pennoni, donne esibite come
bottino di guerra ed esposte al mercato di Ninive come merce in
vendita o destinate a soddisfare le esigenze sessuali dei miliziani
jihadisti? Al Baghdadi ha colmato un grande vuoto politico, dando
rappresentanza alla componente sunnita irachena e siriana.
Schiacciate, la prima, dai postumi della guerra americana del 2003 e
dagli sciiti saliti al potere a Baghdad; la seconda dalle chiusure e
la repressione del regime alauita. Tensioni acuite dall’esplodere
del conflitto settario in un tempo in cui il tramonto delle
ideologie, anche quelle nazionaliste, ha lasciato spazio alle uniche
identità spendibili localmente: quelle confessionali declinate in
chiave transnazionale. Ma la deflagrazione mesopotamica non avrebbe
avuto questi caratteri se non fosse stata alimentata dalle
competizione tra le potenze confessionali protettrici: l’Arabia
Saudita per i sunniti, l’Iran per gli sciiti. L’avanzata dell’Is
non sarebbe stata possibile se i sauditi non avessero visto in quel
gruppo un fattore di contenimento dell’influenza iraniana in Iraq e
in Siria. Un sostegno permesso anche dalla sua rottura con Al Qaeda,
che in Siria appoggia il Fronte al Nusra. Lo Stato Islamico, infatti,
non si nutre solo dell’apporto di giovani volontari che provengono
da ogni parte della Mezzaluna e anche da quella nuova terra d’Islam
che è diventata l’Europa. O dei proventi del petrolio trivellato
dalle zone occupare e venduto, senza troppo selezionare l’acquirente,
per autofinanziarsi. La sua capacità militare è frutto di massicci
aiuti finanziari, logistici, e di flussi di informazioni, che
provengono dal Golfo. Come sempre sono soggetti privati, o
“ufficialmente” tali, quelli coinvolti in questo tipo di
operazioni. In ogni caso i sauditi, che pure per esperienza storica
dovrebbero conoscere la pericolosità del ruolo di apprendisti
stregoni, ritengono di poter controllare il gioco. La necessità di
contrastare l’Iran, che a sua volta cerca di colpire Ryad ogni
qualvolta è possibile, fa premio su tutto. Lo stesso accade in
Siria, dove per i sauditi è fondamentale spezzare l’asse sciita
che va da Teheran alla Beirut degli Hezbollah passando per Damasco.
È una partita nella quale le alleanze
sono assai mobili. Sia tra gli Stati che tra questi e i diversi
gruppi confessionali. La Turchia, anch’essa alleata degli Usa come
l’Arabia Saudita — già in rotta di collisione con Ryad sul golpe
egiziano, la guerra di Gaza ed il giudizio sui Fratelli Musulmani —
teme che la pressione dell’Is a nord faccia riesplodere la
questione curda ed è decisa a contrastare un simile sviluppo. Quanto
ai cristiani, che in Iraq al tempo di Saddam erano alleati dei
sunniti, invocano l’aiuto degli sciiti. Gli stessi che in Siria li
proteggono dallo Stato Islamico, come rivela la loro difesa non solo
da parte delle truppe di Assad ma anche dell’Hezbollah libanese. La
soluzione del puzzle mesopotamico passa, dunque, da Ryad e Teheran.
Magari facendo una deviazione per Washington. Anche se i raid aerei
non basteranno. Senza la definizione di nuove sfere d’influenza tra
potenze regionali ostili il conflitto è destinato a continuare e a
sgretolare gli antichi confini.
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